53. Il mendico
I Soletto su l'orlo di un lago che al rosso
tramonto riluce, v'è un uomo col refe e con l'ago che cuce tra
l'erica bassa. E cuce; e nel cielo turchino già ridono l'aspre civette,
e il lago sul capo suo chino riflette qualche ala che passa. E
cuce; e i suoi cenci nell'acqua, trapunta di tacite bolle, si
specchiano, e l'ombra li sciacqua con murmure molle.
II Ma in
tanto che, ombrato da un velo, nell'acqua il lavoro suo fiotta, tra
l'urto dei cirri del cielo s'è rotta la tenue gugliata. Egli alza la
testa. Il suo filo s'è rotto; e si sente dai tufi, dall'inaccessibile
asilo dei gufi, la morte che fiata. E piccolo il sole che muore,
gli appare traverso la cruna dell'ago. Egli dice nel cuore: - Ti
lodo, Fortuna!
III Nel mondo a te piacque gettare tuo figlio,
terribile e gaia, siccome al fanciullo, nel mare, la ghiaia che
sbalzi su l'onde. Ma tutto m'hai dato a ch'io viva: la mano, che regge
la croce, il piede, che mai non arriva, la voce, cui niuno risponde.
M'hai dato la dolce speranza che arretra se il cuore si avvia,
l'immemore cuore che avanza su nave che scìa.
IV Ho
errato seguendo le foglie che il vento sospinge per gioco, sostando non
più che alle soglie, per poco, tra l'ira dei cani. Ho errato nel
mondo sì bello, seguìto da un cupo latrato, tendendo all'oblìo del
fratello mutato le simili mani. Son giunto: alla tomba; che trova
contigua la querula cuna, com'onda, ad ogni attimo nuova, ritrova la
duna.
V Se a me non fu dato vederti mai, ora non, avida ancora,
tentando le palpebre inerti, lavora la cieca pupilla. Se non mi
porgesti né un sorso di dolce, le fauci inquiete non m'arde con vano
rimorso la sete dell'ultima stilla. Non vidi che nero, non bebbi
che fiele; ma ingrato non sono: ti lodo per ciò che non ebbi; che
non abbandono.
VI Non ebbi il superbo banchetto tra quelli che
aspettano al canto le miche: e né letto né tetto, tra tanto di
popolo nudo. Non verso nell'ultimo istante la lagrima vile a versarsi:
la prima! la sola! E le tante ch'io sparsi, con gli occhi le chiudo.
Io nudo, bussando alle porte, ti dico, nell'ora che imbruna: Di
dolce sol ebbi la morte; ma tutto è quest'una!
VII Io t'amo
pel freddo e lo stento, l'insonnia, il digiuno, l'affanno, cui devo che
senza sgomento, che fanno ch'esperto io rimuoia. Io t'amo perch'ora
meschino non chiedo, felice non rendo; ma stanco del lungo cammino
discendo senz'onta di gioia; discendo laggiù tra le grame mie
genti, nel mondo che tace, tra gli umili morti di fame che dormono in
pace. -
VIII Su l'orlo d'un lago nei monti, fra stridulo ansare
di grilli, sul lago in cui, luna che monti, scintilli, c'è un nero,
c'è un mucchio di squallidi cenci e di membra, c'è un uomo con gli occhi
rivolti nel lago, e che attonito sembra che ascolti l'eterno
risucchio: e simile a sogno di nulla, nell'acqua c'è l'ombra sua bruna,
che appena si dondola e culla nel lume di luna.
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