ADOLFO,
il tuo CONVITO non è terminato. Nel gennaio del 1895 cominciava, e doveva
continuare per ogni mese di quell'anno, in Roma. Come fui chiamato anch'io a far
parte di quel "vivo fascio di energie militanti le quali valessero a
salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità che
ricopriva omai tutta la terra privilegiata dove Leonardo creò le sue donne
imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili"?
In quel gennaio cominciavo e in quel decembre avrei compito il mio quarantesimo
anno. Tutte le giornate, dal gennaio al decembre, mi si consumavano
nell'esercizio del magistero. Avevo veduta una sola volta, e di sfuggita, e
distratto da altre debite cure, Roma. Sottili facevo le spese, come par giusto
alla nostra madre Italia che povera e trita passi la vita di coloro che le
educano e istruiscono gli altri figli, nostri minori fratelli. Ero di quelli che
s'erano ritratti "a coltivare" (secondo altre parole del Proemio del
CONVITO) "a coltivare la loro tristezza come un giardino solitario".
Eppure, no: non ero di quelli; ché, in verità, non avrei cercato d'avere, per
un mio proprio gusto, di quella tristezza e il fiore e il frutto! O inameni
fiori! O frutti amarissimi! Chi vorrebbe essere l'ortolano e il giardiniere
della morte? I frutti degli alberi nei cimiteri non si mangiano, ma si lasciano
cadere. Non si dà alle bestie l'erba che nasce, così rigogliosa, così
fiorita, nei camposanti; ma si brucia. Ora io coltivavo e coltivo quella
tristezza per un qualche utile dei miei simili; per dire ad essi la parola che
forse importa più di tutte le altre: che oltre i mali necessari della vita e
che noi, quali possiamo appena attenuare, quali nemmeno attenuare, vi sono altri
mali che sono i soli veri mali, e questi sì possiamo abolire con somma e pronta
facilità. Come? Col contentarci. Ciò che piace, è sì il molto; ma il poco è
ciò che appaga. Chi ha sete, crede che un'anfora non lo disseterebbe; e una
coppa lo disseta. Ora ecco la sventura aggiunta del genere umano: l'assetato,
perché erede che un'anfora non basti alla sua sete, sottrae agli altri assetati
tutta l'anfora, a cui berrà una coppa sola. Peggio ancora: spezza l'anfora,
perché, altri non beva, se egli non può bere. Peggio che mai: dopo aver bevuto
esso, sperde per terra il liquore perché agli altri cresca la sete e l'odio. E
infinitamente peggio: si uccidono tra loro, i sitibondi, perché non beva
nessuno. Oh! bevete un po' per uno, stolidi, e poi fate di riempire la buona
anfora per quelli che verranno!
Per questo, che io dico che la poca gioia che può aver l'uomo è nel poco, io
sono, caro Adolfo, sincero. Mi fu dato di provare il pregio del poco, sì per
essermi stato da altri rubato tutto, sì per avere io ricuperato, di quel poco,
un pocolino. "Il pregio del poco" ho detto... Ma in verità che cosa
si può pretender di più poco, che d'essere lasciato, fin che piaccia alla
natura, con chi vi ha messo al mondo? Basta: parliamo d'altro. Dunque del poco
che mi fu sottratto, ho poi ricuperato un pochino. E ne mostro, come è giusto,
un pochino di gioia. Sono dunque sincero, quando parlo della delizia che c'è, a
vivere in una casa pulita, sebben povera, ad assidersi avanti una tovaglia di
bucato, sebben grossa, a coltivare qualche fiore, a sentir cantare gli
uccelli... Ma questa sincerità si chiama, dai malati di storia letteraria,
Arcadia [1]. Io sono (. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . .) un arcade. La mia, oltre che finzione sarebbe anche
sdolcinatura e mascolinatura, destinata a produrre, se non si castiga a tempo,
gli efftti più deleteri nell'organismo nazionale. Consimili, chiedo io, a
quelli che ha prodotti nel Giappone la contemplazione ingenua degli uccelli e
dei fiori? la predilezione per la piccola casa e il piccolo orto e il semplice e
puro tatami? Sciocchi! Io non credo troppo nell'efficacia della poesia, e poco
spero in quella della mia; ma se un'efficacia ha da essere, sarà di conforto e
di esaltazione e di perseveranza e di serenità. Sarà di forza; perché forza
ci ho messo, non avendo nel mio essere, semplificato dalla sventura, se non
forza, da metterci; forza di poca vista, bensì, e di poco suono, perché, senza
gale e senza fanfare, è non altro che forza.
Dunque, nemmeno allora io era chiuso in un "giardino solitario",
sebbene fossi molto segregato e lontano e oscuro. Quando mi chiamaste tra quelle
"energie militanti" tu e Gabriele d'Annunzio.
O mio fratello, minore e maggiore, Gabriele!
Già sette anni prima Gabriele aveva scritto, intorno ad alcuni miei sonetti,
parole di gran lode. Già entrando nella mia Romagna, a cavallo, col suo
reggimento, cantava (e lo diceva al pubblico italiano) certi miei versi:
Romagna solatìa, dolce paese!
Il
giovinetto, pieno di grazia e di gloria, si rivolgeva ogni momento dalla sua via
fiorita e luminosa, per trarre dall'ombra e dal deserto e dal silenzio e, sì,
dalla sua tristezza, il fratello maggiore e minore. Io nella irrequietezza della
vita, ho potuto talvolta dimenticare quel gesto gentile del fanciullo
prodigioso; ma ci sono tornato su, sempre, ammirando e amando. Ci torno su, ora,
più che mai grato, ora che raccolgo e a te, o Adolfo, re del CONVITO, consacro
questi poemi, dei quali i primi comparvero nel CONVITO e piacquero a lui.
Piaceranno agli altri? Giova sperare. O asvranno la sorte d'un altro mio scritto
conviviale, della Minerva Oscura, che poi generò altri due volumi, Sotto il
Velame e La Mirabile Visione, e ancora una Prolusione al Paradiso, e altri
ancora ne creerà? Non mi dorrebbe troppo se questi Poemi avessero la sorte di
quei volumi. Essi furono derisi e depressi, oltraggiati e calunniati, ma
vivranno. Io morrò; quelli no. Così credo, così so: la mia tomba non sarà
silenziosa. Il Genio di nostra gente Dante, la additerà ai suoi figli.
Prima di quel giorno, che verrà tanto prima per me, che per te, e per Gabriele,
non vorremo fruire il CONVITO, facendo l'ultimo de dodici libri? Narreremo in
esso ciò che sperammo e ciò che sognammo, e ciò che seminammo e ciò che
mietemmo, e ciò che lasciamo e ciò che abbandoniamo. O Adolfo, tu sarai (non
parlo di Gabriele, ché egli s'è beato) più lieto o men triste di me! Sai
perché? Il perché è in questo tuo libro. Leggi "I VECCHI DI CEO".
Tutti e due lasciano la vita assai sereni: ma uno più, l'altro meno. Questi non
ha in casa, come messe della sua vita, se non qualche corona istmia o nemea, d'appio
secco e d'appio verde (oh! secco ormai anche questo!). L'altro, e ha di codeste
ghirlande, e ha figli dei figli. Tu sei quest'ultimo, o Adolfo; tu sei Panthide
che ebbe il dono dalle Chariti!
Pisa, 3O giugno del 19O4.
GIOVANNI PASCOLI