|
||||
.
|
.
|
La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada)
chi ha
A la Madonna del Ponte chi è chi è che ha acceso la
lampada? – c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste
di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:...
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo
notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano
lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a
la fine di un giorno che
apparve15
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune...
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
o delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Ho visto il tuo palazzo palpitare
Di mille fiamme in una sera calda
O Firenze, il magnifico palazzo.
Già la folla à riempito la gran piazza
E vocia verso il suo palazzo vecchio
E beve la sua anima maliarda.
La confraternita di buona morte
Porta una bara sotto le tue mura:
Questo m’allieta questo m’assicura
Della tua forza di contro alla morte:
Non bruciano le tue ferree midolla
I tempi nuovi e non l’amaro agreste
Delle tue genti: in ricordanze in feste
L’àspero sangue sotto a te ribolla.
O ferro o sangue o fiamma è tutto fuoco
Che brucia la viltà dentro le vene!
A te dai petti e dalle gole piene,
Di gioia e forza un’inesausta polla!
Coi tuoi piccoli occhi bestiali
Mi guardi e taci e aspetti e poi ti stringi
E mi riguardi e taci. La tua carne
Goffa e pesante dorme intorpidita
Nei sogni primordiali. Prostituta....
Chi ti chiamò alla vita? D’onde vieni?
Dagli acri porti tirreni,
Dalle fiere cantanti di Toscana
O nelle sabbie ardenti voltolata
Fu la tua madre sotto gli scirocchi?
L’immensità t’impresse lo stupore
Nella faccia ferina di sfinge
L’alito brulicante della vita
Tragicamente come a lionessa
Ti disquassa la tua criniera nera
E tu guardi il sacrilego angelo biondo
Che non t’ama e non ami e che soffre
Di te e che stanco ti bacia.
Fiorenza giglio di potenza
virgulto primaverile. Le mattine di primavera sull’Arno. La grazia degli
adolescenti (che non è grazia al mondo che vinca tua grazia d’Aprile), vivo
vergine continuo alito, fresco che vivifica i marmi e fa nascere Venere
Botticelliana: I pollini del desiderio gravi da tutte le forme scultoree della
bellezza, l’alto Cielo spirituale, le linee delle colline che vagano,
insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento alitata dalle bianche forme
della bellezza: mentre pure nostra è la divinità del sentirsi oltre la
musica, nel sogno abitato di immagini plastiche! L’Arno qui ancora ha
tremiti freschi: poi lo occupa un silenzio dei più profondi: nel canale delle
colline basse e monotone toccando le piccole città etrusche, uguale oramai
sino alle foci, lasciando i bianchi trofei di Pisa, il duomo prezioso
traversato dalla trave colossale, che chiude nella sua nudità un così vasto
soffio marino. A Signa nel ronzìo musicale e assonnante ricordo quel profondo
silenzio: il silenzio di un’epoca sepolta, di una civiltà sepolta: e come
una fanciulla etrusca possa rattristare il paesaggio... Nel vico centrale
osterie malfamate, botteghe di rigattieri, bislacchi ottoni disparati. Un’osteria
sempre deserta di giorno mostra la sera dietro la vetrata un affaccendarsi di
figure losche. Grida e richiami beffardi e brutali si spandono pel vico quando
qualche avventore entra. In faccia nel vico breve e stretto c’è una
finestra, unica, ad inferriata, nella parete rossa corrosa di un vecchio
palazzo, dove dietro le sbarre si vedono affacciati dei visi ebeti di
prostitute disfatte a cui il belletto dà un aspetto tragico di pagliacci.
Quel passaggio deserto, fetido di un orinatoio, della muffa dei muri corrosi,
ha per sola prospettiva in fondo l’osteria. I pagliacci ritinti sembrano
seguire curiosamente la vita che si svolge dietro l’invetriata, tra il fumo
delle pastasciutte acide, le risa dei mantenuti dalle femmine e i silenzii
improvvisi che provoca la squadra mobile: Tre minorenni dondolano
monotonamente le loro grazie precoci. Tre tedeschi irsuti sparuti e
scalcagnati seggono compostamente attorno ad un litro. Uno di loro dalla
faccia di Cristo è rivestito da una tunica da prete (!) che tiene raccolta
sulle ginocchia. Fumo acre delle pastasciutte: tinnire di piatti e di
bicchieri: risa dei maschi dalle dita piene di anelli che si lasciano
accarezzare dalle femmine, ora che hanno mangiato. Passano le serve nell’aria
acre di fumo gettando un richiamo musicale: Pastee. In un quadro a bianco e
nero una ragazza bruna con una chitarra mostra i denti e il bianco degli occhi
appesa in alto. – Serenata sui Lungarni.
M’investe un soffio stanco
dalle colline fiorentine: porta un profumo di corolle smorte, misto a un odor
di lacche e di vernici di pitture antiche, percettibile appena (Mereskoswki).
Giovan Pietro Malalana
Tipo strano quanto mai
Nel gran dì della Befana
S’ebbe tanti e tanti guai
Che alla sera, stanco morto
E infangato come un cane
Volle bere come un porco
E abbrutirsi colle ciane
Se ne venne per le strade
Strette oscure e misteriose
Dove dietro le vetrate
Se ne stanno Gemme e Rose
Per le scale misteriose
Verticali al Paradiso
Dei soldati e delle spose
Ingannate dal marito.
Gemma e Rosa i fiori in testa
Se lo accolsero ridendo
E Matilde che alla lesta
Su da un piatto sta inghiottendo
Sollevò la bocca tinta
E gli disse in un sorriso:
Mangio ancora un pò d’aringa
Ed ho subito finito.
Malaccorto ed ubriaco
Si sdraiò con mala grazia
Sbadigliando a perdifiato
In sul muso della... Grazia
Che seccata di quell’uomo
Dalla barba già d’un mese
A squittire prese a buono
Nel suo gergo fredianese.
Il poeta se ne frega
E si sta come un Pascià
Tra le Urì di miglior lega
Del paradiso di Allà
E alle rose in carta rosa
E alle labbra di carmino
Di madonna l’ulcerosa
Ha già fatto un sonettino
Stanno zitte le figliole
A veder l’amor nascente
Anche Grazia – per la pace!
Biascia l’ultimo accidente.
Il poeta è addormentato!
Da quel pazzo che fu sempre
Nel più bello s’è scordato
Che l’amore è onnipotente...
Laa Nunziaaaca – nel vedere
Il suo disprezzato
Infuriata da vedere
S’è levata e l’ha scossato
Non si dorme sulle panche
O poeta capellone
Porta fuori le tue ciancie
E la sbornia sul groppone
E il decino t’un lo paghi?!...
Vàia vàia cappellone...
Se ne va il poeta stanco
Colla sbornia sul groppone
Per la scala misteriosa
Ridiscende brancolando
Dal di sopra han chiuso l’uscio
E lo stanno massacrando
Alla porta della strada
S’impunzona sospirando...
Dietro i vetri rilucenti
Stan le ciane commentando
Per la strada solitaria
Non un cane. Qualche stella
Nella notte sopra i tetti
E la notte gli par bella
E cammina il poveretto
Nella notte fantasiosa
E pur sente nella bocca
La saliva disgustosa
Sente il tanfo della casa
Ripugnante. Per le strade
Ei cammina e via cammina
Or le case
son più rade
Trova l’erba e si distende
Infangato come un cane
Da lontano un ubriaco
Canta amore alle persiane.
O poesia poesia poesia
Sorgi, sorgi, sorgi
Su dalla febbre elettrica del selciato notturno.
Sfrenati dalle elastiche silhouettes equivoche
Guizza nello scatto e nell’urlo improvviso
Sopra l’anonima fucileria monotona
Delle voci instancabili come i flutti
Stride la troia perversa al quadrivio
Poiché l’elegantone le rubò il cagnolino
Saltella una cocotte cavalletta
Da un marciapiede a un altro tutta verde
E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram
Silenzio – un gesto fulmineo
Ha generato una pioggia di stelle
Da un fianco che piega e rovina sotto il colpo
prestigioso
In un mantello di sangue vellutato occhieggiante
Silenzio ancora. Commenta secco
E sordo un revolver che annuncia
E chiude un altro destino
Lontane passan le navi
Nere perfide silenziose
Ma la tua bocca insaziabile
Le chiama in ruggito violento
Cannone furia appiattata
Fumida roggia che abbaglia
Cannone potenza in agguato
Sul mare che ride e abbarbaglia
Furore della terra
Che chiami sui mari infiniti
Le antiche potenze a raccolta
Lampo fumido come un sogno
Vivo e terribile sulla rovina
Voce inconscia di libertà
Amore titanico eroico
O voce rombo del cuore del mondo
Come il mar ti sorride
Ringiovanito, come la terra, e fresca
Aspra e acerba e balza ed anela tra il fumo
Che rode e scioglie la sua giovinezza
Acre aspera urgente insaziata.
Pei vichi fondi tra il palpito rosso
Dei fanali, sull’ombra illanguidita:
Al vento di preludio di un gran mare
Ricchissimo accampato in fondo all’ombra
Che mi cullava di venture incerte
Io me n’andavo nella sera ambigua
Nell’alito salso umano
Tra nimbi screziati sfuggenti
In alto da ogive orientali
Col caro mare nel petto
Col caro mare nell’anima
Or tremo. L’apparizione fu ineffabile
Una grazia lombarda in alto sale
Ventoso dolce e querula salia
(Vicendavano infaticabilmente
Nuvole e stelle nel cielo serale)
L’accompagnava un vecchio combattente
Ischeletrito da sorte nemica
Dallo sguardo diritto, umile ed alto:
Gioventù, gioventù ravvolta in veli
Luminosi, tradita dalla sorte
Giovinetta trafitta che invermiglia
Il sangue sulle labbra orribilmente
O stretta al magro padre sola figlia.
Di sotto il manto rosso del fanale
Io l’attesi e la vidi che sul labbro
Sul labbro del suo viso macilente
Le risplendeva un carminio spettrale
O vita sarcastica atroce
O miseria nefanda intravista
All’angolo di un vico lubrico nella sera ambigua
Al palpitare inquieto dei fanali
Animatrice delle vampe fantastiche
Di luce ed ombra vanenti col vento,
Di rumori cupi e di silenzii in risacca
Pei vichi stretti è vivo solo il rosso
Dei fanali, le stelle s’avvicendan
Colle nubi ed il vecchio si consiglia
Per salire alla piazza in alto ardente
Di luci e lampi, a lui stretta la figlia
Nel silenzio caldissimo ambiguo
Della notte voluttuosa
Scuotevasi il mare profondo:
Era caldo il silenzio sullo sfondo
Le navi inermi, drizzate in balzi
Terrifici al cielo
Allucinate in aurora
Elettrica inumana risplendente
Alla prora per l’occhio incandescente.
Un passo solitario,
Un’ombra di un’ombra sui quais.
La città stava sepolta
Nella luce uniforme fiammeggiante
E le navi angosciate
Mi suadevano all’ultima avventura
Nella notte di Giugno
Vasta terribile e pura
Ritorno inesorabilmente a te
Riscossa dal tuo sogno
Acqua di mare amaro
Che esali nella notte:
Verso le eterne rotte
Il mio destino prepara
Mare che batti come un cuore stanco
Violentato dalla voglia atroce
Di un Essere insaziato che si strugge
Della sua forza terrifica ardente:
Nave che soffri e vegli
Coll’occhio disumano
E al destino lontano
Sempre sopra del vano
Ondeggiare tu pensi
E m’arde e m’arde il cuore
Nella notte serena
Che tutta è per voi piena
Di fremiti di tombe.