50. Un ricordo
Andavano e tornavano le rondini, intorno alle
grondaie della Torre, ai rondinotti nuovi. Era d'agosto. Avanti la
rimessa era già pronto il calessino. La cavalla storna calava giù,
seccata dalle mosche, l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi
dell'unghie su le selci della corte. Era un dolce mattino, era un bel
giorno: di San Lorenzo. Il babbo disse: «Io vo». E in un gruppo tubarono
le tortori. Esse là nella paglia erano in cova. Tra quel hu hu,
mia madre disse: «Torna prestino». «Sai che volerò!» «Non correr tanto:
la tua stornella è appena doma». «Eh! mi vuol bene!» «Addio». «Addio». «Vai
solo? non prendi Jên?» «Aspetto quel signore da Roma...» «E` vero. Ti
verremo incontro a San Mauro. Io sarò sotto la Croce. Tu ci vedrai
passando». «Io vi vedrò». E Margherita, la sorella grande, di sedici
anni, disse adagio: «Babbo...» «Che hai?» «Ho, che leggemmo nel giornale
che c'è gente che uccide per le strade...» Chinò mio padre tentennando
il capo con un sorriso verso lei. Mia madre la guardò coi suoi cari
occhi di mamma, come dicendo: A cosa puoi pensare! E le rondini andavano
e tornavano, ai nidi, piene di felicità. Mio padre palpeggiò la sua
cavalla che l'ammusò con cenno familiare. Riguardò le tirelle e il
sottopancia, e raccolte le briglie, calmo e grave, si volse ancora a
dire: «Addio!» Mia madre s'appressò con le due bimbe per mano: la più
piccina a lui toccò la mazza. Egli teneva il piede sul montante. E in un
gruppo le tortori tubarono, e si sentì: «Papà! Papà! Papà!» E un poco
presa egli sentì, ma poco poco, la canna come in un vignuolo, come
v'avesse cominciato il nodo un vilucchino od una passiflora. Sì: era
presa in una mano molle, manina ancora nuova, così nuova che tutto
ancora non chiudeva a modo. Era la bimba che vi avea ravvolte, come
poteva, le sue dita rosa, e che gemeva: «No! no! no! no! no!» Mio padre
prese la sua bimba in collo, col suo gran pianto ch'era di già roco; e
la baciò, la ribaciò negli occhi zuppi di già per non so che martoro.
«Non vuoi che vada?» «No!» «Perché non vuoi?» «No! no!» «Ti porto tante
belle cose!» «No! no!» La pose in terra: essa di nuovo stese alla canna
le sue dita rosa, gli mise l'altro braccio ad un ginocchio: «No! no!
papà! no! no! papà! no! no!» Non s'udì che quel pianto e quei singulti
nel tranquillo mattino tutto luce. Più non raspava i ciottoli con
l'unghia la cavalla, e volgea la testa smunta alla bimba. E le tortori,
hu, hu! Povera bimba! non avea compiuti due anni, e ancor dormiva
nella culla. Sapea di latte il suo gran pianto lungo: assomigliava ad un
vagir notturno. Mio padre disse: «Non partirò più». Jên, a un suo cenno,
menò fuor del muro la cavalla, aspettando ad un altro uscio. Lontanò
essa con un ringhio acuto. E mio padre baciò la creatura, e le disse:
«Non vado: entro; mi muto, e sto con te. Perché tu sia sicura, prendi la
canna». Rabbrividì tutta essa, come un uccello quando arruffa le piume;
le spianò; poi con le due braccia abbracciò la canna di bambù. Ed
aspettò. Aspetta ancora. Il babbo non tornò più. Non si rivide a casa.
Lo portarono a sera in camposanto, lo stesero in un tavolo di marmo,
dissero, oh! sì! dissero ch'era sano, e che avrebbe vissuto anche molti
anni. Ma uno squarcio aveva egli nel capo, ma piena del suo sangue era
una mano. Maria! Maria! quel pegno di tuo padre, ciò che di lui rimase,
ove sarà? Sorella, a volte penso che tu l'abbia, che tu lo tenga ancora
fra le braccia. Così mi pare a volte, che ti guardo e tu non vedi, ché
tu stai pregando. Tieni le braccia in croce, un poco lasse; e tieni
ancora gli occhi fissi in alto. Stai come quando ti lasciò tuo padre;
sicura, come allora. Ma una lagrima ancora scorre a te, di quelle, e il
labbro balbetta ancora, sì: «Papà! Papà!»
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