37. Il poeta solitario
O dolce usignolo che ascolto (non sai dove),
in questa gran pace cantare cantare tra il folto, là, dei sanguini e
delle acace; t'ho presa - perdona, usignolo - una dolce nota, sol una,
ch'io canto tra me, solo solo, nella sera, al lume di luna. E pare
una tremula bolla tra l'odore acuto del fieno, un molle gorgoglio di
polla, un lontano fischio di treno... Chi passa, al morire del giorno,
ch'ode un fischio lungo laggiù riprende nel cuore il ritorno verso
quello che non è più. Si trova al nativo villaggio, vi ritrova quello
che c'era: l'odore di mesi-di-maggio buon odor di rose e di cera. Ne
ronzano le litanie, come l'api intorno una culla: ci sono due voci sì
pie! di sua madre e d'una fanciulla. Poi fatto silenzio, pian piano,
nella nota mia, che t'ho presa, risente squillare il lontano
campanello della sua chiesa. Riprende l'antica preghiera, ch'ora ora
non ha perché; si trova con quello che c'era, ch'ora ora ora non c'è...
.......................................... Chi sono? Non chiederlo. Io
piango, ma di notte, perch'ho vergogna. O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna.
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