POEMI DI PSYCHE

 

I

 

PSYCHE

 

O Psyche, tenue più del tenue fumo

ch'esce alla casa, che se più non esce,

la gente dice che la casa è vuota;

più lieve della lieve ombra che il fumo

disegna in terra nel vanire in cielo:

sei prigioniera nella bella casa

d'argilla, o Psyche, e vi sfaccendi dentro,

pur lieve sì che non se n'ode un suono;

ma pur vi sei, nella ben fatta casa,

ché se n'alza il celeste alito al cielo.

E vi sfaccendi dentro e vi sospiri

sempre soletta, ché non hai compagne

altre che voci di cui tu sei l'eco;

ignude voci che con un sussulto

sorgere ammiri su da te, d'un tratto;

voci segrete a cui tu servi, o Psyche.

 

Intorno alla tua casa, o prigioniera,

pasce le greggi un Essere selvaggio,

bicorne, irsuto; e sui due piè di capro

sempre impennato, come a mezzo un salto.

E tu ne temi, ch'egli là minaccia

impazïente, e sempre ulula e corre;

e spesso guazza nel profondo fiume,

come la pioggia, e spesso crolla il bosco,

al par del vento; e non è mai l'istante

che tu non l'oda o non lo veda, o Psyche,

Pan multiforme. Eppur talvolta ei soffia

dolce così nelle palustri canne,

che tu l'ascolti, o Psyche, con un pianto

sì, ma che è dolce, perché fu già pianto

e perse il tristo nel passar dagli occhi

la prima volta. E tu ripensi a quando

vergine fosti ad un'ignota belva

data per moglie, crudel mostro ignoto.

E sempre al buio tu con lui giacesti

rabbrividendo docile, ed alfine,

vigile nel suo sonno alto di fiera,

accesa la tua piccola lucerna,

guardasti; e quella belva era l'Amore.

 

E lo sapesti solo allor che sparve,

l'Amore alato. E ne sospiri e l'ami.

E nella casa di ben fatta argilla,

dove sei schiava delle voci ignude,

sempre l'aspetti, che ritorni, e dorma

con te. Tu piangi, quando Pan, la notte,

fa dolcemente sufolar le canne;

piangi d'amore, o solitaria Psyche,

nella tua casa, dove più non tieni

posto, che l'ombra, e non fai più rumore,

che l'alito; e le voci odi che fanno

all'improvviso a te cader dal ciglio

la stilla che non ti volea cadere.

 

Però che sono e sùbite e severe

le più; ma più di tutte una che sempre

contende e grida, ad ogni tuo sospiro

verso l'alata libertà: «Non devi!»

Quella non t'ama, credi tu; ma un'altra

è, sì, che t'ama, e ti favella a parte

e ti consola, e teco piange, e parla

così sommessa che tu credi a volte

che sia meschina prigioniera anch'ella.

 

E tu devi, d'un mucchio alto di semi,

far tanti mucchi, e sceverare i grani

d'orzo, i chicchi di miglio, le rotonde

veccie, i bislunghi pippoli di rena.

E come fine polvere di ferro

sparsa per tutto il mucchio è la semenza

dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi

trepida, inerte; e poi con le tue dita

d'aria ti provi, scegli a lungo i semi

del papavero immemore, e in un giorno

tanti ne cogli, quanti appena udresti

cantare nella secca urna d'un fiore.

E piangi, ed ecco vengono le figlie

dell'alma Terra, frugole e succinte,

dalla pineta dove a Pan selvaggio

frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.

Non so chi disse alle operaie nere

di Pan la cosa. Ma si fa d'un tratto

un brulichìo per l'odorata selva;

e sgorgano esse a frotte dai minuti

lor collicelli, mentre Pan nell'ombra

s'addorme al canto delle sue cicale.

E salgono alla casa, onda su onda,

fila incessante di formiche, ed opre

vengono a te; ma prima i grani d'orzo,

pesi, e i bislunghi pippoli di vena

portano, due di loro uno di quelli;

fanno le veccie di tra il biondo miglio,

poi fanno il miglio minimo, poi vanno.

E resta a te la polvere di semi,

di cui ciascuno dal suo nulla esprima

un lungo stelo e il molle fior del sonno.

 

E il molle sonno tu lo chiami, o Psyche,

dacché di quelle voci una, la voce

che non t'ama e ti sgrida aspra, ti disse:

«Vil fanticella, prendi questa brocca

e va per acqua al nero fonte; al fonte

di cui sgorga l'oscura onda, sotterra,

al fiume morto. Esci per poco, e torna.»

E tuo mal grado, o schiavolina, andasti

con la tua brocca di cristallo al fonte;

e là vedesti, su la grotta, il drago,

l'insonne drago, sempre aperti gli occhi;

e tu chiudesti, o Psyche, i tuoi, da lungi

rabbrividendo; ed ecco, non veduto,

uno ti prese l'anfora di mano,

che piena in mano dopo un po' ti rese,

e dileguò. Tu lentamente a casa

tornavi smorta, e con un gran sospiro,

apristi gli occhi, e nel cristallo puro

tu guardasti l'oscura acqua di morte,

e vi vedesti il vortice del nulla,

e ne tremasti. E Pan allora un dolce

canto soffiò nelle palustri canne,

che tu piangesti a quel pensier di morte

come piangevi per desìo d'amore:

lo stesso pianto, così dolce, o Psyche!

 

Ma pur ne tremi, o Psyche, ancora, e mesta

invochi il sonno, perché a te nasconda

quell'altro sonno, che non vuoi, più grande!

Ma delle voci di cui tu sei schiava,

quella che t'ama e ti consola a parte,

ecco che ti favella e ti consola:

«Povera Psyche, io so dov'è l'Amore.

Oh! l'Amore t'aspetta oltre la morte.

Di là, t'aspetta. Se tu passi il nero

fiume sotterra, troverai l'Amore.

Tremi? C'è un vecchio, vecchio come il tempo,

che tutti imbarca, e non fa male a Psyche!

E c'è un cane, oltre il fiume, che divora

ciò ch'è di troppo, e non fa male a Psyche!

Pallida Psyche, prendi tra le labbra

che sembrano due petali appassiti

di morta rosa, un obolo, e leggiero

tienlo, così, che te lo prenda il vecchio,

né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.

E prendi una focaccia, anche, col miele

e col mite papavero, e leggiera

tienla, così, che te la prenda il cane,

né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.

Appena desta, rivedrai l'Amore.»

 

Tu la focaccia prendi su, col miele,

tu chiudi nelle labbra scolorite

l'obolo; e non so quale alito lieve

ti porta via. Per dove passi, un'ombra

passa, non più che d'ali di farfalla.

Ma tu non dormi; e lievemente il vecchio

ti prende il piccolo obolo di bocca;

ma tu lo senti, e senti anche la rauca

lena del vecchio rematore, come

se alcuno seghi il duro legno, e come

se alcuno picchi su la putre terra;

anche senti un latrato, solitario;

e tremi tanto, che di man ti sfugge

ah! la focaccia, e fa un tonfo nell'acqua

morta del fiume. Ed anche tu vi cadi,

cadi nel queto vortice del nulla.

 

Ma Pan il gregge pasce là su l'orlo

del morto fiume. Non udivi il suono,

là, della vita? Tremuli belati

e cupi mugli, il gorgheggiar d'uccelli

tra foglie verdi, e sotto gravi mandre

lo scroscio vasto delle foglie secche.

E ti cullava nella vecchia barca

un canto lungo, che da te più sempre

s'allontanava sino a dileguare

nella dimenticata fanciullezza.

Pan! era Pan! Egli ti porge un braccio

ispido, e su ti leva intirizzita,

gelida, o Psyche; immemore; e ti corca

nuda così, lieve così, nel vello

del suo gran petto, e in sé ti cela a tutti.

 

Quali alte grida là dal mondo! Quali

tristi lamenti intorno alla tua casa,

d'argilla, o Psyche, donde più non esce

il tenue fumo, alla tua casa vuota

di cui sparve il celeste alito in cielo.

Ti cercano le genti, o fuggitiva.

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ti cerca

nel morto fiume il vecchio che tragitta

tutti di là. Ti cerca, acre fiutando,

dall'altra riva il cane che divora

ciò ch'è di troppo. Tutti, o Psyche, invano!

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ma forse

nelle cannucce. Ma chi sa? Tra il gregge.

O nel vento che passa o nella selva

che cresce. O sei nel bozzolo d'un verme

forse racchiusa, o forse ardi nel sole.

 

Ché Pan l'eterno t'ha ripresa, o Psyche.

 

 

II

 

LA CIVETTA

 

«O tristi capi! O solo voci! O schiene

vaie così come la biscia d'acqua!

Via di costì!» gridava agro il custode

della prigione. Era selvaggio il luogo,

deserto, in mezzo della sacra Atene,

con sue deformi catapecchie al piede

di bigie roccie dalle strie giallastre,

piene di buchi, verdeggianti appena

qua e là di partenio e di serpillo.

Il sole era sui monti, e nell'azzurro

passava fosco a ora a ora un volo

d'aspri rondoni che girava attorno,

sopra la rocca, alla gran Dea di bronzo,

forte strillando. Ed anche in terra un gruppo

di su di giù correva, di fanciulli;

strillando anch'essi. Ed ecco s'aprì l'uscio

della casa degli Undici, e il custode

alzò dal tetro limitar la voce.

 

Egli diceva: «È per voi scianto ancora?

Ieri da Delo ritornò la nave

sacra, e le feste sono ormai finite.

Non è più tempo di legar col refe

gli scarabei! Non più, di fare a mosca

di bronzo!» Un poco più lontano il branco

trasse, in silenzio. Poi gridarono: «Ohe?

che parli tu di scarabei, di mosche?

È una civetta.» In vero una civetta

tutta arruffata era nel pugno a Gryllo

figlio di Gryllo facitor di scudi,

ch'era il più grande. Ma l'avea pocanzi

in un crepaccio Hyllo predata, il figlio

d'Hyllo vasaio, ch'era il più piccino.

In un crepaccio della bigia rupe,

sotto un cespuglio di parïetaria,

vide due rilucenti Hyllo stateri

d'oro, nell'ombra, e s'appressò; ma l'oro

non c'era più: poi li rivide i due

fissi e tondi nell'ombra occhi d'uccello.

Una civetta della Dea di Atene

immobilmente riguardava il figlio

d'Hyllo vasaio; che con le due mani

all'improvviso l'abbrancò su l'ali,

e la portava. E Coccalo sorvenne

che gliela prese; a Coccalo la prese

Cottalo; e Gryllo a lui la vinse: allora

Cottalo pianse, Coccalo sorrise,

e il piccolino frignò dietro il grande.

 

Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede

della civetta, e la facea sbalzare

e svolazzare al caldo sole estivo.

E dai tuguri altri fanciulli, figli

d'arcieri sciti, figli di metèci,

trassero. E in mezzo a tutti la civetta

chiudeva apriva trasognata gli occhi

rotondi, fatti per la sacra notte.

E il coro «Balla» cantò forte «o muori!»

 

E nel carcere in tanto era un camuso

Pan boschereccio, un placido Sileno

col viso arguto e grossi occhi di toro.

Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi

un giovanetto dalla lunga chioma,

bellissimo. E molti altri erano intorno,

uomini, muti. Ed a ciascuno in cuore

era un fanciullo che temeva il buio;

e il buon Sileno gli facea l'incanto.

«Voi non vedete ciò ch'io sono. Io sono»

egli diceva «ciò che di me sfugge

agli occhi umani: l'invisibile. Ora

s'ei guarda, come fosse ebbro, vacilla;

ma non è lui, non è quest'io, che trema:

trema ciò ch'egli guarda, che si vede,

che mai non dura uguale a sé, che muore.

Io, di me, sono l'anima, che vive

più, quanto più vive con sé, lontana

dal mondo, nella sacra ombra dei sensi.

E s'ella parta libera per sempre,

nella notte immortale, ove si trovi

ella con tutto che non mai vacilla,

ella morrà? non vedrà più?» Qualcuno

«Vedrà» rispose; «Non morrà» rispose.

 

Poi fu silenzio. Il musico vegliardo

Pan era solo, accanto al suo pensiero,

invisibile. Il bello adolescente,

supino il capo, con la lunga chioma

spiovente, lungi dalla nuca, all'aria,

beveva l'eco delle sue parole.

Ed ecco entrò dall'abbaino un canto

d'acute voci: «Balla, dunque, o muori!»

 

E il custode dal tetro uscio i fanciulli

striduli fece lontanar nel sole,

fuor dell'ombra dei tetti e della roccia.

Ma là, nel sole, molleggiò più goffa

sul pugno a Gryllo, s'arruffò, chiudendo

aprendo gli occhi, la civetta, e i bimbi

ridean più forte. Onde il custode: «O Gryllo

figlio di Gryllo, tu che sei più savio,

dà retta. Sai: codesto uccello è sacro

alla Dea nostra, a cui tu canti l'inno

movendo nudo coi compagni nudi

per la città. La nostra Dea sa tutto,

ché gli occhi ha grigi, di civetta, e vede

con essi per l'oscurità del cielo.»

«No, che non vede» disse Hyllo «né vuole

vedere, e chiude gli occhi tondi al sole.»

«Passero, taci. Tu, Gryllo» il custode

riprese, «grande già mi sei. Conosco

tuo padre, il buono artefice di scudi.

Tu gli somigli come fico a fico.

Fa chetare le tortore ciarliere.

C'è dentro la mia casa uno che muore!»

«Chi? Questa sera?» «Al tramontar del sole!»

«Perché?» «La nave ritornò da Delo.

Ed egli vide un sogno: una vestita

di bianche vesti, che gli disse: O uomo,

il terzo giorno toccherai la terra!

E la cicuta, sì, berrà dentr'oggi.

Tra poco, o Gryllo. Che in silenzio ei muoia!»

 

Tacquero allora i giovanetti a lungo

pensando all'uomo che così, per mare,

tornava in patria. E Gryllo disse: «È l'uomo

che andava scalzo e passeggiava in aria,

e diceva che il sole era una pietra,

e sapeva che terra era la luna...»

Ed in silenzio trassero alla roccia

tutti, e stettero presso la prigione,

come aspettando. E la civetta, al lento

filo costretta, si posò sul ramo

d'un oleastro che sporgea dal masso

sopra i ricciuti capi dei fanciulli.

Si chinò, s'arruffò, molleggiò, cieca

per la gran luce rosea del tramonto.

E dai tegoli un passero la vide

e garrì contro la non mai veduta,

e vennero altri passeri al garrito;

e il frastuono eccitò le rondinelle,

e fuori ognuna si versò dal nido;

e da un tacito ombroso bosco sacro

venne la capinera e l'usignuolo.

E grande era lo strepito e il bisbiglio,

pur non udito dai fanciulli, attenti

ad una voce che venìa di dentro,

di chi tornava alla sua patria terra

invisibile, e placido parlava

a un'altra barca che incrociò sul mare.

 

E poi cessato il favellìo di dentro,

un dei fanciulli disse: «Hyllo, tu monta

su le mie spalle, e narra quel che vedi.»

Hyllo montò sul dorso a quel fanciullo,

e sogguardò per l'abbaino: «Io vedo.»

«Hyllo, che vedi?» «Un buon Sileno vecchio.»

«Che dice?» «Dice che andrà via, che il morto

non sarà lui: seppelliranno un altro.»

Il sole in tanto ritraeva i raggi

dai bianchi templi della sacra Atene.

Sola splendea la cuspide dell'asta

che aveva in mano la gran Dea di bronzo.

Brillò d'un tratto e poi si spense; e il sole

calò raggiando dietro il Citerone.

«Hyllo, che vedi?» «Beve.» «La cicuta!»

«Piangono, gli altri; uno si copre il capo

con la veste, uno grida.» «Esso, che dice?»

«Dice di far silenzio, come quando

si sparge l'orzo, presso l'ara, e il sale.»

 

Ed era alto silenzio, che s'udiva

il passo scalzo su e giù dell'uomo,

e poi nemmeno si sentì quel passo..

«Hyllo, che vedi?» «È sul lettuccio; un altro

gli preme un piede. S'è coperto. Muore...»

«Dunque non esce?» «Ora si scopre. Dice:

Un gallo al Dio che ci guarisce i mali!»

«Che? La cicuta è un farmaco salubre?»

«Uno gli chiude ora la bocca e gli occhi.»

«Dunque non parte? è sempre lì?» «Sì, morto.»

 

E bisbigliando stavano i fanciulli

lungo la roccia, al buio. Ecco e la porta

s'aprì. N'usciva con singhiozzi e pianti

un vecchio, un giovinetto, altri poi molti

tristi gemendo. E dall'inconscie dita

il filo uscì con un lieve urto a Gryllo:

e il sacro uccello della notte in alto

si sollevò con muto volo d'ombra.

E i compagni del morto ed i fanciulli

scosse un subito fremito, uno strillo

di sopra il tetto, Kikkabau... dall'alto,

Kikkabau... di più alto, Kikkabau...

dal cielo azzurro dove ardean le stelle.

E disse alcuno, udendo il fausto grido

della civetta: «Con fortuna buona!»