La rosa rossa

i racconti brevi di Patrizia
Se ne sta lì a riposare in mezzo al mio mazzo di margherite gialle nel vaso blu trasparente, come una regina seduta su un prato di sole. Una rosa rossa, ricevuta come omaggio da un amico caro e di lunga data, con cui ho diviso molti momenti felici nelle "scorribande" della mia compagnia di amici qui del mio paese: amici eccezionali, semplici e dotati di un cuore immenso che ho ritrovato vicinissimi e silenziosi in ogni momento triste che ho dovuto affrontare.. Quel fiore è uno dei ricordi di una dolce serata nella città che molti definiscono la più bella del mondo, qual è Venezia. La serata doveva essere la chiusura della stagione autunno-inverno-primavera dei giro dei bacari: una consuetudine un po' malsana che abbiamo appreso quest'anno ma che ci ha regalato momenti molto divertenti..dicono o no che il vino in compagnia fa allegria? E' bello vivere questa esperienza che permette a chiunque di immergersi nelle serate tipiche della gente veneziana doc e non..come studenti e lavoratori. Il giro dei bacari ha permesso a me di scoprire l'anima dolce e incantevole di Venezia, perché pur vivendoci così vicina io l'ho vista per la prima volta a 15 anni e l'avevo sempre "bollata" come città triste e malinconica, non ideale per il mio spirito positivista.  Ho visto Venezia di sera per la prima volta ad ottobre: accarezzata da un venticello frizzante carico di profumo marino, mi ha stregata..le calli immerse nel silenzio in cui echeggiavano le nostre risate e le nostre voci miste ad espressioni in lingue totalmente diverse dalla nostra, il rumore dei nostri passi nei selciati e sui gradini dei ponti, i profumi di minestre e pesce fritto che sprigionavano dalle finestre illuminate delle case e dei ristorantini, il vociare animato dei suoi abitanti da una terrazza all'altra, le chiacchiere delle tv accese e la musica degli appartamenti e dei convitti studenteschi. Tutto questo era Venezia immersa nella notte calante di un sabato autunnale: gente che trascinava carrelli stracolmi di vivande, sacchetti pieni degli acquisti di una giornata in giro per i negozietti, turisti carichi di bagagli, ragazzi allegri in libera uscita dopo una settimana di scuola, giovani pronti per la scoperta di locali particolari e caratteristici pieni di vitalità e voglia di divertirsi, coppie di tutte le età strette in abbracci affettuosi ed ammaliate dagli splendori dell'architettuta di questa unica perla mondiale, israeliti ortodossi dal passo rapido e frettoloso, concentrati in discussioni in yiddish, con il loro completo scuro, la camicia bianca, il cappello a tesa larga e i fianchi cinti con lo scialle della preghiera le cui frange si intravedevano oltre l'orlo delle giacche, quei fili che corrispondono ognuno ad una lode a Dio Padre ...e vederli faceva ritornare me in altri luoghi carichi di significato, in una città il cui nome solo mi emoziona ancora. Ma ero a Venezia e così l'ho ritrovata a dicembre e a fine maggio, immersa nei profumi dei fiori che coprono le balconate e che ravvivano i giardini nascosti dei cortili, illuminata da candele profumate di citronella, sparse per le vie e nei luoghi adibite a feste . Ho visto Piazza San Marco illuminata dalle luci tenui dei lampioni che lasciavano solo intravedere lo splendore dei colori della facciata della Basilica e in cui si stagliava l'imponente altezza del campanile, all'orizzonte il dolce movimento del mare vestito a notte che cullava barche e gondole attraccate ...e la musica dei violini e dei pianoforti nei bar chiccosi con i tavolini affollati di gente elegante ed estasiata.. io me ne la sono contemplata ammaliata dalle note di "Nessun Dorma", appoggiata ad una colonna dei portici della piazza e felice di poter godere di una così meravigliosa atmosfera. 

 

 

 

La notte di S.Lorenzo

Ero curiosissima ed elettrizzata all'idea di partecipare a questa festa della notte di San Lorenzo. Ivan me ne aveva parlato in maniera entusiasta ed era grazie a lui se potevamo essere presenti a questo evento particolare. "sai, questa festa viene organizzata ogni due anni da Paolo e vi partecipano i suoi amici e gli amici degli amici. Ogni volta riesce a trovare idee splendide; ricordo quella del 1998 con le ballerine indiane in costume tradizionale, dei suonatori di chitarra arabi, mangiafuochi. Marta ed Anna erano rimaste a bocca aperta, coinvolte nella magia di quella notte illuminata dalle fiaccole... Chissà cosa avrà pensato questa volta..." Era una fresca e piacevole serata di agosto, quando già inizi a sentire il declinarsi dell'estate nonostante la temperatura durante il giorno si mantenga piuttosto alta ed afosa. Ed era proprio quell'umidità a rinfrescare la pelle e a richiedere, per la mia scarsa capacità di trattenere calore, un golfino ed un foulard. L'appuntamento era in un rustico ristrutturato, situato nelle colline coperte di boschi e vigneti della pedemontana, tra Conegliano e Vittorio Veneto. La strada per raggiungerlo era sterrata e saliva dolcemente, segnata dal passaggio delle auto che ne avevano rubato l'erba con il loro via vai lasciandone una verde e folta presenza solo nella parte centrale del viottolo. I gelsi ne adornavano i cigli e ai loro forti e nodosi rami erano state appese lanterne di carta, costruite artigianamente con della rete a tramantura fitta che ne costituiva l'anima e la carta leggera di riso era stata decorata con pennellate di colore e disegni allegri semplici che rendevano la luce fioca delle candele in esse contenute vivace e festaiola. Il rustico era bellissimo, una di quelle costruzioni caratteristiche delle nostre montagne, costruito con sassi e pietre chiari; avevano fatto un lavoro meraviglioso attorno al nucleo originario piuttosto piccolo. Le stanze da letto erano tre anche se piccole, situate al piano superiore a cui si giungeva attraverso una scala di legno scuro, stretta e anche piuttosto ripida. Il piano inferiore era occupato da un soggiorno con divani chiari, tavolini di antiquariato e tappeti, e da una piccola cucina multifunzionale. Per recuperare spazio avevano realizzato completamente di legno, dietro la casa, una grande stanza, una specie di veranda chiusa da pareti di legno e vetri da cui si poteva vedere ovunque attorno, piena anch'essa di tappeti, mobili antichi, libri e un pianoforte a coda. Quella casa Paolo l'aveva scelta come luogo di liberazione, di rinnovamento: stanco della sua attività di grafico, aveva abbandonato Venezia per trovare il silenzio e la pace in quelle colline, dedicandosi prima alla realizzazione del suo "rifugio" e poi alla cura dei suoi interessi. E in tutto questo aveva coinvolto moglie e figlia che avevano accettato il cambiamento di vita, dall'acqua alla montagna silenziosa e solitaria.  La loro casa sembrava sorretta ma anche che sorreggesse quella porzione di pendio della collina che costruiva il terreno del loro giardino e dei loro frutteti. Avevano bonificato il terreno, ricavandone tre livelli su cui avevano piantato meli e peri; raggiungere la parte superiore della loro proprietà, che confinava con il bosco, non era affatto faticoso perché avevano creato delle stradine di accesso che si alzavano dolcemente e conducevano a serpentina fino alla boscaglia fitta.  La recinzione era realizzata con tronchi dipinti di scuro con la vernice repellente dell'acqua e il giardino era costeggiato di file di sempreverde di varie qualità, fiori di montagna coloratissimi raccolti in piccole aiuole monocolore e vasche di legno piene di gerani enormi e vermigli. Quello che mi colpì subito fu la luce; già le lanterne lungo il viottolo mi avevano quasi incantato ma il giardino era immerso nella magia: le luci artificiali esistevano solo all'interno della casa aperta e vivacizzata dal via vai degli amici ospiti; tante candele sparse ovunque illuminavano i sentierini che portavano su e giù per la proprietà, i colori dei fiori, i tavoli dei rinfreschi; altre lanterne colorate erano appese ai frutteti che con la loro luce li trasformavano in manichini enormi e contorti. Illuminato solo da una candela era anche un leggio, coperto di un trappo di seta scuro, che reggeva un quaderno dalla copertina rigida e una penna stilografica: un cartello azzurro lì appeso diceva "lasciate qui i vostri pensieri". Vi ho letto una bellissima poesia, dei saluti, delle battute in veneziano, dei ringraziamenti.... Scoprii che in maniera discreta Paolo aveva situato delle gigantografie che poi ci spiegò essere prese dal suo diario fotografico egiziano, visto che da due anni in periodo natalizio fuggiva vicino ad Abu Simbel e grazie alla conoscenza di alcuni responsabili del dipartimento archeologico egiziano che apprezzavano la sua autentica passione per quei tesori, riusciva ad entrare in luoghi proibiti al turismo di massa che nascondevano meravigliose opere. Gli si illuminavano gli occhi a parlarne e così era facile capire perché in quella notte che stava rendendo magica lui avesse addosso una maglietta nera raffigurante un cartiglio. La festa iniziò con un momento particolare: un frate francescano avrebbe benedetto la roccia in cui un amico pittore di Paolo aveva realizzato una dolcissima figura con gli acquarelli di San Francesco che parlava ad una colomba bianca. Per Paolo era importante visto che era il suo Santo, e Padre Silvio lo ringraziò perché quello era un momento, come disse lui scherzando, difficile vista la moda per i capitelli di Sant'Antonio e soprattutto di Padre Pio. Padre Silvio è un tenore del coro Castel di Conegliano, il coro dove il nostro amico Ivan è tenore solista. Paolo aveva scoperto quel gruppo per lavoro, visto che lo avevano contattato per curare la grafica del libro sulla storia del coro. Ma da lì era nata una amicizia particolare e sincera e non mancava la presenza dei canti tradizionali veneti nelle feste di quella casa. Proprio mentre il coro dedicava alcuni canti a Francesco, io piano piano scesi fino al leggio e lì lasciai il mio pensiero per quella fortunata presenza in un posto che mi sembrava uscito dalle favole. Era stata ideata una piccola pedana al secondo livello del pendio da cui un poeta agordino (Agordo -BL-) ci narrò divertenti poesie da lui scritte e per me fu come tornare indietro di dieci anni. Quell'accento mi ricordò i miei amici della montagna, proprio vicino ad Agordo, con cui trascorsi le mie estati dai 15 ai 20 anni, guardando le stelle proprio in sere come quelle, distesi sui prati umidi, a cantare e mangiare patate e pannocchie cucinate alla brace, stretta nel giubbotto d'alta quota. Dopo quel momento di tradizione venimmo invitati a seguire due ragazzi che erano i custodi delle stelle. Indossavano dei costumi realizzati con tessuti scuri come la notte, pennellati di tocchi di luce e di azzurro, maschere agli occhi e un mantello li avvolgeva.
Ci condussero nei pressi di un piccolo palcoscenico di pietra rotondo, situato nella parte est della proprietà e circondato da meli; panchine e sedie erano state poste attorno al palcoscenico ma io scelsi di restarmene seduta sul pendio inferiore da cui godevo di una vista meravigliosa: le colline attorno immerse nell'oscurità, la luna, le stelle anche se poche, la casa illuminata, le candele sparse, le lanterne, la capanna di San Francesco realizzata in legno e paglia sotto la quale era stata posta la roccia dipinta con l'immagine del Santo. I due custodi delle stelle ci regalarono un balletto dolce e alla fine gettarono in aria manciate di coriandoli argentei che sembravano regalarci quelle stelle che mancavano alla festa quella notte. Poi sul palco arrivò una poltrona di velluto ocra e una lampada veneziana colorata; era per Marco Stefani, un poeta veneziano che incantò tutti raccontandoci della sua adorata Venezia che però stava scomparendo piano piano con sua grande tristezza; una Venezia in cui esistevano ancora persone che amavano l'arte e ne capivano le difficoltà nel seguirla e praticarla. A lui ,per esempio, non facevano mai pagare i viaggi in vaporetto e se gli capitava di perdere l'ultima corsa per la sua calle perché reduce da una festa o da una conferenza, facevano addirittura fermate straordinarie. E quando lui chiedeva ogni volta perché, si sentiva rispondere "perché xe un poeta". Le sue poesie mi commossero perché sinceramente tristi e profonde e sto cercando ancora i suoi scritti.  Ma non mancò una ventata di musica speciale: due ragazzi brasiliani, lui alla chitarra e lei alla voce ci regalarono alcune canzoni tradizionali del loro popolo; due pianisti di jazz veneziani molto noti nell'ambiente realizzarono dei brani al pianoforte a coda, trasportato fino al palcoscenico e illuminato solo da una piccola abat-jour e lo spettacolo si concluse con le arie di un tenore di cui purtroppo non ricordo il nome, anch'egli veneziano ma di fama internazionale che ci incantò con arie dalla Turandot, da Madame Butterfly e da altre opere famosissime. E mentre ascoltavo tutto ciò io non potei non avvicinarmi al melo sulla cui chioma era stata posta una stella luminosissima di neon gialla; sotto di essa era stato posto un tavolino coperto da un telo turchino che reggeva una boccia di vetro trasparente con dentro piccoli rettangolini azzurri, un vaso dipinto a mano con scene di notti esotiche e che offriva delle striscioline di carta azzurra su cui si potevano , come spiegava un cartoncino, scrivere i propri desideri e i propri sogni. gettarli all'interno della boccia di vetro e alla fine della serata sarebbero stati bruciati nel falò della buona sorte che avrebbe permesso di realizzarli. Ma in Veneto non può mancare una festa senza che questa sia anche occasione di convivio e lì eravamo nella zona della tradizione dello spiedo che dal primo pomeriggio stava lentamente cucinandosi, assistito da pazienti cuochi volontari. Vicino alla veranda era stata realizzata una tettoia di legno con dei tavoli lunghissimi che offrivano olive, formaggio, pane, spiedo, porchetta e vino direttamente dalle damigiane. E tutta la magia della festa si fuse nel piacere del palato, del buon bicchiere di vino e dell'ascolto delle canzoni tradizionali che le voci armoniche del Coro Castel a lungo ci regalarono in quella notte di San Lorenzo di inizio millennio.

 

 

La panchina di Luisa 

Se ne sta lì bella luccicante nel suo nuovo look “verde Inghilterra” spolverata di foglie dalle gradazioni calde dell’autunno, la panchina di Luisa. Osserva da sempre la rivetta tranquilla del laghetto delle oche selvatiche, protetta dalle fronde dell’antico olmo dei giardini pubblici. Sembra un panchina nuova di fabbrica , nonostante il suo stile riveli un gusto del passato, grazie all’intervento di Giuseppe; gli operai del comune non avevano ritenuto meritasse di essere ripulita e riportata agli antichi splendori, coperta com’era di scritte, graffi di coltelli e monete e attaccata in più punti dalla aggressività della ruggine. Eppure quella panchina era posizionata in un luogo particolarmente bello e rilassante del parco pubblico, anche se dava l’idea della solitudine: su una piccola altura a cui si giungeva seguendo anche il sentierino di ghiaia bianca che normalmente veniva percorso anche di corsa da centinaia di giovani nelle sere primaverili ed estive. Era circondata e protetta da un muro di cespugli di bosso e solo quell’olmo placido e solitario sembrava stendere le braccia protettive sul quel punto di riposo. A quella panchina giungevano affaticati i nonni in passeggiata con i nipotini scatenati nell’ora del mezzo pomeriggio, costringendoli ad una sosta per riprendere fiato e distraendoli con piccole storie ed aneddoti proprio su Luisa. La panchina aveva ascoltato le grida silenziose di molti giovani combattuti nelle incertezze e nelle difficoltà della vita e dell’amore. Aveva assistito ai gesti affettuosi e amorevoli di coppie più o meno consolidate, più o meno ufficiali; aveva visto visi rigati di lacrime per un amore fallito, per un dolore familiare o personale. Aveva avuto sotto le sue assi protettive anche la compagnia di gatti spauriti, di cani spaventati dalla pioggia e di passerotti “chiacchieroni” beccheggianti le briciole sparse dagli occasionali avventori di pasti frugali e tascabili, nell’ora di pausa dell’ufficio. Quella panchina però aveva avuto soprattutto la presenza e la dolcezza di Luisa per circa trent’anni, con le tasche del cappotto color pepe e sale piene di avanzi di pagnotte e di biscotti sbriciolati. Luisa era una donna minuta e dal portamento elegante: da giovane aveva avuto lunghi capelli scuri ondulati che portava fermati con due mollette di metallo colorato ai lati della fronte, uno sguardo dolce e profondo e un sorriso aperto e generoso. A diciotto anni aveva piegato i pochi vestiti fatti dalla mamma ed era partita in treno per Genova dove per dieci anni aveva fatto la cameriera presso la casa di una famiglia della borghesia della città. Aveva imparato i gesti e il portamento adeguato a chi deve servire le pietanze ai signori ospiti dei padroni di casa. La signora era particolarmente legata a quella ragazza riservata e dallo sguardo buono: la portava con sé a fare i giri dei negozi della città e spesso le regalava qualcosa che esaltava senza fatica la sua bellezza naturale. A Genova Luisa aveva scoperto l’amore: ogni giorno usciva di corsa fino al fornaio per comperare le paste fresche per la colazione del conte. Lui era un giovane garzone dagli occhi chiari e dai gesti gentili; fu affascinato dalla timidezza e dall’eleganza di quella ragazza in divisa scura e collettino ricamato ed inamidato. Un giorno ebbe il coraggio di chiederle quale fosse il suo giorno o la sua serata libera e se lei avesse voluto accompagnarlo a mangiare un gelato. Quel gelato fu l’inizio di un amore profondo: non si spezzò mai, neppure di fronte alla morte. Claudio (quello era il suo nome) fu chiamato alle armi e fu costretto a partire per la campagna militare di Russia. Loro decisero di sposarsi in fretta quattro giorni prima della sua partenza, nella cappella di Maria Immacolata. E quei giorni li vissero totalmente, fondendo le loro anime in un modo che poi neppure il fato avverso poté separare. Claudio non tornò dalla guerra ma Luisa rimase ben cinquant’ anni aspettando di sentire bussare alla sua porta e di ritrovarsi improvvisamente quegli occhi quasi trasparenti e sorridenti sprofondare di nuovo dentro ai suoi. Lasciò Genova dopo dieci anni e tornò al suo paese. Molti furono i corteggiatori che tentarono di catturare l’affetto di quella donna elegante e gentile. Ma lei non trovò mai il profumo della pelle del suo Claudio e quegli occhi in nessuno di loro. Scelse solo il suo lavoro di sarta e un gatto tigrato a farle compagnia; aveva amiche e bimbi che bussavano alla sua porta per assaggiare i biscotti al miele fatti in casa. Ma lei andava da sola fino a quella panchina sotto l’olmo frondoso con le tasche piene di bocconcini per le anitre selvatiche del parco. E lì osservava con lo sguardo a volte triste a volte sorridente la gente che passava per quei viottoli ombrosi: giovani innamorati, abbracciati stretti stretti, coppie di mezza età cariche di sacchetti della spesa che accorciavano la via del ritorno a casa, giovani mamme con carrozzine, passeggini o bimbi ribelli ai loro primi passi o spericolati sulle altalene. Giuseppe era uno studente dell’istituto per geometri che preferiva consumare il pranzo che la madre gli preparava per i giorni degli allenamenti di pallacanestro del pomeriggio, seduto all’ombra di una betulla, in compagnia del suo giornale sportivo o della sua ragazza quando riusciva a stare con lui in quelle ore di pausa. Quella signora la osservava ogni volta pieno di curiosità: sempre seduta sola, con la sua borsetta scura e d’inverno con il suo cappellino di lana blu e il fiore bianco fatto a uncinetto. Chissà cosa pensava mentre osservava la gente che passava…e sempre a quell’ora. Ma non aveva il coraggio di avvicinarsi a lei e con qualche scusa banale iniziare a fare due chiacchiere: sembrava sola ma anche serena e regalava a chi passando la salutava un sorriso pieno di riconoscenza. A Giuseppe capitò di portare anche sua moglie a fare una passeggiata diversi anni dopo in quel parco nelle ore del primo pomeriggio della domenica e la vide ancora lì che distribuiva pezzi di biscotti e pane sbriciolato alle anitre, con la stessa espressione sul viso solo un po’ più rugoso…e quella visione gli regalò un soffio di serenità e gioia di rivederla. Ma un giorno all’edicola dove comprava il solito giornale sportivo , fu attratto da una epigrafe e da una foto: Luisa…ecco come si chiamava… Luisa se n’era andata altrettanto dolcemente, come gli aveva raccontato il giornalaio, addormentandosi due sere prima e non rivedendo però la luce del giorno dopo. Quell’uomo gli disse che sicuramente ora Luisa era felice perché poteva raggiungere suo marito, che aveva talmente amato da scegliere la solitudine per ben cinquant’anni. E magari ora erano in Paradiso, stretti l’uno a l’altra, cullati da un valzer lento come avevano fatto tanti anni prima. Giuseppe ritornò quel sabato mattina al parco; con sé aveva un barattolo di vernice verde scura e carta vetrata. Lavorò anche per tutto il pomeriggio ma alla fine quella panchina era di nuovo splendente: non c’erano più messaggi amorosi scritti con pennarelli indelebili, graffiature e sfregi, ruggine. Dietro a uno degli assi dello schienale, alla fine, Giuseppe scrisse con un tocco di vernice nera: “ A Luisa”. Sorrise e pensò che lei in quel momento lo stava guardando con occhi amorevoli per quel regalo, aggrappata al braccio del suo Claudio…
per sempre. 


Patty
 


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