LA BUONA NOVELLA

 I

 

IN ORIENTE

 

I

 

Si vegliava sui monti. Erano pochi

pastori che vegliavano sui monti

di Giuda. Quasi spenti erano i fuochi.

 

Altri alle tombe mute, altri alle fonti

garrule, presso. Il plenilunio bianco

battea dai cieli sopra le lor fronti.

 

Ognun guardava ai cieli, come stanco,

stanco nel cuore; ognuno avea vicino

il dolce uguale ruminar del branco.

 

Sostava sino all'alba del mattino

il cuor del gregge, sazio di mentastri;

ma il cuore de' pastori era in cammino

 

sempre; ch'erano erranti come gli astri,

essi: avean la bisaccia irta di peli

al collo, e tra i ginocchi i lor vincastri,

 

e cinti i lombi, e nella mano steli

d'issopo. E alcuno, come è lor costume,

cantava, fiso, come stanco, ai cieli.

 

E il canto, sotto i cieli arsi dal lume,

a piè dell'universo, era sommesso,

era non più che un pigolìo d'implume

 

caduto, sotto il suo grande cipresso.

 

 

II

 

Maath cantava: - O tu che mai non poni

il tuo vincastro, e che pari nell'alto

le taciturne costellazïoni,

 

Dio! che la nostra vita cader d'alto

fai, come pietra, dalla tua gran fionda...

la pietra cade sopra il Mar d'asfalto.

 

Pietra ch'è nel Mar morto e non affonda,

la vita! Cosa grave che galleggia,

e va e va dove la porta l'onda!

 

O Dio, noi siamo come questa greggia

che va e va, né posso dir che arrivi,

nemmen se giunga al pozzo della reggia! -

 

Addì cantava: - Tu, sola tu, vivi,

o greggia, che non mai dalle tue strade

vedi la Morte ferma là nei trivi.

 

Vedo qualche smarrito astro che cade:

muore anche l'astro. Ma tu, pago il cuore,

stai ruminando sotto le rugiade.

 

O greggia, solo chi non sa, non muore!

Tu non odi l'abisso che rimbomba

presso il tuo dente, e strappi lieta il fiore

 

del loto eterno ai sassi della tomba.

 

 

III

 

E un canto invase allora i cieli: PACE

SOPRA LA TERRA! E i fuochi quasi spenti

arsero, e desta scintillò la brace,

 

come per improvvisa ala di venti

silenzïosi, e si sentì nei cieli

come il soffio di due grandi battenti.

 

Erano in alto nubi, pari a steli

di giglio, sopra Betlehem; già pronti

erano, in piedi, attoniti ed aneli,

 

i pastori guardando di sui monti,

e chi presso le tombe, onde una voce

uscìa di culla, e chi presso le fonti,

 

onde un tumulto scaturìa di foce:

e un angelo era, con le braccia stese,

tra loro, come un'alta esile croce,

 

bianca; e diceva: «Gioia con voi! Scese

Dio sulla terra.» Ed a ciascuno il cuore

sobbalzò verso: il bianco angelo, e prese

 

via per vedere il Grande che non muore,

come l'agnello che pur va carponi;

il Dio che vive tutto in sé, pastore

 

di taciturne costellazioni.

 

 

IV

 

Mossero: e Betlehem, sotto l'osanna

de' cieli ed il fiorir dell'infinito,

dormiva. E videro, ecco, una capanna.

 

Ed ai pastori l'accennò col dito

un angelo: una stalla umile e nera,

donde gemeva un filo di vagito.

 

E d'un figlio dell'uomo era, ma era

quale d'agnello. Esso giacea nel fieno

del presepe, e sua madre, una straniera,

 

sopra la paglia. Era il suo primo, e il seno

le apriva; e non aveva ella né due

assi: all'albergo alcun le disse: È pieno.

 

Nella capanna povera le sue

lagrime sorridea sopra il suo nato,

su cui fiatava un asino ed un bue.

 

- Noi cercavamo Quei che vive... - entrato

disse Maath. Ed ella con un pio

dubbio: - Il mio figlio vive per quel fiato...

 

- Quei che non muore... - Ed ella: - Il figlio mio

morrà (disse, e piangeva su l'agnello

suo tremebondo) in una croce... - Dio... -

 

Rispose all'uomo l'Universo: È quello!

 

 

 

II

 

IN OCCIDENTE

 

I

 

Grande, lungo le molte acque, al sussurro

del fiume eterno, sopra i sette monti,

 bianca di marmo in mezzo al cielo azzurro,

 

Roma dormiva. Agli archi quadrifronti

battea la luna; e il Tevere sonoro

fiorìa di spuma percotendo ai ponti.

 

Alto fulgeva col suo tetto d'oro

il Capitolio: ma la notte mesta

adombrava la Via Sacra del Foro.

 

Nell'ombra un lume: il fuoco era di Vesta,

che tralucea. Nel tempio le Vestali

dormian ravvolte nella lor pretesta.

 

Era la notte dopo i Saturnali.

Nelle celle de' templi, sui lor troni,

taceano i numi, soli ed immortali.

 

Intorno alla Dea Madre i suoi leoni

giacean nel sonno. Gli ebbri Coribanti

dormian con nell'orecchio ululi e tuoni.

 

Rosso di sangue uno giaceva avanti

la Dea. Dischiuso il tempio era di Giano.

Esso attendeva, coi serrami infranti,

 

l'aquile che predavano lontano.

 

 

II

 

Roma dormiva, ebbra di sangue. I ludi

eran finiti. In sogno le matrone

ora vedean gladiatori ignudi.

 

Ne' triclini ai dormenti le corone

eran cadute, e s'imbevean le rose

nel sangue che fluì dal mirmillone.

 

Dormivan su le umane ossa già rose,

le belve in fondo degli anfiteatri;

e gli schiavi tornati erano cose.

 

Dopo la breve libertà, negli atrï

giacean gli ostiari alla catena, quali

cani la cui leggera anima latri.

 

Era la notte dopo i Saturnali;

ed ogni schiavo dalla tarda sera

dormiva, udendo ventilar grandi ali,

 

e gracidare. Erano cigni a schiera

sul patrio fiume... No: su l'Esquilino

erano corvi in una nube nera...

 

Ei tesseva e stesseva il suo destino:

vedea sua madre; poi sentia la voce

del banditore: apriva al suo bambino

 

le braccia, e le sentia fitte alla croce.

 

 

III

 

Roma dormiva. Uno vegliava, un Geta

gladïatore. Egli era nuovo, appena

giunto: il suo piede, bianco era di creta.

 

L'avean, col raffio, tratto dall'arena

del circo; e nello spolïario immondo

alcun nel collo gli aprì poi la vena,

 

Rantolava; il silenzio era profondo:

il cader lento d'una goccia rossa

solo restava del fragor del mondo.

 

Ma d'uomini gremita era la fossa

in cui giaceva. All'occhio suo, tra un velo,

parea scoprirne e ricoprirne l'ossa.

 

Ed era solo, e l'uomo che col gelo

lo pungea di sua cute, più lontano

gli era del più lontano astro del cielo;

 

più della terra sua, più del suo piano

lunghesso l'Istro, e de' suoi bovi ch'ora

sdraiati ruminavano pian piano,

 

e de' suoi figli ch'attendean l'aurora,

piccoli nella lor nomade cuna,

e del suo plaustro, ch'era sua dimora,

 

là fermo e nero al lume della luna.

 

 

IV

 

E venne bianco nella notte azzurra

un angelo dal cielo di Giudea,

a nunzïar la pace; e la Suburra

 

non l'udiva; e nel tempio alto di Rhea

bandì la pace; e non alzò la testa

quell'uomo rosso ai piedi della Dea;

 

e vide, un fuoco, e disse, PACE; e Vesta

ardeva, e le Vestali al focolare

sedeano avvolte nella lor pretesta;

 

e vide un tempio aperto, e dal sogliare

mormorò, PACE; e non l'udì che il vento

che uscì gemendo e portò guerra al mare.

 

E l'angelo passò candido e lento

per i taciti trivi, e dicea, PACE

SOPRA LA TERRA!... Udì forse un lamento...

 

Vegliava, il Geta... Entrò l'angelo: PACE!

disse. E nella infinita urbe de' forti

sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace·

 

Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti,

e i morti ai morti, e le tombe alle tombe

e non sapeano i sette colli assorti,

 

ciò che voi sapevate, o catacombe.