TIBERIO |
I Discende
a notte Claudïo dal monte Borèo:
col vento dalle nubi fuori rompe
la luna e gli balena in fronte, fuggendo.
Egli rimira, a quei bagliori, Livia
e l'infante: intorno vanno frotte silenziose
di gladïatori. S'ode
tra lunghe raffiche interrotte l'Eurota
in fondo mormorar sonoro; s'ode
un vagito. E nella dubbia notte le
nere selve parlano tra loro. II Rabbrividendo
parlano le selve di
quel vagito tremulo, che a scosse va
tra quel cauto calpestìo di belve. Sommessamente
parlano, commosse ancor
dal vento, che vanì; dal vento Borea,
che le aspreggiò, che le percosse. Dal
ciel lontano a quel vagito lento egli
era accorso; ma nell'infinito ansar
di tutto, dopo lo spavento, risuona
ancora quel lento vagito. III Chi
vagisce, è Tiberio. E il vento accorre dal
ciel profondo tuttavia; spaura le
nubi in fuga, e sbocca dalle forre. Le
selve il mormorìo della congiura mutano
in urlo, e gli alberi giganti muovono
orridi in una mischia oscura. Lottano
i pini coi disvincolanti frassini,
e l'elci su la stessa roccia coi
faggi urtano i vecchi tronchi infranti. E
il fiore della fiamma apresi e sboccia. IV Sboccia
la fiamma, e il vento la saetta, come
una frusta lucida e sonante, via
per ogni pendìo, per ogni vetta. Il
vento con la frusta fiammeggiante, col
mugghio d'una mandrïa di tori, cerca
il vagito del fatale infante. Ardono
i monti; ma ne' suoi due cuori Livia
tranquilla, indomita, ribelle, tra
i rossi òmeri de' gladïatori, nutre
Tiberio con le sue mammelle.
|