Myricae
Giovanni Pascoli

 
ELEGIE



I
LA FELICITÀ

Quando, all'alba, dall'ombra s'affaccia,
discende le lucide scale
e vanisce; ecco dietro la traccia
d'un fievole sibilo d'ale,

io la inseguo per monti, per piani,
nel mare, nel cielo: già in cuore
io la vedo, già tendo le mani,
già tengo la gloria e l'amore.

Ahi! ma solo al tramonto m'appare,
su l'orlo dell'ombra lontano,
e mi sembra in silenzio accennare
lontano, lontano, lontano.

La via fatta, il trascorso dolore,
m'accenna col tacito dito:
improvvisa, con lieve stridore,
discende al silenzio infinito.




II
SORELLA
a Maria

Io non so se più madre gli sia
la mesta sorella o più figlia:
ella dolce ella grave ella pia,
corregge conforta consiglia.

A lui preme i capelli, l'abbraccia
pensoso, gli dice, Che hai?
a lui cela sul petto la faccia
confusa, gli dice, Non sai?

Ella serba nel pallido viso,
negli occhi che sfuggono intorno,
ah! per quando egli parte il sorriso,
le lagrime per il ritorno.

Per l'assente la madia che odora,
serbò la vivanda più buona;
e lo accoglie lo sguardo che ignora,
col bacio che sa, ma perdona.

Ella cuce: nell'ombra romita
non s'ode che l'ago e l'anello;
ecco, l'ago fra le agili dita
ripete, Stia caldo, sia bello!

Ella prega: un lungo alito d'ave-
marie con un murmure lene...
ella prega; ed un'eco soave
ripete, Sia buono, stia bene!



III
X AGOSTO

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.

Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!



IV
L'ANELLO

Nella mano sua benedicente
l'anello brillava lontano.
Egli alzò quella mano, morente:
di caldo s'empì quella mano..

O mio padre, di sangue! L'anello
lo tenne sul cuore mia madre...
O mia madre! Poi l'ebbe il fratello
mio grande... o mio piccolo padre!

Nel suo gracile dito il tesoro
raggiò di benedizïone.
Una macchia avea preso quell'oro,
di ruggine, presso il castone...

O mio padre, di sangue! Una sera,
la macchia volevi lavare,
o fratello? che pianto fu ! t'era
caduto l'anello nel mare.

E nel mare è rimasto; nel fondo
del mare che grave sospira;
una stella dal cielo profondo
nel mare profondo lo mira.

Quella macchia ! S'adopra a lavarla
il mare infinito; ma in vano.
E la stella che vede, ne parla
al cielo infinito; ah! in vano.



V
AGONIA DI MADRE

Muore. Sfugge alla morta pupilla
già il bimbo che geme al suo piede:
ode un suono lontano di squilla:
son due . . . gli occhi, grave, apre: vede.

Uno piange, ma l'altro sorride
d'un bianco sorriso di cieco.
Ella guarda, ella pensa: lo vide
così: quando? e ha come l'eco

d'un gran pianto nel cuore, la traccia
di lagrime morte negli occhi.
Ah! ricordano un peso le braccia,
ricordano un peso i ginocchi,

grave. Due sono i bimbi: uno piange;
ma dorme il più piccolo ancora:
ella versa dal cuor che si frange,
le lagrime d'ora e d'allora.

- Dormi, o angelo - o angelo, déstati,
destati - mormora il cuore.
Tra la culla e una bara s'arresta
la mano sua, rigida. Muore.

Il suo primo, il suo morto è sparito
con lei che nell'ombra lo reca:
piange l'altro; ella n'ode il vagito
col bianco stupore di cieca.



VI
LAPIDE

Dietro spighe di tasso barbasso,
tra un rovo, onde un passero frulla
improvviso, si legge in un sasso:
QUI DORME PIA GIGLI FANCIULLA.

Radicchiella dall'occhio celeste,
dianto di porpora, sai,
sai, vilucchio, di Pia? la vedeste,
libellule tremule, mai ?

Ella dorme. Da quando raccoglie
nel cuore il soave oblio? Quante
oh! le nubi passate, le foglie
cadute, le lagrime piante;

quanto, o Pia, si morì da che dormi
tu! Pura di vite create
a morire, tu, vergine, dormi,
le mani sul petto incrociate.

Dormi, vergine, in pace: il tuo lene
respiro nell'aria lo sento
assonare al ronzio delle andrene,
coi brividi brevi del vento.

Lascia argentei il cardo al leggiero
tuo alito i pappi suoi come
il morente alla morte un pensiero,
vago, ultimo: l'ombra d'un nome.



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