SILENO |
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Figlio di Pan, figlio del dio silvestre che
nei canneti sibila e frascheggia, là,
nell'Asopo, e frange a questa rupe il
lungo soffio della sua zampogna; tornar
nell'ombra io volli a te, Sileno, ora
che tace la diurna rissa del
maglio e della roccia, or che non odo più
lime invide, più trapani ingordi; or
che gli schiavi qua e là sdraiati sognano
fiumi barbari; e la luna prendendo
il monte, il monte di Marpessa, piove
un pallore in cui tremola il sonno. Sono
un fanciullo, sono anch'io di Paro; Scopas
il nome; palestrita: ed oggi, coronato
di smilace e di pioppo, correvo
a gara con un mio compagno: e
giunsi qui dove gl'ignudi schiavi Paflàgoni
con cupi ululi in alto tender
vedevo intorno ad una rupe le
irsute braccia ed abbassar di schianto. Ecco,
il compagno rimandai soletto al
grammatista e al garrulo flagello; ma
io rimasi ad ammirar gl'ignudi schiavi
intorno la rupe alta ululanti. Su
sfavillìo di cunei l'arguto maglio
cadeva; e io seguia con gli occhi l'opera
grande della breve bietta, ch'entra
sottile come la parola, poi
sforza il masso, come quella il cuore; quando,
con uno scroscio ultimo, il blocco s'aprì,
mostrando, come in ossea noce bianco
gariglio, te di Pan bicorne figlio,
o Sileno: e tu ridevi al sole riscintillante
sopra l'ulivete; e
tu puntavi con l'orecchie aguzze l'aereo
mareggiar delle cicale. Ma
che mai cela questa rupe? Io venni a
domandarti perché mai sorridi solo,
costì, col tuo marmoreo volto, e
come tendi le puntute orecchie al
sibilìo de' fragili canneti. Od
altro ascolti e vedi altro, Sileno? Scopas,
alunno dell'alpestre Paro, così
parlava al candido Sileno figlio
improvviso della roccia, nato sotto
martelli immemori di schiavi. Il
giovinetto gli sedea di contro sopra
un macigno, con al vento i bruni riccioli,
in mezzo a molti blocchi sparsi, come
il pastore tra l'inerte gregge. E
gli rispose il candido Sileno, o
parve, a un tratto con un volger d'occhi simile
a lampo che vaporò bianco e
scavò col fugace alito il monte. Ed
a quel lampo il giovinetto vide ciò
che non più gli tramontò dagli occhi. Vide,
sotto la scorza aspra del monte, vide
il tuo regno, o bevitor di gioia, vecchio
Sileno: una palestra: in essa sorprese
il breve anelito del lampo in
un bianco lor moto i palestriti: l'ombra
seguace irrigidì quel moto per
sempre; e stette nelle braccia tese degli
oculati pugili già pronto lo
scatto di fischiante arco di tasso, ed
alla mano al lanciator ricurvo restò
sospeso impazïente il disco in
cui pulsava il vortice di ruota, ed
alla pianta alta de' corridori l'impeto
rapido oscillò del vento: gli
efebi intenti a contemplar la gara ressero
sul perfetto omero l'asta. In
tanto a luminosi propilei, con
sul capo le braccia arrotondate, vedeva
lente vergini salire: la
pompa che albeggiò per un momento, eternamente
camminò nell'ombra. Vide,
sotto la scorza aspra del monte, emersa
dalle grandi acque Afrodite vergine,
al breve anelito del lampo che
la scopriva, con le pure braccia velar
le sacre fonti della vita: l'ombra
seguace conservò per sempre la
dolce vita ch'esita nascendo. E
vide anche la morte, anche il dolore: vide
fanciulli e vergini cadere sotto
gli strali di adirati numi, e
tutti gli occhi volgere agl'ingiusti sibili:
tutti: ma non già la madre: la
madre, al cielo; e proteggea di tutta sé
la più spaurita ultima figlia. In
tanto le Nereidi dal mare volsero
il collo, con la nivea spinta del
piede su le nuove onde sospesa; mentre
al bosco fuggivano le ninfe inseguite
da satiri correnti con
lor solidi zoccoli di becco; e
un baccanale dileguò sul monte. Il
giovinetto udì strepere trombe, gemere
conche, ed ascoltò soavi, tra
l'immensa manìa bronzosonante, squillare
i doppi flauti di loto. Ed
ecco il monte ritornò com'era, tacito
immoto, se non se nel fosco gomito
d'una forra anche appariva l'ultimo
bianco di lucenti groppe di
centauri precipiti, e sonava un
quadruplice tonfo di galoppo, che
poi vanì. Ma quando tacque il tutto, oh!
come sotto il velo di grandi acque, s'udiva
ancora eco di cembali, eco di
timpani, eco di piovosi sistri; ed
euhoè ed euhoè gridare come
in un sogno, come nel gran sogno di
quelle rupi candide di marmo dormenti
nella sacra ombra notturna. E
con quel grido si mescea nell'eco il
lungo soffio della tua zampogna, o
Pan silvano; e percotea la fronte del
sorridente bevitor di gioia, e
del fanciullo che sedea tra i blocchi, quale
un pastore tra l'inerte gregge.
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