I VECCHI DI CEO |
I I
DUE ATLETI Nella
rocciosa Euxantide, sul monte tra
la splendida Iulide e l'antica sacra
Carthaia, cauto errava in cerca non
so se d'erbe contro un male insonne o
di fiori per florido banchetto, Panthide
atleta: atleta già, ma ora medico,
di salubri erbe ministro. E
coglieva, più certo, erbe salubri, ché
il capo bianco non chiedea più fiori. Partito
già da Iulide pietrosa era
su l'alba. Or l'affocava il sole; sì
che saliva al vertice del monte folto
di quercie nel cui mezzo è l'ara del
Dio che manda all'arsa Ceo le pioggie tra
un bombir lieto. E giunse tra le quercie sul
ventilato vertice. E gli occorse uno
ascendente per la balza opposta. E
riconobbe un vecchio ospite, atleta anch'esso:
Lachon, che vedeasi in casa molte
corone, il secco appio dell'Istmo, il
Nemèo verde, non ormai già verde, e
l'alloro e l'olivo: altri germogli no;
non di cari figli altra corona. Ché
solo egli era. E per la via selvaggia coglieva
anch'esso erbe salubri o fiori, per
morbo insonne o florido convito: ma,
più certo, salubri erbe, ché un cespo svelgendo
allora da un sassoso poggio, le
vecchie rughe egli facea più tante. Ora
gli stette agli omeri Panthide, non
anco visto, immobile, col fascio dei
lunghi steli dietro il dorso; e l'altro sentì
che un'ombra gli pungea la nuca; e
si voltò celando la mannella della
sua messe. Ma con un sorriso a
lui mostrò la sua Panthide, e disse: «Oh!»
disse «vedo. Non è crespo aneto, Lachon,
per un convito; non è mirto; né
cumino né molle appio palustre...» Erano
cauli con, nel gambo, rosse chiazze
e con bianchi fiorellini, in cima. E
Lachon interruppe: «Ospite, il Tempo, che
viene scalzo, all'uno e all'altro è giunto, della
cicuta; come è patria legge: CHI
NON PUò BENE, MALE IN CEO NON VIVA.» Disse
Panthide: «Ricordiamo il detto dell'usignolo
che di miele ha il canto, dell'isolana
ape canora: Il cielo alto
non si corrompe, non marcisce l'acqua
del mare... L'uomo oltre passare non
può vecchiezza e ritrovare il fiore di
gioventù.»
«Noi ritroviamo il fiore della
cicuta!» con un riso amaro Lachon
riprese, e poi soggiunse: «Un fascio coglierne,
tutto in un sol dì, per vecchi, ospite,
è grave. Oh! non ha senno l'uomo! Sin
dalla lieta gioventù va colto, un
gambo al giorno, il fiore della morte!» II L'INNO
ETERNO E
sederono all'ombra d'una quercia l'un
presso l'altro. Sotto la lor vista tra
bei colli vitati era una valle già
bionda di maturo orzo; e le donne mietean
cantando, e risonava al canto l'aspro
citareggiar delle cicale su
per le vigne solatìe dei colli. E
nella pura cavità del cielo, di
qua di là si rispondean due voci parlando
di lor genti che lontane tenea
Corinto dove è un tempio dove sono
fanciulle ch'hanno ospiti tanti... E
nel mezzo alla valle era Carthaia simile
a bianco gregge addormentato da
quell'uguale canto di cicale. Il
mare in fondo, qualche vela in mare, come
in un campo cerulo di lino un
portentoso biancheggiar di gigli. Tra
mare e cielo, sopra un'erta roccia, la
Scuola era del coro: era, di marmo candido,
la ronzante arnia degl'inni. Ivi
le frigie tibie, ivi le certe doriche
insieme confondean la voce simile
ad un gorgheggio alto d'uccelli tra
l'infinito murmure del bosco. Ivi
sonava, dolce al cuor, la lode del
giovinetto corridore e il vanto del
lottatore; e per sue cento strade l'inno
cercava le memorie antiche, volava
in cielo, si tuffava in mare, incontrava
sotterra ombre di morti, tornando,
ebbro di gioia ebbro di pianto, con
due fogliuzze a coronar l'atleta. Era
lontano, e non vedean che il bianco dei
marmi al sole, i due pensosi vecchi. Eppur
di là l'alterna eco d'un inno giungeva
al cuore, o forse era nel cuore. Da
destra il giorno si movea col sole, portando
il canto e l'opere di vita, verso
sinistra, al mesto occaso, donde co'
suoi pianeti si volgea la notte tornando
all'alba e conducendo i sogni, echi
e fantasmi d'opere canore. Fluiva
il giorno, rifluìa la notte. Sotto
il giorno e la notte, e la vicenda di
luce e d'ombra, di speranza e sogno, stava
la terra immobile. Ma il coro era
più rapido. Arrivava un'onda dal
mare, un'altra ritornava al mare. Era
la vita. Dopo il moto alterno d'un'onda
sola che salìa cantando scendea
scrosciando, mormorava il mare immobilmente.
E molte vite in fila salìan
dal mare riscendean nel mare: quindi
l'eterno. E dall'eterno altre onde: i
figli. Altre onde dall'eterno: i figli dei
figli. E onde e onde, e onde e onde... III EFIMERI Disse
Panthide: «Ospite, ho cinque figli molto
lodati, come sai: Zelòto il
primo: Argeo, buono alla lotta, eppure fiorito
appena di peluria il labbro, l'ultimo:
è questi ora su l'Istmo, ai giochi. Lachon,
ascolta. Ieri udii, su l'alba, un
grido in casa, un fievole vagito che
mi chiamava al talamo del figlio più
grande. Andai. Vidi una luce: un uomo novo
fiammante! E con le sue manine egli
annaspava come a dire - O vedi ch'io
l'ho pur qui la lampada di vita accesa
a quella ch'alla tua s'accese! Più
non è danno se la tua si spenge: Son
io Panthide. Puoi partire, o nonno! - Parlato
ch'ebbe, egli movea le labbra come
assetato... E io dovrei tutt'ora tener
le labbra al pispino del fonte, vietando
io vecchio al mio novello il bere? gli
dovrei forse intorbidar la polla? Io
parto. E, come io sono lui, non muoio.» E
Lachon disse: «Oh! io vorrei che un poco la
piccoletta fiaccola negli occhi miei
balenasse! Oh! io vorrei per poco con
la mia mano ripararle il vento! vorrei,
seduto per qualche anno al fonte di
vita, senza berne più che un sorso, vorrei
vedere quella rosea bocca arrotondarsi
sul bocciuol materno! Ospite,
io credo, più di me tu muori.» Tacquero
intenti a udirsi, dentro, l'inno del
lor respiro, onda che viene e onda che
va, seguite da un pensiero immoto. Le
mietitrici avean ripreso il canto tra
l'orzo biondo, e risonava al canto l'aspro
citareggiar delle cicale. E
disse Lachon: «Troppo bella, o sacra isola
Ceo! Chi nacque in te, che volle morire
altrove? Ma sei poca a tanti!» A
cui Panthide: «Poca sì... ma Delo appena
morti i figli suoi bandisce. Partono
i morti dalla sacra Delo sopra
la nave nera, esuli, e vanno mirabilmente
pallidi, sul mare, alla
Rhenèa dove non son che morti; e
sole capre e pecore selvaggie belano
errando sopra il lor sepolcro.» Lachon
pensava e su la palma il capo reggea
dubbioso. «Io mi ricordo» ei disse «un
inno udito, ora è molt'anni, in Delfi, lungo
l'Alfeo: Siamo d'un dì! Che, uno? che,
niuno? Sogno d'ombra, l'uomo!» L'ombra
di lui teneva su la palma il capo: pensava,
a piè dell'albero; e vicine stridere
udiva l'ombre delle foglie. IV L'INNO
ANTICO Poi
raccolti i lor fasci di cicute sorsero
entrambi, e dissero: Va sano!... Va
sano!... E ritornavano cogliendo ancor
pei greppi i fiori della morte. Esalava
il canùciolo e il serpillo odor
di cera e dolce odor di miele. Ronzavano
api e scarabei de' fiori. E
Lachon giunse al prònao d'Apollo, alla
Scuola del coro. Era già sera, una
sera odorosa; ed il suo nome udì
gridare a voci di fanciulli. Eran
fanciulli che, in lor giochi, un inno volean
cantare a mo' dei grandi, un inno vecchio,
che ognuno aveva, in Ceo, nel cuore. Presto
un impube corifeo la schiera ebbe
ordinata, e già da destra il coro movea
cantando per la via del sole, verso
la sera, con gridìo d'uccelli. Pubertà, fonte
segreto che spiccia senza
un tremito e un gorgoglio, ma
che di tenero musco veste
insensibilmente lo scoglio: a
te dia Lachon l'erba del leone, l'appio
verde del bosco Nemèo. Conobbe
l'inno, il primo inno cantato a
lui quand'era il suo destino in boccia tuttora,
quanti anni passati? Tanti! E
da sinistra volsero i fanciulli, come
i notturni aurei pianeti, a destra. Nulla
sta! Tutto
nel mondo si muove, corre,
o giovinetto atleta, come
nell'inclito stadio tu
col piede di vento alla meta: di
che la prima delle tue corone tu
riporti all'Euxantide Ceo. I
fanciulli si volsero con gli occhi al
cielo e al mare, fermi su la terra sacra,
alzando le acute esili voci. Ora
è ora d'amare. L'appio
verde vuoi sol tu? Corrano,
un tempo, le gare, dove
Lachon non sia più, giovani
ch'ansino e rapidi sbuffino l'anima tua,
la tua, lungo l'Alfeo! E
nel cospetto dei fanciulli apparve Lachon
il vecchio con le sue cicute, e
intorno al vecchio corsero i fanciulli gridando:
«A noi, perché ci sia ghirlanda! l'appio
a noi! l'appio verde! l'appio verde!» V L'INNO
NUOVO E
Panthide a quell'ora era pur giunto sotto
l'aerea Iulide natale. E
vide in mare una bireme, e vide che
ammainando entrava già nel porto. E
dall'aerea Iulide e dal grande leon
di pietra accovacciato in vetta, il
popolo scendea lungo l'Elixo, scendea
dall'alto in lunga fila al mare. Veniano
primi i giovinetti a corsa, dando
alla brezza i riccioli del capo; poi
le donne altocinte, ultimi i vecchi, spartendo
tra due passi una parola. Poi
che giungea dall'Istmo, la bireme, portando
alfine i buoni atleti a casa, e
quante niuno ancor sapea, ghirlande. E
trasse al lido anche Panthide, in seno celando
il fascio delle sue cicute. Stava
in disparte. Ed ecco dalla nave scese
una schiera di settanta capi bruni,
tutti fioriti di corimbi, e
su la spiaggia stettero. Un chiomato citaredo
sedé sopra un pilastro, e
presso lui gli auleti con le lunghe tibie
alla bocca. E il mare eterno, il mare alterno,
a spiaggia sospingea l'ondate, le
ricogliea, così tra il canto e il pianto. Stridé
la tibia, tintinnì la cetra, e
il coro alzò tra il sussurrìo del mare un
inno di Bacchylide. In disparte era
Panthide, e il vecchio cuor batteva contro
la manna delle sue cicute. L'onda
ascendeva, discendeva l'onda; e
il coro andò, poi ritornò sul lido. O
sacra Ceo! mosse
ver te la fulgida Fama
che in alto spazia, a
te recando un messo pieno
di grazia, che
nella lotta il pregio fu
del valido Argeo; e
noi la grande gloria,
sull'istmio vertice, venuti
dall'Euxanti- d'isola
dia, facemmo chiara
coi canti nostri,
noi coro adorno di
settanta ghirlande: ed
or la musa indigena suscita
il dolce strepito di
tibie lyde per
onorar d'un inno il
tuo figlio, o Panthide! Udì
Panthide, e il cuor batté più forte contro
la manna delle sue cicute. Ora
poteva sciogliere la vita felicemente,
come alcuno un fascio d'erbe
e di fiori che nel giorno colse, sfa,
su la sera, che ne fa ghirlanda, tornato
a casa. Ché dei cinque figli niuno
lasciava senza lode in terra. Gli
avea ben fatto il Sole, e dalle Grazie avea
sortito ciò Che all'uomo è meglio. Ammirato
dagli uomini mortali tornava
a casa, per pestare, il saggio medico,
l'erbe nel mortaio di bronzo. E
la notte era dolce, aurea; tranquillo era
il suo cuore. Ché il Panthide nuovo s'era
acquetato sul materno petto, e
il forte Argeo, stanco di mare e gioia, dormiva,
già sognando altre corone. Buona,
la sorte! buona! Ché concesso non
gli era mica di salire al cielo! |