epistole entomologiche
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Come dal germe ai suoi perfetti giorni
giunga una schiera di Vanesse; quali
speranze buone e quali fantasie
la crëatura per volar su nata
susciti in cuore di colui che sogna
col suo lento mutare e trasmutare,
la maraviglia delle opposte maschere,
la varia grazia delle varie specie,
in versi canterò... Non vi par egli,
non vi par egli d'essere in Arcadia?
Dolce Parrasio! Dileguati giorni
dell'Accademia, quando il Mascheroni
con sottile argomento di metalli
le risentite rane interrogava.
Le querule presaghe della pioggia
(altro presagio al secolo vicino!)
stavano tronche il collo. Con sagace
man le immolava vittime a Minerva
su l'ara del saper l'abate illustre,
e se all'argentea benda altra di stagno
dalle vicine carni al lembo estremo
appressava, le vittime risorte
vibravan tutte con tremor frequente.
L'orobia pastorella impallidiva
sotto le fresche rose del belletto,
meravigliando alla virtù che cieca
passa per interposti umidi tratti
dal vile stagno al ricco argento e torna
da questo a quello con perenne giro.
Di sua perplessità - dubito forte -
si giovava l'abate bergamasco
per cingere lo snello guardinfante
e baciare furtivo (auspice Volta!)
tra l'orecchio e la vasta chioma nivea
la dotta pastorella sbigottita.
Ma voi, sorella, non temete agguati
dal fratello salvatico in odore
di santità? Con certo ritüale
arcadico (per gioco!) e bello stile
(per gioco!) altosonante, come s'offre
nova un'essenza in un cristallo arcaico,
queste pagine v'offro, ove s'aduna
non la galanteria settecentesca,
ma il superstite amore adolescente
per l'animato fiore senza stelo;
offro al vostro tormento il mio tormento,
vano spasimo oscuro d'esser vivi,
a voi di me più tormentata, a voi
che la sete d'esistere conduce
per sempre false imagini di bene.
Forse lo stanco spirito moderno
altro bene non ha che rifugiarsi
in poche forme prime, interrogando,
meditando, adorando; altra salute
non ha che nella cerchia disegnata
intorno dall'assenza volontaria,
come la cerchia disegnata in terra
dal ramoscello dell'incantatore:
magico segno che respinge tutte
e le lusinghe e le insensate cure;
solo rifugio dove il cuore spento
vibri fraterno e riconosca l'Uomo,
ché più non vede l'esemplare astratto,
ma la specie universa eletta al regno
del mondo. E come il Dio d'antichi tempi
appariva all'asceta d'altri tempi,
così l'asceta d'oggi senza Dio
sente nel cuor pacificato un bene
sommo, una grazia nova illuminante,
lo Spirito immanente, l'acqua viva,
e si disseta più che alle sorgenti
che mai non troverete, o sitibonda...
Queste, che dico, dissi a voi parole
or è già molto, camminando a paro
per una landa sconsolata e voi,
mal soffrendo il velen dell'argomento,
con la mano inguantata il ciuffo a sommo
coglieste d'un'ortica e mi premeste
sulla gota la fronda folgorante,
tortuosamente. Non mi punse quella
che più forte s'accosta e men ci punge;
e nel gesto passare vidi un cumulo
minuscolo di germi di Vanesse
sulla villosa nervatura e forse
dal vostro gesto, ancor agropungente,
nato è il poema, poi che sul mistero
del piccolo tesoro accumulato,
già in quell'istante, con parole sciolte
taluna esposi delle meraviglie
che più tardi nel mio silenzio attento
passo passo tentai chiudere in versi.
Redimita di fronde agropungenti -
ahi! non d'alloro - la mia Musa canta.
Alti cespi d'ortica alzano intorno
alle mie carte un cerchio folgorante,
mensa ed albergo ai numerosi alunni.
Dalle schiuse finestre entra l'Estate;
brilla sui campi, sul tripudio verde,
puro l'abisso cerulo del cielo.
A me dintorno un crepitìo di pioggia
fanno le lime assidue infinite
degli alunni famelici. Da tempo
convivo solo, con la mia brigata.
Animarsi dal cumulo dei semi
li vidi quasi miglio germinante,
piccoli, inermi, sotto tende lievi,
in groppo avvinti, trarre i giorni primi.
Volsero i giorni, crebbero gli alunni;
per ben tre volte usciti di se stessi
tre volte tanto apparvero voraci.
Or fatti pesi, flettono le cime
della mia selva, ammantano le foglie
con loro mole fosca, irta di punte.
Inorridite? Nulla v'ha d'orrendo
per chi fissa le linee le tinte
con occhi nuovi, sempre bene aperti.
Meditiamo i villosi prigionieri
senza ribrezzo, con pietà fors'anco,
se pietà di lor vita oscura e prona
non dileguasse la speranza certa:
il guiderdone del risveglio alato.
Tratto ad inganno un bruco, ecco, abbandona
l'ospiti foglie, segue la mia mano:
considerate senza abbrividire
quanta pose Natura intorno a lui,
dotta nei suoi lavori, intima cura!
E quanti occhi gli diede a che d'intorno
scorger potesse in ogni dove e quante
ha per muoversi zampe e varie: alcune
squammose adunche forti, zampe vere
della farfalla apparitura: alcune
brevi aderenti flaccide contrattili:
atte al passo del bruco sulle foglie,
come ginnasta bene assicurato.
Mirabile è la bocca, ordigno armato
d'acute lime in gemina ordinanza.
Concavo un labbro chiude nell'incavo
il margine fogliare che due salde
mandibole con moto orrizzontale
tagliano a scatto, in guisa di cesoja.
Sotto queste maggiori altre minori
mandibole triturano le fibre,
quattro palpi n'adunano il tritume;
tra quelli e queste un foro sericìparo
svolge all'aria un sottil filo di seta.
Ma piaccia a voi questo cristallo terso
all'occhio intento sottoporre, mentre
con lama breve, dentro chiara coppa,
la necessaria vittima divido.
Come in un bosco l'intrecciata massa
di rami e ramuscei fende le nubi,
così, ma con più bello ordin, vedete
quale per lungo dell'aperto dorso
va di tremila muscoli la selva:
ecco il sangue che scorre i molti vasi
di rete in guisa da Natura orditi
e le vie mirabili dell'aria
ad ogni nodo rinnovate e il cuore
come collana multipla che pulsa
del corpo in ogni dove e i molti ventri
e del dorso la spina in tanti nodi
divisa e l'ammirabile del capo
figura interïor eccovi aperta.
Questo - benché più delicato ordigno
offra il bombice industre - è il laberinto
misterïoso della seta fusa.
Discende il vaso dall'estrema bocca,
come fiume che va, poi si biparte;
dall'una e l'altra banda i rami pari
s'avvolgono ai precordi intimi e dove
l'uno si fa maggior pur l'altro è tale;
poi, quasi giunti al fin, piegano e al capo
ascendono e giù tornano ed ascendono,
elaborato alfin recano al labbro
l'umor tenace che diventa seta;
non altrimenti il sangue dei vulcani
s'addensa all'aria in rivoli di lava.
Ma, oimè, che vedo? Addormentata quasi,
esanimi gli sguardi, con la mano
un mal frenate languido sbadiglio!
Che più? Si tace il crepitìo di pioggia:
i bruchi alunni in vario atteggiamento
mi stanno intorno addormentati tutti
mirabilmente! Vince Anatomia
le droghe oppiate dell'Arabia estrema.
Amica sonnacchiosa e perdonate,
voi nata al sogno libero e alla grazia,
perdonate la Musa pazïente
osservatrice. Ben s'addice al lento
trasmutare dei bruchi prigionieri;
più tardi, al tempo del risveglio alato,
anch'essa certo spiegherà nei cieli
l'ali del sogno per seguirli a volo.
Eccoli intanto, bruchi tuttavia,
stinto il velluto, tumefatti i nodi,
eretto il capo immobile, le zampe
fisse alle foglie da sottili bave,
giacersi infermi nella sesta muta.
Per tutto un giorno in torpida quiete
uno spasimo ignoto li tormenta:
essere un altro, uscire di se stessi!
Uscire di se stessi! E li vedete
or gonfiarsi, or contrarsi, ora dibattersi,
or delle membra tremule far arco,
fin che sul terzo nodo ecco si fende
l'antica spoglia e sul velluto stinto
vivida splende la divisa nuova.
Ed uno appare in due e due in uno,
ma già l'infermo tutto si distorce,
come da un casco liberando il capo
dal capo antico, dalle antiche zampe
le antiche zampe liberando, lento
movendo già, lasciandosi alle spalle
quegli che fu, come guaina floscia.
Ma il sesto dì la mia famiglia trovo
dispersa tutta lungo le pareti.
Come le sacre vittime d'un tempo
s'apprestavano degne col digiuno,
i bruchi alunni mondano i precordi,
ricusano la fronda. È giunta l'ora.
Consapevoli quasi del mistero
imminente, s'ammusano l'un l'altro,
lenti volgendo ad ora ad or la testa,
esplorano gli arredi gli scaffali
le cimase gli spigoli, un rifugio
cercando eccelso come gli stiliti.
Cercano in vero il luogo ove celarsi
dai nemici del cielo e della terra;
quale vigilia torpida li attenda
ben sanno e sotto quale spoglia inerte
pendula ignuda, senza la custodia
del bombice di sua seta fasciato;
ché le Diurne mutansi in crisalidi
non difese che dalla forma subdola,
dalla tinta sfuggente, non armate
che di silenzio immobile e d'attesa.
Dato è perciò seguire nel mistero
i pellegrini della forma. Eletto
un rifugio sicuro, il bruco intreccia
poche fila in un cumulo, a sostegno,
v'infigge i ganci delle zampe estreme
e s'abbandona capovolto come
l'acrobata al trapezio. Un giorno intero
resta pendulo immoto, in doglia grande,
fin che si fende a sommo e la crisalide
convulsa vibra, si sguaina lenta
dalla spoglia villosa che risale,
s'aggrinza, cade all'ultimo sussulto.
Ogni forma di bruco è dileguata:
la crisalide splende, il nuovo mostro
inquietante ambigüo diverso
da ciò che fu da ciò che dovrà essere!
Pendula, immota, senza membra, fusa
nel bronzo verde maculato d'oro,
cosa rimorta la direste, cosa
d'arte, monile antico dissepolto;
un minuscolo drago vi ricorda
il dorso formidabile di punte,
la maschera d'un satiro v'appare
nel profilo gibboso e bicornuto.
Dove il bruco defunto, la farfalla
apparitura? La Natura, scaltra
nasconditrice, deviò lo sguardo
dell'uomo del ramarro della passera.
Ma la farfalla tutta, se badate
ben sottilmente, appare a parte a parte
in rilievo leggiero: il capo chino
tra l'ali ripiegate come bende,
l'antenne la proboscide le zampe
giustacongiunte al petto. La crisalide
ritrae la farfalla mascherata
come il coperchio egizio ritraeva
le membra della vergine defunta.
Ma già - mentre ch'io parlo - i bruchi tutti
sono vòlti in crisalidi. Al soffitto
agli scaffali al dorso dei volumi
famosi, alle cornici delle stampe,
financo - irriverenza - al naso adunco,
alla mascella scarna del Poeta,
ovunque la mia stanza è un scintillare
di pendule crisalidi sopite.
Guardo e sorrido. E un velo di tristezza
mi tiene già gli alunni ripensando
che più non sono e loro schiera bruna
raccolta intorno alle mie carte quando
rinnovavo la selva agropungente
e m'era caro il crepitìo di lime
dei compagni famelici a seguirne
i moti e l'attitudini e ritrarne
col pennello e col verso il divenire.
Oggi tutto è silenzio di clausura,
digiuno, attesa immobile, sgomento
di necropoli tetra. Alle pareti
ogni defunto è un pendulo monile,
ogni monile un'anima che attende
l'ora certa del volo. Ed io mi sono
quel negromante che nel suo palagio
senza fine, in clessidre senza fine,
custodisce gli spiriti captivi
dei trapassati, degli apparituri.
Veramente la mia stanza modesta
è la reggia del non essere più,
del non essere ancora. E qui la vita
sorride alla sorella inconciliabile
e i loro volti fanno un volto solo.
Un volto solo. Mai la Morte s'ebbe
più delicato simbolo di Psiche:
psiche ad un tempo anima e farfalla
scolpita sulle stele funerarie
da gli antichi pensosi del prodigio.
Un volto solo...
Del parnasso
Parnassus Apollo
Non sente la montagna chi non sente
questa farfalla, simbolo dell'Alpi...
Segantini pittore fu compagno
intimo del Parnasso. Tutta l'arte
del maestro non è che la montagna
intravista dall'ala trasparente...
Voi sorridete, incredula, scorrendo
l'ali chiare. Passate sui Papili,
le Pieridi, le Coliadi, l'Antocari,
cercate invano, sorridendo muta.
Ma il vostro riso incredulo s'arresta,
sostate appena sopra una farfalla
ignota e dite risoluta: - È questa! -
Questa e non altra. Tolgo l'esemplare:
osservate la grazia! Col Papilio
e la Vanessa, è certo la farfalla
dei nostri climi più meravigliosa.
Ma pure al vostro sguardo di novizia
non è questa bellezza singolare?
Mentre pensate il volo del Papilio
sul trifoglio fiorito e la Vanessa
in larghe rote lente sulle ajole,
non tollerate il volo del Parnasso
in un campo, in un orto, in un giardino:
evocate un pendio di rododendri,
coronato d'abeti, e di nevai,
e la bella farfalla ecco s'adagia
sullo scenario, in armonia perfetta.
È giusto. Meditate l'ali tonde
(frastagli e dentature le sarebbero
d'impaccio contro i venti delle alture)
meditate quest'ali trasparenti,
lastre di ghiaccio lucide all'esterno,
nell'interno soffuse di nevischio,
gelide in vista tanto che vi sembra
di vederle squagliare a poco a poco;
spiccano sul candore alcune chiazze
vermiglie come fior di rododendro,
come stille di sangue sulla neve,
cerchiano l'ali zone bigio-nere
che tengono del musco e del macigno:
il corsaletto è fitto di pelurie
bianca, d'argento come il leontopodi
e l'antenne le zampe la proboscide
n'escono brevi come dalla giubba
folta d'un alpigiano freddoloso.
La Natura, l'esteta insuperabile,
la mima senza pari, volle esprimere
la montagna in un essere dell'aria;
si giovò della gamma circostante,
diede l'ali alla neve ed al ghiacciaio,
al macigno al lichene al rododendro;
ma da quanti millenni, ma da quali
misteri giunse il genïetto alato?
In altra età, per certo, quando l'Alpi
erano miti come Taprobane,
la farfalla aveva l'abito conforme
con le felci i palmizi l'orchidee
dei nostri monti in quell'età remote.
Com'era allora il genïetto? Certo
non trasparente, candido, villoso...
Voi contemplate, amica, la farfalla
infissa da molt'anni. Ben più dolce
è meditarla viva nel suo regno.
La rivedo con gioia ad ogni estate;
sfuggito all'afa cittadina, appena
giunto al rifugio sospirato, indago
con occhi inquieti lo scenario alpestre:
senza l'ospite candida le nevi
sarebbero per me senza commento.
Ma rade volte scende a valle. Giova
attenderla sull'orlo degli abissi,
fra gli alti cardi i tassi i rododendri.
In quel silenzio primo, intatto come
quando non era l'uomo ed il dolore,
ecco la bella principessa alpestre!
Giunge dall'alto scende con un volo
solenne e stanco, noto all'entomologo,
s'arresta sulle cuspidi dei cardi,
s'adonta di un erebia, d'un virgaurea,
suoi commensali sullo stesso fiore;
s'avvia, s'innalza, saggia il vento, scende,
vibra, si libra, s'equilibra, esplora
l'abisso, cade lungo le pareti
vertiginose ad ali tese: morta.
Dispare, appare sui macigni opposti,
dispare sul candore delle spume,
appare sopra il verde degli abeti,
dispare sul candore dei nevai,
appare, spare, minima... Si perde...
Parnasso Apollo!... Il genïetto lascia
un solco di mistero al suo passaggio.
Il volo stanco, ritmico, diverso
dall'aliar plebeo delle pieridi,
ha un che di malinconico e s'accorda
mirabilmente con la gamma chiara
dell'alte solitudini montane.
E il poeta disteso sull'abisso,
col mento chiuso tra le palme, oblia
la pagina crudele di sofismi,
segue con occhi estatici il Parnasso
e bene intende il sorgere dei miti
nei primi giorni dell'umanità;
pensa una principessa delle nevi
volta in farfalla per un malefizio...
Pieris brassicae
Se la Vanessa ed il Papilio sono
nobili forme alate e dànno immagine
d'un cavaliere e d'una principessa,
la Pieride comune fa pensare
una fantesca od una contadina.
È volgare, dal nome alla divisa
scialba, dal volo vagabondo al bruco
nero-verde, flagello delle ortaglie.
Ridotte queste a nuda nervatura,
i bruchi vanno su pei muri a mille,
fissano le crisalidi alle mensole,
ai capitelli, ai pepli delle statue,
curïose crisalidi, sorrette
alla vita da un filo e non appese,
angolari, sfuggevoli, aderenti,
concolori così col marmo e il muro
che lo sguardo le fissa e non le vede.
Se tutte si schiudessero, la Terra
sarebbe invasa d'ali senza fine.
Ma gran parte ha con sé, già nello stato
di bruco, i germi della morte certa.
Chi s'aggiri in un orto vede all'opra
il Microgastro, piccolo imenottero
dall'ali e dall'antenne rivibranti,
smilzo, cornuto, negro come un dèmone.
Vola, scorre sui bruchi delle Pieridi,
inarca, infigge l'ovopositore,
immerge nei segmenti della vittima
il germe della morte ad ogni assalto.
Ad ogni assalto il bruco si contorce,
ma quando il Microgastro l'abbandona
non sembra risentirsi dell'offesa:
cresce, vive coi germi della morte...
Vive e i germi si schiudono, le larve
del parassita invadono la vittima
ignara; ne divorano i tessuti,
ma, rette dall'istinto prodigioso,
non intaccano gli organi vitali.
Il bruco vive ancora, si tramuta
sognando il giorno del risveglio alato;
ma gli ospiti hanno uccisa la crisalide,
la fendono sul dorso e dalla spoglia
non la Pieride bianca, ma s'invola
uno sciame ronzante d'imenotteri.
Come in questa vicenda e in altre molte,
la Natura, che i retori vantarono
perfetta ed infallibile, si svela
stretta parente col pensiero umano!
Non divina e perfetta, ma potenza
maldestra, spesso incerta, esita, inventa,
tenta ritenta elimina corregge.
Popola il campo semplice del Tutto
d'opposte leggi e d'infiniti errori.
Madre cieca e veggente, avara e prodiga,
grande meschina, tenera e crudele,
per non perder pietà si fa spietata.
E quando vede rotta l'armonia
riconosce l'errore, vi rimedia
con nascite novelle ed ecatombi.
Essa accenna alla Vita ed alla Morte;
e le custodi appaiono, cancellano,
ritracciano la strada ed i confini.
La Cavolaia predilige gli orti,
l'attira il bianco delle case umane;
se scorge un muro, subito s'innalza,
lo valica, discende alla ricerca
di compagne festevoli ed ortaglie.
E l'istinto sovente la sospinge
nel cuor della città. Da primavera
a tardo autunno, giunge nelle vie.
E nulla è strano, come l'apparire,
dell'invïata candida degli orti
tra il rombo turbinoso cittadino.
Allora s'interrompe il ragionare
dell'amico loquace: - Una farfalla! -
Com'è giunta nel cuor della città?
Aveva la crisalide sui colli
oltre il fiume, nell'orto di una villa.
L'istinto delle razze numerose
sospinge la farfalla ad emigrare;
discese al piano, trasvolò sul fiume,
valicò gli edifici, immaginando
orti propizi e si trovò perduta,
prigioniera nel grande laberinto
di pietra che costrussero gli uomini.
Da ore ed ore, forse dal mattino,
s'aggira stanca per le vie diritte
dove non cresce un filo d'erba o un fiore.
Come si specchia nei diciottomila
occhi stupiti il turbinìo dell'uomo?
Forse a quei sensi minimi, la folla,
le case, i carri, quei corpi grandi
sono come la frana, il fuoco, l'acqua,
fenomeni malvagi da fuggirsi.
Fugge. L'attira un cespo semovente
di fiori finti, un cencio verde, azzurro,
si libra sulla folla, sull'intrico
metallico, tra il rombo e le faville,
e va senza riposo, un carro passa
e la travolge nella scia ventosa...
Con volo ravvivato dal terrore
cerca uno scampo in alto, sale obliqua
contro le case, attinge i tetti, il sole;
si ristora ad un cespo di geranii,
fugge lasciando un lembo d'ala a un mostro
tentacolare e candido: una mano;
vola sopra il deserto delle tegole
né più discende nelle vie profonde,
va tra la selva di colmigni spessi,
da tetto a tetto, va senza riposo.
Ed ecco aprirsi sotto la randagia
l'abisso verde di un giardino; scende
scende verso il colore che l'attira.
Il giardino è degli uomini: ingannevole.
Vi trova l'erba tenera, le fronde,
i fiori, una brigata di sorelle
sbandite, riparate in quell'oàsi.
Ma l'erba cittadina non ha steli;
gli alberi, mostri ignoti d'oltremare,
non hano nella fronda coriacea
un fiore. E l'uomo meditò nel fiore
l'ultima frode: suggellò il nettario,
con arte maga trasmutò gli stami
in multiple sorelle mostruose.
Le Pieridi s'aggirano sui fiori
tentano le azalee ed i giacinti,
ma le corolle suggellate al bacio
son come belle donne senza bocca.
Poche Pieridi trovano la via
dei campi. Grande parte è prigioniera
del chiuso laberinto cittadino;
e nel triste detrito che raccoglie
la scopa mattinale delle vie
biancheggiano falangi d'ali morte...
Anthocaris cardamines
Primavera per me non è la donna
botticelliana dell'Allegoria.
Primavera è per me questa farfalla
fatta di grazia e di fragilità!
Oggi, lungo il sentiero solatio
dove sosta la lepre alle vedette,
un orecchio diritto e l'altro floscio,
tra il grano verdazzurro, lungo il rivo
costellato di primule e d'anemoni,
tra il biancospino, che fiorisce appena,
ho rivisto l'Antòcari volare
e il cuore mi sobbalza nell'attesa
senza nome che tutte in me resuscita
le primavere dell'adolescenza...
Ma primavera non è giunta ancora.
È la quinta stagione. Un chiaro Marzo
canavesano, inverno già non più,
non primavera ancora. È l'anno vecchio
tinto a verde d'Enrico l'amarissimo.
Se cantano le allodole perdute
nella profonda cavità dei cieli,
non s'odono le rondini garrire;
lasciano appena il Delta o la Gran Sirte
o riposano a Cipro ovver vïaggiano
sul cordame d'un legno tunisino...
Ma l'Antòcari vola e il cuore esulta!
È la farfalla della novità,
la messaggiera della Primavera,
la grazia mite, l'anima del Marzo.
Essa avviva la linfa nelle scorze,
il brusio, il ronzio, lo stridio,
risuscita l'incognito indistinto.
Oh! Messaggiera della Primavera!
La Terra attende. Il cielo che riempie
il frastaglio dei rami e delle roccie
sembra intagliato nel cristallo terso;
il profilo dell'Alpi è puro argento;
pallido è il verde primo, il pioppo è brullo,
la quercia ancor non abbandona il fulvo
stridulo manto che sfidò l'inverno;
allieta lo squallore la pannocchia
pendula verdechiara del nocciòlo,
la nubecola timida del mandorlo;
tiepido è il sole, ma la neve intatta
sta nelle forre squallide, a bacìo.
La Primavera non è giunta ancora,
ma l'Antòcari vola e il cuore esulta!
La messaggiera della Primavera
è timida, sfuggevole alle dita,
coscïente di sua fragilità;
quasi non vola, s'abbandona al vento
e visita la primula e l'anemone,
la pervinca, il galanto, il bucaneve;
il vento marzolino fa tremare
petali ed ali dello stesso tremito
e l'occhio mal discerne la farfalla:
l'ali minori, marezzate in verde,
chiudono come un calice l'insetto.
Insetti e fiori; mimi scaltri, come
v'accordaste nei tempi delle origini?
Le pagine di pietra dissepolte
attestano che i fiori precedettero
gl'insetti sulla terra: fu l'anemone
che alla farfalla ragionò così:
«Sorella senza stelo, come sei
fragile d'ali e debole di volo!
Salvati dal ramarro e dalla passera:
rivestiti di me, tingiti in verde
ai lati, in bianco a mezzo, in fulvo a sommo,
e con l'antenne simula i pistilli!».
E il fior primaverile alla farfalla
primaverile diede i suoi colori:
dolce alleato nella vita breve...
E la caduca musa marzolina
sa che deve sparire con l'anemone,
sparire prima della Primavera...
Visita i fiori, intepidisce il regno
per le grandi farfalle che verranno,
poi, giunta al varco della vita breve,
congeda il Marzo, volgesi all'Aprile:
Aprile! Marzo andò: tu puoi venire!...
inizio paginaOrnithoptera Pronomus
Sopra l'astuccio nitido di lacca
una fascia di seta giavanese
evoca un mare calmo che scintilla
tra i palmizi dai vertici svettanti.
Mi saluta un mio pallido fratello
navigatore in quelle parti calde
d'India, mi parla delle mie raccolte,
ricorda la mia grande tenerezza
per le cose che vivono, rimpiange
di non avermi seco nelle valli
favolose, mi manda una farfalla
che mi porti il saluto d'oltremare
attraverso la mole della Terra,
dalle selve incantate degli antipodi.
Con un tremito lieve delle dita
apro l'astuccio d'erba contessuta
e in un bagliore d'oro e di smeraldo
ecco m'appare la farfalla enorme
che mi giunge di là, che riconosco.
L'Ornithoptera Pronomus, la specie
simbolica dell'isole remote,
la meraviglia che i naturalisti
del tempo andato, reduci da Giava,
dalle Molucche, dalla Polinesia,
ci descrissero in libri malinconici.
L'Ornithoptera Pronomus, la mole
abbagliante che supera ed offusca
le più belle farfalle dei musei.
Con un tremito lieve nelle dita,
il tremito che forse l'entomologo
comprende... estraggo delicatamente,
esamino il magnifico esemplare.
Mistero intraducibile ch'emana
dalle farfalle esotiche! Lo sguardo
si perde, si confonde sbigottito
come da forme soprannaturali;
misera veste delle nostre Arginnidi,
delle nostre Vanesse, delle nostre
più belle specie, comparate a questa
meravigliosa forma d'oltremare!
Medito a lungo e l'occhio indagatore
pur già discerne qualche analogia;
anche questa bellezza che m'abbaglia
come una forma non terrestre, come
una specie selenica, fa parte
della grande catena armonïosa,
ha remoti parenti anche tra noi.
Le zampe lunghe speronate, l'ali
angolari dal margine ondulato,
l'addome snello pur nella sua mole,
un po' ricurvo, il corsaletto breve,
la breve testa dalle antenne a clava,
fanno dell'Ornithoptera il cugino
barbaro del Papilio Podalirio.
Ma come travestito! L'ali sono
immense, di velluto nero, accese
da larghe zone d'una brace verde,
un verde inconciliabile col nostro
pallido sole settentrïonale,
l'addome è giallo, un giallo polinese
intollerando sotto i nostri climi.
La farfalla è brevissima, tutt'ala,
stupendamente barbara, inquietante
come un gioiello d'oro e di smeraldo
foggiato per la fronte tatüata
d'un principe, da un orafo papuaso
ch'abbia tolto a modello il Podalirio
nostrano, ingigantendolo, avvivandolo
di colori terribili, secondo
l'arte dell'arcipelago selvaggio.
E la farfalla, che non so pensare
sui nostri fiori, sotto il nostro cielo,
ben s'accorda coi mostri floreali:
gnomi panciuti dalle barbe pendule,
ampolle inusitate, coni lividi
evocanti la peste e il malefizio;
s'accorda coi paesi della favola
sopravissuti al tempo delle origini:
vulcani ardenti, moli di basalto,
foreste dal profilo mïocenico
dall'aria dolce senza mutamento,
dove la luce tremola e scintilla
tra il fasto delle felci arborescenti.
Acherontia Atropos
D'estate, in un sentiero di campagna,
v'occorse certo d'incontrare un bruco
enorme e glabro, verde e giallo, ornato
di sette zone oblique turchiniccie.
Il bruco errava in cerca della terra
dove affondare e trasmutarsi in ninfa;
e dalla gaia larva, a smalti chiari,
nasceva nell'autunno la più tetra
delle farfalle: l'Acherontia Atropos.
Certo vi è nota questa cupa sfinge
favoleggiata, dal massiccio addome,
dal corsaletto folto, con impresso
in giallo d'ocra il segno spaventoso.
Natura, che dispensa alle Dïurne
i colori dei fiori e delle gemme,
Natura volle l'Acherontia Atropos
simbolo della Notte e della Morte,
messaggiera del Buio e del Mistero,
e la segnò con la divisa fosca
e d'un sinistro canto. L'entomologo
tuttora indaga come l'Acherontia
si lagni. Disse alcuno, col vibrare
dei tarsi. Ma non è. Mozzato ho i tarsi
all'Acherontia e s'è lagnata ancora.
Parve ad altri col fremito dei palpi.
Io cementai di mastice la bocca
all'Acherontia e s'è librata ancora
per la mia stanza, ha proseguito ancora
più furibondo il grido d'oltretomba;
grido che pare giungere da un'anima
penante che preceda la farfalla,
misterïoso lagno che riempie
uomini e bestie d'un ignoto orrore:
ho veduto il mio cane temerario
abbiosciarsi tremando foglia a foglia,
rifiutarsi d'entrare nella stanza
dov'era l'Acherontia lamentosa.
L'apicultore sa che questo lagno
imita il lagno dell'ape regina
quando è furente contro le rivali
e concede alla sfinge d'aggirarsi
pei favi, sazïandosi di miele.
L'operaie non pungono l'intrusa,
si dispongono in cerchio al suo passaggio,
con l'ali chine e con l'addome alzato,
l'atteggiamento mite e riverente
detto «la rosa» dall'apicultore.
E la nemica dell'apicultore
col triste canto incanta l'alveare.
All'alba solo, quando l'Acherontia
intorpidita e sazia tace e dorme,
l'operaie decretano la morte.
Depone ognuna sopra l'assopita
un granello di propoli, il cemento
resinoso che tolgono alle gemme.
E la nemica è rivestita in breve
d'una guaina e non ha più risveglio.
L'apicultore trova ad ogni autunno,
tra i favi, questi grandi mausolei.
Farfalla strana, figlia della Notte,
sorella della nottola e del gufo,
opra non di Natura, ma di dèmoni,
evocata con filtri e segni e cabale
dalle profondità d'una caverna!
Bimbo, ricordo, per le mie raccolte,
sempre immolai con trepidanza questa
cupa farfalla, quasi nel terrore
di suscitare con la fosca vittima
l'ira d'una potenza tenebrosa.
E anche perché l'Atropo mi parla
di cose rare, dell'antiche ville.
Sul canterano dell'Impero, sotto
la campana di vetro che racchiude
le madrepore rare e le conchiglie,
sta quasi sempre l'Acherontia Atropos
depostavi da un nonno giovinetto.
L'Acherontia frequenta le campagne,
i giardini degli uomini, le ville;
di giorno giace contro i muri e i tronchi,
nei corridoi più cupi, nei solai
più desolati, sotto le grondaie,
dorme con l'ali ripiegate a tetto.
E n'esce a sera. Nelle sere illuni
fredde stellate di settembre, quando
il crepuscolo già cede alla notte
e le farfalle della luce sono
scomparse, l'Acherontia lamentosa
si libra solitaria nelle tenebre
tra i camerops, le tuje, sulle ajole
dove dianzi scherzavano i fanciulli,
le Vanesse, le Arginnidi, i Papilî.
L'Acherontia s'aggira: il pippistrello
l'evita con un guizzo repentino.
L'Acherontia s'aggira. Alto è il silenzio
comentato, non rotto, dalle strigi,
dallo stridio monotono dei grilli.
La villa è immersa nella notte. Solo
spiccano le finestre della sala
da pranzo dove la famiglia cena.
L'Acherontia s'appressa esita spia
numera i commensali ad uno ad uno,
sibila un nome, cozza contro i vetri
tre quattro volte come nocca ossuta.
La giovinetta più pallida s'alza
con un sussulto, come ad un richiamo.
«Chi c'è?» Socchiude la finestra, esplora
il giardino invisibile, protende
il capo d'oro nella notte illune.
«Chi c'è? Chi c'è?» «Non c'è nessuno. Mamma!»
Richiude i vetri, con un primo brivido,
risiede a mensa, tra le sue sorelle.
Ma già s'ode il garrito dei fanciulli
giubilante per l'ospite improvvisa,
per l'ospite guizzata non veduta.
Intorno al lume turbina ronzando
la cupa messaggiera funeraria.
Macroglossa Stellatarum
Non tenebrosa come l'Acherontia -
benché sfinge e parente - ma latrice
di pace, messaggiera di speranze:
portanovelle, passera dei Santi,
col mattino chiarissimo di giugno
penetrò nella mia stanza tranquilla
la macroglossa rapida. L'illuse
questa banda di sole, questa rosa
vermiglia che rallegra le mie carte,
turbinò prigioniera visitando
le dipinte ghirlande del soffitto,
rapida giù per le finestre aperte
si dileguò come da corda cocca.
Certo in giardino la ritroveremo
sul caprifoglio che ricopre i muri
d'una cortina folta innebriante.
Eccola in opra sui corimbi; guizza
da fiore a fiore come una saetta,
sosta, si libra, immobile nell'aria,
immerge la proboscide nel calice,
e il corpo appare immoto nell'aureola
dell'ali rivibranti: spola aerea,
prodigio di sveltezza equilibrata!
Tutto - nel capo aguzzo, nelle antenne
reclini sotto i palpi, nelle zampe
brevi aderenti al corsaletto lustro,
nell'addome sfuggente affusolato,
munito d'una spata di pelurie
mobile forte come cocca espansa
atta a guidare e a mitigare il volo -
tutto s'affina nella macroglossa
a fender l'aria, vincere lo spazio
visitare i giardini più remoti
in brev'istanza, messaggiera arcana
da fiore a fiore. E i fiori si protendono
verso l'insetto, come ad un'offerta.
Amica, sotto il nostro sguardo ignaro
si celebra tra il fiore e la farfalla
il rito più mirabile, il mistero
più tenero: le nozze floreali.
«Mariti uxores unoeodemque thalamo
gaudent...», Linneo meditabondo scrive.
Degli sposi gran parte nasce vive
ama nel tabernacolo smagliante
della stessa corolla; sul pistillo
giunge dall'alto degli stami il bacio
desiderato, il polline fecondo.
Ma dopo esperïenze millenarie
molti fiori s'avvidero che il bacio
nella stessa corolla, che lo stimma
fecondato dal polline fraterno,
conduceva la stirpe in decadenza,
e vollero l'amplesso dell'amante
lontano e meditarono le nozze
non possibili. Alcuni, gli anemofili
affidarono i baci d'oro al vento;
gli entomofili vollero gli insetti
paraninfi discreti e vigilanti.
Ma il fiore - che sa tutto - non ignora
che vano è al mondo attendere conforto
se non da noi, che la farfalla esiste
pel suo bene soltanto e la sua specie;
ed ecco le scaltrezze del richiamo:
i colori magnifici, i profumi
ineffabili, il nettare che il fiore
distilla in fondo al calice, a compenso
del messaggio d'amore, per attingere
la coppa ambrosia con la sua proboscide,
la macroglossa deve tutti compiere
i riti delle nozze floreali.
Dall'epoca dell'arco e della clava
ai giorni più recenti del telaio,
del paranco, del fuso , dell'ariete,
quando - e fu ieri - nostre meraviglie
erano l'archibugio e l'orologio,
i piccoli inventori propagavano
la specie con mirabili congegni:
l'elica rapidissima, il velivolo
dell'acero, del tiglio, il vagabondo
paracadute argenteo del cardo,
la capsula esplosiva dell'euforbia,
l'arma della mormodica potente,
il gioco delle valvole, dei tubi
intercomunicanti d'Archimede
bene eseguito dalle piante acquatiche,
l'ampolla chiusa, i piani inclini della
ginestra, i raffi che lo scantio aggancia
al pelo od alla veste del passante,
tutti gli ordegni meditati, tutti
gli accorgimenti per coperte vie,
adatti a propagare la semenza
schiusa dall'ombra torpida materna.
Questo popolo verde che ci appare
inerte e rassegnato, è il più ribelle
alla fatalità che lo condanna
in terra, dalla nascita alla morte.
Un desiderio senza tregua, come
di trasformarsi, sale dalla tenebra
delle radici, grida nella luce
delle corolle, cerca la sua legge:
liberarsi, fuggire, modulare
l'ali, imitare le farfalle al volo.
A tante meraviglie il nostro vano
orgoglio mal s'oppone col sofisma
che l'intesa tra il fiore e la farfalla
è fissa, che il mirabile congegno
non muta. Ma il convolvo domestico
abolisce il nettario, più non chiama
la macroglossa da che sente l'uomo
paraninfo sicuro e vigilante;
altri fiori depongono gli aculei,
il latice, i viticci, da che l'uomo
li difende li guida li sorregge.
I fiori precedettero gli insetti
sulla terra nel tempo delle origini;
questa sola certezza ci rivela
un'intesa tra il fiore e la farfalla,
ci rivela che i piccoli inventori
sovvertono le leggi ed i modelli.
All'apparire della macroglossa
il caprifoglio congegnò se stesso
all'indole dell'ospite imprevista.
Altri dica: è Natura, e non il fiore,
è Natura che fa tanto sottili
provvedimenti! Menoma per questo
forse il fervore della nostra indagine?
Un enimma più forte ci tormenta:
penetrare lo spirito immanente,
l'anima sparsa, il genio della Terra,
la virtù somma (poco importa il nome!),
leggere la sua meta ed il suo primo
perché nel suo visibile parlare.
Per chi cerca il volume a foglio a foglio
il genio della Terra - il genio certo
dell'Universo intero - si comporta
non come Dio ma come Uomo, attinge
le stesse mete con gli stessi metodi:
tenta s'inganna elimina corregge
sosta dispera spera come noi;
scopre ed inventa lento come il fisico,
calcola incerto come il matematico,
orna la terra come il buono artista.
Come noi lotta con la massa oscura
pesante enorme della sua materia;
non sa meglio di noi dov'esso vada,
agogna verso un ideale solo:
elaborare tutto ciò che vive
in sostanza più duttile e sottile,
trarre dalla materia il puro spirito.
Dispone d'alleanze innumerevoli,
ma le sue forze intellettive sono
pari alle nostre, nella nostra sfera.
E se non sdegna gli argomenti umani,
se tutto ciò che vibra in noi rivibra
in lui; se attende come noi quel Bene
sommo che la speranza ci promette,
giusto è pensare che su questa Terra
la traccia nostra non è fuor di strada,
giusto è pensare che un'intelligenza
sola, universa, sparsa ed immanente
penetra in guisa varia i corpi buoni
men buoni conduttori dello spirito;
giusto è pensare che tra questi l'uomo
è lo stromento dove più rivibra
la grande volontà dell'Universo.
Se la Natura mai non s'ingannasse
e tutto conoscesse e ovunque e sempre
rivelasse un ingegno senza fine,
noi dovremmo temere dell'enigma,
vacillare tremanti e sbigottiti;
ma il genio della Terra e il nostro spirito
attingono fraterni a una sorgente
sola; noi siamo nello stesso mondo
ribelli alla materia, eguali, a fronte
non di numi tremendi inaccessibili
ma di fraterne volontà velate.
Amica, forse troppo a lungo e troppo
superbamente noi c'immaginammo
creature divine incomparabili
senza parenti sulla Terra. Meglio
ritrovarsi tra i fiori e le farfalle,
essere peregrin come son quelli,
verso la meta sconosciuta e certa.
Certa è la meta. Com'è dato leggere
tutto il destino della Macroglossa
in ogni parte del suo corpo aereo
foggiato ad eternare la bellezza
d'una fragile stirpe floreale,
chiaro si legge il compito dell'uomo
nel suo cervello e nei suoi nervi acuti.
Nessuno s'ebbe più palese il dono
d'elaborare la materia sorda
in un'essenza non mortale: anelito
di tutto ciò che vive sulla Terra
fluido strano ch'ebbe nome Spirito,
Pensiero, Intelligenza, Anima, fluido
dai mille nomi e dall'essenza unica.
Tutto di noi gli è dato in sacrificio:
la ricchezza del sangue, l'equilibrio
degli organi, la forza delle membra,
l'agilità dei muscoli, la bella
bestialità, l'istinto della vita.