ALBERI E FIORI
I
FIOR D'ACANTO
a Egisto Cecchi
Fiore di carta rigida, dentato
petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello;
fiore che ringhi dai diritti scapi
con bocche tue di piccoli ippogrifi;
fior del Poeta! industrïa te d'api
schifa, e tu schifi.
L'ape te sdegna, piccola e regale;
ma spesso io vidi l'ape legnaiola
celare il corpo che riluce, quale
nera viola,
dentro il tuo duro calice, e rapirti
non so che buono, che da te pur viene
come le viti di tra i sassi e i mirti
di tra l'arene.
Lo sa la figlia del pastor, che vuoto
un legno fende e lieta pasce quanto
miele le giova: il tuo nettare ignoto,
fiore d'acanto.
II
NEL GIARDINO
Nel mio giardino, là nel canto oscuro
dove ora il pettirosso tintinnìa
col gelsomino rampicante al muro,
c'è la gaggìa;
e or che ottobre dentro la vermiglia
foresta il marzo rende morto al suolo,
e sembra marzo, come rassomiglia
bacca a bocciuolo,
alba a tramonto; nelle tenui trine
l'una si stringe, al roseo vespro, quando
l'altro i suoi fiori, candide stelline,
apre, alitando;
ed al sospiro dell'avemaria,
quando nel bosco dalle cime nude
il dì s'esala, il cuore in una pia
ombra si chiude;
e l'anima in quell'ombra di ricordi
apre corolle che imbocciar non vide;
e l'ombra di fior d'angelo e di fior di
spina sorride.
III
NEL PARCO
a Mario Racah
Certo il signore, e la chiomata moglie,
partì pe' campi, ché già il tordo zirla:
muto, tra un'ampia musica di foglie
(dolce sentirla
d'autunno, a tarda notte, se il libeccio
soffia con lunghi fremiti sonori),
muto è il palazzo. S'ode un cicaleccio
di tra gli allori ;
un cicaleccio donde acuti appelli
s'alzano come strilli di piviere:
il gatto è fuori: ruzzano i monelli
del giardiniere.
Torvo, aggrondato, il candido palazzo
formicolare a' piedi suoi li mira;
e sì n'echeggia un cupo, a quel rombazzo,
battito d'ira;
ma non s'adira il giovinetto alloro,
il leccio, il pioppo tremulo ed il lento
salice: a prova corrono con loro;
cantano al vento.
IV
ROSA DI MACCHIA
Rosa di macchia, che dall'irta rama
ridi non vista a quella montanina,
che stornellando passa e che ti chiama
rosa canina;
se sottil mano i fiori tuoi non coglie,
non ti dolere della tua fortuna:
le invidïate rose centofoglie
colgano a una
a una: al freddo sibilar del vento
che l'arse foglie a una a una stacca,
irto il rosaio dondolerà lento
senza una bacca;
ma tu di bacche brillerai nel lutto
del grigio inverno; al rifiorir dell'anno
i fiori nuovi a qualche vizzo frutto
sorrideranno:
e te, col tempo, stupirà cresciuta
quella che all'alba svolta già leggiera
col suo stornello, e risalirà muta,
forse, una sera.
V
PERVINCA
So perché sempre ad un pensier di cielo
misterïoso il tuo pensier s'avvinca,
sì come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca;
io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta d'un convento oscura,
o presso l'arche, tra vilucchi e bronchi,
lungo la mura.
Solo tra l'arche errava un cappuccino;
pareva spettro da quell'arche uscito,
bianco la barba e gli occhi d'un turchino
vuoto, infinito;
come il tuo fiore: e io credea vedere
occhi di cielo, dallo sguardo fiso,
più d'anacoreti, allo svoltar, tra nere
ombre, improvviso;
e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
l'avemaria.
VI
IL DITTAMO
Dittamo nato all'umile finestra,
donde pel Corpusdomini sorrisi
alla soave tra fior di ginestra
e fiordalisi
processïone; io so di te, che immensa
virtù possiedi ne' chiomanti capi,
cespo lanoso ed olezzante, mensa
ricca dell'api.
Te, con la freccia tremolante al dosso,
cerca nei monti il daino selvaggio,
farmaco certo - di lui segue un rosso
rigo il vïaggio -
Dittamo blando per la mia ferita
l'avete, o balze degli aerei monti,
dove nell'alto piange la romita
culla dei fonti ?
Bianche ai dirupi pendono le capre;
l'aquila passa nera e solitaria;
sibila l'erba inaridita; s'apre,
sotto il piè, l'aria.
VII
EDERA FIORITA
ad Ettore Toci
Quando, di maggio, tu le dolci sere
imbalsamavi co' tuoi fiori, ornello
(era un sussurro alle finestre nere
del paesello!);
non ti rincrebbe d'un infermo arbusto
che, mosso anch'egli da dolcezza estiva,
con le sue foglie, come cuori, al fusto
lento saliva.
Non ti rincrebbe. Ed ora che gelata
la tramontana soffia, e che traspare
già dalle porte chiuse la fiammata
del focolare;
ora che il verno spoglia le foreste
e le tue foglie per le vie disperde;
o vecchio ornello, te ricopre e veste
l'edera verde.
Sui rami nudi i fiori suoi ti pone,
tra verdi e gialli, piccoli, com'era
la tua fiorita morta: illusïone
di primavera.
VIII
VIOLE D'INVERNO
- D'onde, o vecchina, queste vïolette
serene come un lontanar di monti
nel puro occaso ? Poi che il gelo ha strette
tutte le fonti ;
il gelo brucia dalle stelle, o nonna,
ogni foglia, ogni radica, ogni zolla -
- Tiepida, sappi, lungo la Corsonna
geme una polla.
Là noi sciacquiamo il candido bucato
nell'onda calda in mezzo a nevi e brine;
e il poggio è pieno di vïole, e il prato
di pratelline -
Ah! . . . ma, poeta, non ancor nel pio
tuo cuore è l'onda che discioglie il gelo ?
non è la polla, calda nell'oblio
freddo del cielo?
Ché sempre, se ti agghiaccia la sventura,
se l'odio altrui ti spoglia e ti desola,
spunta, al tepor dell'anima tua pura,
qualche vïola.
IX
IL CASTAGNO
a Francesco Pellegrini
I
Quando sfioriva e rinverdiva il melo,
quando s'apriva il fiore del cotogno,
il greppo, azzurro, somigliava un cielo
visto nel sogno;
brullo io te vidi; e già per ogni ripa
erano colte tutte le vïole,
e tu lasciavi ai cesti ed alla stipa
tutto il tuo sole;
e, pio castagno, i rami dalla bruma
ancora appena e dal nevischio vivi,
a mano a mano d'una lieve spuma
verde coprivi.
Ma poi, vedendo sotto il fascio greve
le montanine tergersi la fronte,
tu che le sai da quando per la neve
scendono il monte,
ecco, pietoso tu di lor, tessesti
lungo i torrenti, all'orlo dei burroni,
una fredda ombra, che gemé di mesti
cannareccioni.
II
E qualche cosa già nell'aspro cardo
chiuso ascondevi, come l'avo buono
che nell'irsuta mano cela un tardo
facile dono.
Ai primi freddi, quando il buon villano
rinumerò tutti i suoi bimbi al fuoco;
e con lui lungamente il tramontano
brontolò roco;
e tu quei cardi, in mezzo alle procelle,
spargesti sopra l'erica ingiallita,
e li schiudevi per pietà di quelle
povere dita
Tutti spargesti i cardi irti e le fronde
fragili, e tutto portò via festante
la grama turba. Nudo con le monde
rame, o gigante,
stavi, e vedevi tu la vite e il melo
vestiti d'oro e porpora al riflesso
già delle nevi, e per lo scialbo cielo
nero il cipresso.
III
Per te i tuguri sentono il tumulto
or del paiolo che inquïeto oscilla;
per te la fiamma sotto quel singulto
crepita e brilla:
tu, pio castagno, solo tu, l'assai
doni al villano che non ha che il sole;
tu solo il chicco, il buon di più, tu dai
alla sua prole;
ha da te la sua bruna vaccherella
tiepido il letto e non desìa la stoppia;
ha da te l'avo tremulo la bella
fiamma che scoppia.
Scoppia con gioia stridula la scorza
de' rami tuoi, co' frutti tuoi la grata
pentola brontola. Il vento fa forza
nell'impannata.
Nevica su le candide montagne,
nevica ancora. Lieto è l'avo, e breve
augura, e dice: Tante più castagne,
quanta più neve.
X
IL PESCO
a Adolfo Cipriani
Penso a Livorno, a un vecchio cimitero
di vecchi morti; ove a dormir con essi
niuno più scende; sempre chiuso; nero
d'alti cipressi.
Tra i loro tronchi che mai niuno vede,
di là dell'erto muro e delle porte
ch'hanno obliato i cardini, si crede
morta la Morte,
anch'essa. Eppure, in un bel dì d'Aprile,
sopra quel nero vidi, roseo, fresco,
vivo, dal muro sporgere un sottile
ramo di pesco.
Figlio d'ignoto nòcciolo, d'allora
sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?
ed ora invidii i mandorli che indora
l'alba negli orti?
od i cipressi, gracile e selvaggio,
dimenticàti, col tuo riso allieti,
tu trovatello in un eremitaggio
d'anacoreti?
XI
CANZONE DI NOZZE
ad Enrico Bemporad
Guardi la vostra casa sopra un rivo,
sopra le stipe, sopra le ginestre;
ed entri l'eco d'un gorgheggio estivo
dalle finestre.
Dolce dormire con nel sogno il canto
dell'usignuolo! E sian sotto la gronda
rondini nere. Dolce avere accanto
chi vi risponda,
sul far dell'alba, quando voi direte
pian piano: È vero che non s'è più soli?
Sì: si, diranno, vero ver... Che liete
grida! che voli!
sul far dell'alba, quando tutto ancora
sembra dormir dietro le imposte unite!
Sembra, e non è.Voi sì, forse, in quell'ora,
madri, dormite.
Sognate biondo: nelle vostre teste
non un fil bianco: bianche, nel giardino,
sono, sì, quelle ch'ora vi tendeste,
fascie di lino.
XII
I GIGLI
Nel mio villaggio, dietro la Madonna
dell'acqua, presso a molti pii bisbigli,
sorgono sopra l'esile colonna
verde i miei gigli:
miei, ché a deporne i tuberi in quel canto
del suo giardino fu mia madre mesta.
D'altri è il giardino: di mia madre (è tanto!...)
nulla piú resta.
Sono tanti anni!... Ma quei gigli ogni anno
escono ancora a biancheggiar tra folti
cesti d'ortica; ed ora... ora saranno
forse già còlti.
Forse già sono su l'altar, lì presso,
a chieder acqua, or ch'è mietuto il grano,
per il granturco: e nel pregar sommesso
meridïano,
guardando i gigli, alcuna ebbe un fugace
ricordo; e chiede che Maria mi porti
nella mia casa, per morirvi in pace
presso i miei morti
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