CANTI  ORFICI

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L'invetriata

Viaggio a Montevideo

La chimera

Firenze vecchia

A una troia dagli occhi ferrigni

 

Firenze

Prosa fetida

O poesia poesia poesia

Lontane passan le navi

Pei vichi fondi tra il palpito rosso

 

 


L’invetriata

 

La sera fumosa d’estate

Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra

E mi lascia nel cuore un suggello ardente.

Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha

A la Madonna del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è

Nella stanza un odor di putredine: c’è

Nella stanza una piaga rossa languente.

Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:

E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è

Nel cuore della sera c’è,

Sempre una piaga rossa languente.

 

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Viaggio a Montevideo

 

Io vidi dal ponte della nave

I colli di Spagna

Svanire, nel verde

Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando

Come una melodia:

D’ignota scena fanciulla sola

Come una melodia

Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...

Illanguidiva la sera celeste sul mare:

Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale

Varcaron lentamente in un azzurreggiare:...

Lontani tinti dei varii colori

Dai più lontani silenzii

Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave

Già cieca varcando battendo la tenebra

Coi nostri naufraghi cuori

Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.

Ma un giorno

Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna

Da gli occhi torbidi e angelici

Dai seni gravidi di vertigine. Quando

In una baia profonda di un’isola equatoriale

In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno

Noi vedemmo sorgere nella luce incantata

Una bianca città addormentata

Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti

Nel soffio torbido dell’equatore: finché

Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,

Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore

Noi lasciammo la città equatoriale

Verso l’inquieto mare notturno.

Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi

Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:

Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina

Una fanciulla della razza nuova,

Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che

apparve15

La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:

E vidi come cavalle

Vertiginose che si scioglievano le dune

Verso la prateria senza fine

Deserta senza le case umane

E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve

Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,

Del continente nuovo la capitale marina.

Limpido fresco ed elettrico era il lume

Della sera e là le alte case parevan deserte

Laggiù sul mar del pirata

De la città abbandonata

Tra il mare giallo e le dune...

 

 

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La chimera

 

Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m’apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

o delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina o Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose,

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l’immobilità dei firmamenti

E i gonfi rivi che vanno piangenti

E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

 

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  Firenze vecchia

 

Ho visto il tuo palazzo palpitare

Di mille fiamme in una sera calda

O Firenze, il magnifico palazzo.

Già la folla à riempito la gran piazza

E vocia verso il suo palazzo vecchio

E beve la sua anima maliarda.

La confraternita di buona morte

Porta una bara sotto le tue mura:

Questo m’allieta questo m’assicura

Della tua forza di contro alla morte:

Non bruciano le tue ferree midolla

I tempi nuovi e non l’amaro agreste

Delle tue genti: in ricordanze in feste

L’àspero sangue sotto a te ribolla.

O ferro o sangue o fiamma è tutto fuoco

Che brucia la viltà dentro le vene!

A te dai petti e dalle gole piene,

Di gioia e forza un’inesausta polla!

 

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A una troia dagli occhi ferrigni

 

Coi tuoi piccoli occhi bestiali

Mi guardi e taci e aspetti e poi ti stringi

E mi riguardi e taci. La tua carne

Goffa e pesante dorme intorpidita

Nei sogni primordiali. Prostituta....

Chi ti chiamò alla vita? D’onde vieni?

Dagli acri porti tirreni,

Dalle fiere cantanti di Toscana

O nelle sabbie ardenti voltolata

Fu la tua madre sotto gli scirocchi?

L’immensità t’impresse lo stupore

Nella faccia ferina di sfinge

L’alito brulicante della vita

Tragicamente come a lionessa

Ti disquassa la tua criniera nera

E tu guardi il sacrilego angelo biondo

Che non t’ama e non ami e che soffre

Di te e che stanco ti bacia.

 

 

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Firenze

 

Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile. Le mattine di primavera sull’Arno. La grazia degli adolescenti (che non è grazia al mondo che vinca tua grazia d’Aprile), vivo vergine continuo alito, fresco che vivifica i marmi e fa nascere Venere Botticelliana: I pollini del desiderio gravi da tutte le forme scultoree della bellezza, l’alto Cielo spirituale, le linee delle colline che vagano, insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento alitata dalle bianche forme della bellezza: mentre pure nostra è la divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche! L’Arno qui ancora ha tremiti freschi: poi lo occupa un silenzio dei più profondi: nel canale delle colline basse e monotone toccando le piccole città etrusche, uguale oramai sino alle foci, lasciando i bianchi trofei di Pisa, il duomo prezioso traversato dalla trave colossale, che chiude nella sua nudità un così vasto soffio marino. A Signa nel ronzìo musicale e assonnante ricordo quel profondo silenzio: il silenzio di un’epoca sepolta, di una civiltà sepolta: e come una fanciulla etrusca possa rattristare il paesaggio... Nel vico centrale osterie malfamate, botteghe di rigattieri, bislacchi ottoni disparati. Un’osteria sempre deserta di giorno mostra la sera dietro la vetrata un affaccendarsi di figure losche. Grida e richiami beffardi e brutali si spandono pel vico quando qualche avventore entra. In faccia nel vico breve e stretto c’è una finestra, unica, ad inferriata, nella parete rossa corrosa di un vecchio palazzo, dove dietro le sbarre si vedono affacciati dei visi ebeti di prostitute disfatte a cui il belletto dà un aspetto tragico di pagliacci. Quel passaggio deserto, fetido di un orinatoio, della muffa dei muri corrosi, ha per sola prospettiva in fondo l’osteria. I pagliacci ritinti sembrano seguire curiosamente la vita che si svolge dietro l’invetriata, tra il fumo delle pastasciutte acide, le risa dei mantenuti dalle femmine e i silenzii improvvisi che provoca la squadra mobile: Tre minorenni dondolano monotonamente le loro grazie precoci. Tre tedeschi irsuti sparuti e scalcagnati seggono compostamente attorno ad un litro. Uno di loro dalla faccia di Cristo è rivestito da una tunica da prete (!) che tiene raccolta sulle ginocchia. Fumo acre delle pastasciutte: tinnire di piatti e di bicchieri: risa dei maschi dalle dita piene di anelli che si lasciano accarezzare dalle femmine, ora che hanno mangiato. Passano le serve nell’aria acre di fumo gettando un richiamo musicale: Pastee. In un quadro a bianco e nero una ragazza bruna con una chitarra mostra i denti e il bianco degli occhi appesa in alto. – Serenata sui Lungarni.

M’investe un soffio stanco dalle colline fiorentine: porta un profumo di corolle smorte, misto a un odor di lacche e di vernici di pitture antiche, percettibile appena (Mereskoswki).

 

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Prosa fetida

 

Giovan Pietro Malalana

Tipo strano quanto mai

Nel gran dì della Befana

S’ebbe tanti e tanti guai

Che alla sera, stanco morto

E infangato come un cane

Volle bere come un porco

E abbrutirsi colle ciane

Se ne venne per le strade

Strette oscure e misteriose

Dove dietro le vetrate

Se ne stanno Gemme e Rose

Per le scale misteriose

Verticali al Paradiso

Dei soldati e delle spose

Ingannate dal marito.

Gemma e Rosa i fiori in testa

Se lo accolsero ridendo

E Matilde che alla lesta

Su da un piatto sta inghiottendo

Sollevò la bocca tinta

E gli disse in un sorriso:

Mangio ancora un pò d’aringa

Ed ho subito finito.

Malaccorto ed ubriaco

Si sdraiò con mala grazia

Sbadigliando a perdifiato

In sul muso della... Grazia

Che seccata di quell’uomo

Dalla barba già d’un mese

A squittire prese a buono

Nel suo gergo fredianese.

Il poeta se ne frega

E si sta come un Pascià

Tra le Urì di miglior lega

Del paradiso di Allà

E alle rose in carta rosa

E alle labbra di carmino

Di madonna l’ulcerosa

Ha già fatto un sonettino

Stanno zitte le figliole

A veder l’amor nascente

Anche Grazia – per la pace!

Biascia l’ultimo accidente.

Il poeta è addormentato!

Da quel pazzo che fu sempre

Nel più bello s’è scordato

Che l’amore è onnipotente...

Laa Nunziaaaca – nel vedere

Il suo disprezzato

Infuriata da vedere

S’è levata e l’ha scossato

Non si dorme sulle panche

O poeta capellone

Porta fuori le tue ciancie

E la sbornia sul groppone

E il decino t’un lo paghi?!...

Vàia vàia cappellone...

Se ne va il poeta stanco

Colla sbornia sul groppone

Per la scala misteriosa

Ridiscende brancolando

Dal di sopra han chiuso l’uscio

E lo stanno massacrando

Alla porta della strada

S’impunzona sospirando...

Dietro i vetri rilucenti

Stan le ciane commentando

Per la strada solitaria

Non un cane. Qualche stella

Nella notte sopra i tetti

E la notte gli par bella

E cammina il poveretto

Nella notte fantasiosa

E pur sente nella bocca

La saliva disgustosa

Sente il tanfo della casa

Ripugnante. Per le strade

Ei cammina e via cammina

Or le case son più rade

Trova l’erba e si distende

Infangato come un cane

Da lontano un ubriaco

Canta amore alle persiane.

 

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O poesia poesia poesia

 

O poesia poesia poesia

Sorgi, sorgi, sorgi

Su dalla febbre elettrica del selciato notturno.

Sfrenati dalle elastiche silhouettes equivoche

Guizza nello scatto e nell’urlo improvviso

Sopra l’anonima fucileria monotona

Delle voci instancabili come i flutti

Stride la troia perversa al quadrivio

Poiché l’elegantone le rubò il cagnolino

Saltella una cocotte cavalletta

Da un marciapiede a un altro tutta verde

E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram

Silenzio – un gesto fulmineo

Ha generato una pioggia di stelle

Da un fianco che piega e rovina sotto il colpo

prestigioso

In un mantello di sangue vellutato occhieggiante

Silenzio ancora. Commenta secco

E sordo un revolver che annuncia

E chiude un altro destino

 

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Lontane passan le navi

 

Lontane passan le navi

Nere perfide silenziose

Ma la tua bocca insaziabile

Le chiama in ruggito violento

Cannone furia appiattata

Fumida roggia che abbaglia

Cannone potenza in agguato

Sul mare che ride e abbarbaglia

Furore della terra

Che chiami sui mari infiniti

Le antiche potenze a raccolta

Lampo fumido come un sogno

Vivo e terribile sulla rovina

Voce inconscia di libertà

Amore titanico eroico

O voce rombo del cuore del mondo

Come il mar ti sorride

Ringiovanito, come la terra, e fresca

Aspra e acerba e balza ed anela tra il fumo

Che rode e scioglie la sua giovinezza

Acre aspera urgente insaziata.

 

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Pei vichi fondi tra il palpito rosso

 

Pei vichi fondi tra il palpito rosso

Dei fanali, sull’ombra illanguidita:

Al vento di preludio di un gran mare

Ricchissimo accampato in fondo all’ombra

Che mi cullava di venture incerte

Io me n’andavo nella sera ambigua

Nell’alito salso umano

Tra nimbi screziati sfuggenti

In alto da ogive orientali

Col caro mare nel petto

Col caro mare nell’anima

Or tremo. L’apparizione fu ineffabile

Una grazia lombarda in alto sale

Ventoso dolce e querula salia

(Vicendavano infaticabilmente

Nuvole e stelle nel cielo serale)

L’accompagnava un vecchio combattente

Ischeletrito da sorte nemica

Dallo sguardo diritto, umile ed alto:

Gioventù, gioventù ravvolta in veli

Luminosi, tradita dalla sorte

Giovinetta trafitta che invermiglia

Il sangue sulle labbra orribilmente

O stretta al magro padre sola figlia.

Di sotto il manto rosso del fanale

Io l’attesi e la vidi che sul labbro

Sul labbro del suo viso macilente

Le risplendeva un carminio spettrale

O vita sarcastica atroce

O miseria nefanda intravista

All’angolo di un vico lubrico nella sera ambigua

Al palpitare inquieto dei fanali

Animatrice delle vampe fantastiche

Di luce ed ombra vanenti col vento,

Di rumori cupi e di silenzii in risacca

Pei vichi stretti è vivo solo il rosso

Dei fanali, le stelle s’avvicendan

Colle nubi ed il vecchio si consiglia

Per salire alla piazza in alto ardente

Di luci e lampi, a lui stretta la figlia

Nel silenzio caldissimo ambiguo

Della notte voluttuosa

Scuotevasi il mare profondo:

Era caldo il silenzio sullo sfondo

Le navi inermi, drizzate in balzi

Terrifici al cielo

Allucinate in aurora

Elettrica inumana risplendente

Alla prora per l’occhio incandescente.

Un passo solitario,

Un’ombra di un’ombra sui quais.

La città stava sepolta

Nella luce uniforme fiammeggiante

E le navi angosciate

Mi suadevano all’ultima avventura

Nella notte di Giugno

Vasta terribile e pura

Ritorno inesorabilmente a te

Riscossa dal tuo sogno

Acqua di mare amaro

Che esali nella notte:

Verso le eterne rotte

Il mio destino prepara

Mare che batti come un cuore stanco

Violentato dalla voglia atroce

Di un Essere insaziato che si strugge

Della sua forza terrifica ardente:

Nave che soffri e vegli

Coll’occhio disumano

E al destino lontano

Sempre sopra del vano

Ondeggiare tu pensi

E m’arde e m’arde il cuore

Nella notte serena

Che tutta è per voi piena

Di fremiti di tombe.

 

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