34. La canzone dell'ulivo
I A' piedi del vecchio maniero che
ingombrano l'edera e il rovo; dove abita un bruno sparviero, non altro,
di vivo; che strilla e si leva, ed a spire poi torna, turbato nel covo,
chi sa? dall'andare e venire d'un vecchio balivo: a' piedi dell'odio
che, alfine, solo è con le proprie rovine, piantiamo l'ulivo!
II l'ulivo che a gli uomini appresti la bacca ch'è cibo e
ch'è luce, gremita, che alcuna ne resti pel tordo sassello; l'ulivo
che ombreggi d'un glauco pallore la rupe già truce, dov'erri la pecora,
e rauco la chiami l'agnello; l'ulivo che dia le vermene pel figlio
dell'uomo, che viene sul mite asinello.
III Portate il piccone;
rimanga l'aratro nell'ozio dell'aie. Respinge il marrello e la vanga
lo sterile clivo. Il clivo che ripido sale, biancheggia di sassi e
di ghiaie; lo assordano l'ebbre cicale col grido solivo. Qui radichi
e cresca! Non vuole, per crescere, ch'aria, che sole, che tempo,
l'ulivo!
IV Nei massi le barbe, e nel cielo le piccole foglie
d'argento! Serbate a più gracile stelo più soffici zolle! Tra i
massi s'avvinchia, e non cede, se i massi non cedono, al vento. Lì,
soffre, ma cresce, né chiede più ciò che non volle. L'ulivo che soffre
ma bea, che ciò ch'è più duro, ciò crea che scorre più molle.
V
Per sé, c'è chi semina i biondi solleciti grani cui copra la neve
del verno e cui mondi lo zefiro estivo. Per sé, c'è chi pianta l'alloro
che presto l'ombreggi e che sopra lui regni, al sussurro canoro del
labile rivo. Non male. Noi mèsse pei figli, noi, ombra pei figli de'
figli, piantiamo l'ulivo!
VI Voi, alberi sùbiti, date pur
ombra a chi pianta ed innesta; voi, frutto; e le brevi fiammate col
rombo seguace! Tu, placido e pallido ulivo, non dare a noi nulla; ma
resta! ma cresci, sicuro e tardivo, nel tempo che tace! ma nutri il
lumino soletto che, dopo, ci brilli sul letto dell'ultima pace!
|