La rosa rossa
Se ne sta lì a riposare in mezzo al mio mazzo di margherite gialle nel vaso blu
trasparente, come una regina seduta su un prato di sole. Una rosa rossa,
ricevuta come omaggio da un amico caro e di lunga data, con cui ho diviso molti
momenti felici nelle "scorribande" della mia compagnia di amici qui
del mio paese: amici eccezionali, semplici e dotati di un cuore immenso che ho
ritrovato vicinissimi e silenziosi in ogni momento triste che ho dovuto
affrontare.. Quel fiore è uno dei ricordi di una dolce serata nella città che
molti definiscono la più bella del mondo, qual è Venezia. La serata doveva
essere la chiusura della stagione autunno-inverno-primavera dei giro dei bacari:
una consuetudine un po' malsana che abbiamo appreso quest'anno ma che ci ha
regalato momenti molto divertenti..dicono o no che il vino in compagnia fa
allegria? E' bello vivere questa esperienza che permette a chiunque di
immergersi nelle serate tipiche della gente veneziana doc e non..come studenti e
lavoratori. Il giro dei bacari ha permesso a me di scoprire l'anima dolce e
incantevole di Venezia, perché pur vivendoci così vicina io l'ho vista per la
prima volta a 15 anni e l'avevo sempre "bollata" come città triste e
malinconica, non ideale per il mio spirito positivista. Ho visto Venezia
di sera per la prima volta ad ottobre: accarezzata da un venticello frizzante
carico di profumo marino, mi ha stregata..le calli immerse nel silenzio in cui
echeggiavano le nostre risate e le nostre voci miste ad espressioni in lingue
totalmente diverse dalla nostra, il rumore dei nostri passi nei selciati e sui
gradini dei ponti, i profumi di minestre e pesce fritto che sprigionavano dalle
finestre illuminate delle case e dei ristorantini, il vociare animato dei suoi
abitanti da una terrazza all'altra, le chiacchiere delle tv accese e la musica
degli appartamenti e dei convitti studenteschi. Tutto questo era Venezia immersa
nella notte calante di un sabato autunnale: gente che trascinava carrelli
stracolmi di vivande, sacchetti pieni degli acquisti di una giornata in giro per
i negozietti, turisti carichi di bagagli, ragazzi allegri in libera uscita dopo
una settimana di scuola, giovani pronti per la scoperta di locali particolari e
caratteristici pieni di vitalità e voglia di divertirsi, coppie di tutte le età
strette in abbracci affettuosi ed ammaliate dagli splendori dell'architettuta di
questa unica perla mondiale, israeliti ortodossi dal passo rapido e frettoloso,
concentrati in discussioni in yiddish, con il loro completo scuro, la camicia
bianca, il cappello a tesa larga e i fianchi cinti con lo scialle della
preghiera le cui frange si intravedevano oltre l'orlo delle giacche, quei fili
che corrispondono ognuno ad una lode a Dio Padre ...e vederli faceva ritornare
me in altri luoghi carichi di significato, in una città il cui nome solo mi
emoziona ancora. Ma ero a Venezia e così l'ho ritrovata a dicembre e a fine
maggio, immersa nei profumi dei fiori che coprono le balconate e che ravvivano i
giardini nascosti dei cortili, illuminata da candele profumate di citronella,
sparse per le vie e nei luoghi adibite a feste . Ho visto Piazza San Marco
illuminata dalle luci tenui dei lampioni che lasciavano solo intravedere lo
splendore dei colori della facciata della Basilica e in cui si stagliava
l'imponente altezza del campanile, all'orizzonte il dolce movimento del mare
vestito a notte che cullava barche e gondole attraccate ...e la musica dei
violini e dei pianoforti nei bar chiccosi con i tavolini affollati di gente
elegante ed estasiata.. io me ne la sono contemplata ammaliata dalle note di
"Nessun Dorma", appoggiata ad una colonna dei portici della piazza e
felice di poter godere di una così meravigliosa atmosfera.
La notte di S.Lorenzo
Ero
curiosissima ed elettrizzata all'idea di partecipare a questa festa della notte
di San Lorenzo. Ivan me ne aveva parlato in maniera entusiasta ed era grazie a
lui se potevamo essere presenti a questo evento particolare. "sai, questa
festa viene organizzata ogni due anni da Paolo e vi partecipano i suoi amici e
gli amici degli amici. Ogni volta riesce a trovare idee splendide; ricordo
quella del 1998 con le ballerine indiane in costume tradizionale, dei suonatori
di chitarra arabi, mangiafuochi. Marta ed Anna erano rimaste a bocca aperta,
coinvolte nella magia di quella notte illuminata dalle fiaccole... Chissà cosa
avrà pensato questa volta..." Era una fresca e piacevole serata di agosto,
quando già inizi a sentire il declinarsi dell'estate nonostante la temperatura
durante il giorno si mantenga piuttosto alta ed afosa. Ed era proprio
quell'umidità a rinfrescare la pelle e a richiedere, per la mia scarsa capacità
di trattenere calore, un golfino ed un foulard. L'appuntamento era in un rustico
ristrutturato, situato nelle colline coperte di boschi e vigneti della
pedemontana, tra Conegliano e Vittorio Veneto. La strada per raggiungerlo era
sterrata e saliva dolcemente, segnata dal passaggio delle auto che ne avevano
rubato l'erba con il loro via vai lasciandone una verde e folta presenza solo
nella parte centrale del viottolo. I gelsi ne adornavano i cigli e ai loro forti
e nodosi rami erano state appese lanterne di carta, costruite artigianamente con
della rete a tramantura fitta che ne costituiva l'anima e la carta leggera di
riso era stata decorata con pennellate di colore e disegni allegri semplici che
rendevano la luce fioca delle candele in esse contenute vivace e festaiola. Il
rustico era bellissimo, una di quelle costruzioni caratteristiche delle nostre
montagne, costruito con sassi e pietre chiari; avevano fatto un lavoro
meraviglioso attorno al nucleo originario piuttosto piccolo. Le stanze da letto
erano tre anche se piccole, situate al piano superiore a cui si giungeva
attraverso una scala di legno scuro, stretta e anche piuttosto ripida. Il piano
inferiore era occupato da un soggiorno con divani chiari, tavolini di
antiquariato e tappeti, e da una piccola cucina multifunzionale. Per recuperare
spazio avevano realizzato completamente di legno, dietro la casa, una grande
stanza, una specie di veranda chiusa da pareti di legno e vetri da cui si poteva
vedere ovunque attorno, piena anch'essa di tappeti, mobili antichi, libri e un
pianoforte a coda. Quella casa Paolo l'aveva scelta come luogo di liberazione,
di rinnovamento: stanco della sua attività di grafico, aveva abbandonato
Venezia per trovare il silenzio e la pace in quelle colline, dedicandosi prima
alla realizzazione del suo "rifugio" e poi alla cura dei suoi
interessi. E in tutto questo aveva coinvolto moglie e figlia che avevano
accettato il cambiamento di vita, dall'acqua alla montagna silenziosa e
solitaria. La loro casa sembrava sorretta ma anche che sorreggesse quella
porzione di pendio della collina che costruiva il terreno del loro giardino e
dei loro frutteti. Avevano bonificato il terreno, ricavandone tre livelli su cui
avevano piantato meli e peri; raggiungere la parte superiore della loro proprietà,
che confinava con il bosco, non era affatto faticoso perché avevano creato
delle stradine di accesso che si alzavano dolcemente e conducevano a serpentina
fino alla boscaglia fitta. La recinzione era realizzata con tronchi
dipinti di scuro con la vernice repellente dell'acqua e il giardino era
costeggiato di file di sempreverde di varie qualità, fiori di montagna
coloratissimi raccolti in piccole aiuole monocolore e vasche di legno piene di
gerani enormi e vermigli. Quello che mi colpì subito fu la luce; già le
lanterne lungo il viottolo mi avevano quasi incantato ma il giardino era immerso
nella magia: le luci artificiali esistevano solo all'interno della casa aperta e
vivacizzata dal via vai degli amici ospiti; tante candele sparse ovunque
illuminavano i sentierini che portavano su e giù per la proprietà, i colori
dei fiori, i tavoli dei rinfreschi; altre lanterne colorate erano appese ai
frutteti che con la loro luce li trasformavano in manichini enormi e contorti.
Illuminato solo da una candela era anche un leggio, coperto di un trappo di seta
scuro, che reggeva un quaderno dalla copertina rigida e una penna stilografica:
un cartello azzurro lì appeso diceva "lasciate qui i vostri
pensieri". Vi ho letto una bellissima poesia, dei saluti, delle battute in
veneziano, dei ringraziamenti.... Scoprii che in maniera discreta Paolo aveva
situato delle gigantografie che poi ci spiegò essere prese dal suo diario
fotografico egiziano, visto che da due anni in periodo natalizio fuggiva vicino
ad Abu Simbel e grazie alla conoscenza di alcuni responsabili del dipartimento
archeologico egiziano che apprezzavano la sua autentica passione per quei
tesori, riusciva ad entrare in luoghi proibiti al turismo di massa che
nascondevano meravigliose opere. Gli si illuminavano gli occhi a parlarne e così
era facile capire perché in quella notte che stava rendendo magica lui avesse
addosso una maglietta nera raffigurante un cartiglio. La festa iniziò con un
momento particolare: un frate francescano avrebbe benedetto la roccia in cui un
amico pittore di Paolo aveva realizzato una dolcissima figura con gli acquarelli
di San Francesco che parlava ad una colomba bianca. Per Paolo era importante
visto che era il suo Santo, e Padre Silvio lo ringraziò perché quello era un
momento, come disse lui scherzando, difficile vista la moda per i capitelli di
Sant'Antonio e soprattutto di Padre Pio. Padre Silvio è un tenore del coro
Castel di Conegliano, il coro dove il nostro amico Ivan è tenore solista. Paolo
aveva scoperto quel gruppo per lavoro, visto che lo avevano contattato per
curare la grafica del libro sulla storia del coro. Ma da lì era nata una
amicizia particolare e sincera e non mancava la presenza dei canti tradizionali
veneti nelle feste di quella casa. Proprio mentre il coro dedicava alcuni canti
a Francesco, io piano piano scesi fino al leggio e lì lasciai il mio pensiero
per quella fortunata presenza in un posto che mi sembrava uscito dalle favole.
Era stata ideata una piccola pedana al secondo livello del pendio da cui un
poeta agordino (Agordo -BL-) ci narrò divertenti poesie da lui scritte e per me
fu come tornare indietro di dieci anni. Quell'accento mi ricordò i miei amici
della montagna, proprio vicino ad Agordo, con cui trascorsi le mie estati dai 15
ai 20 anni, guardando le stelle proprio in sere come quelle, distesi sui prati
umidi, a cantare e mangiare patate e pannocchie cucinate alla brace, stretta nel
giubbotto d'alta quota. Dopo quel momento di tradizione venimmo invitati a
seguire due ragazzi che erano i custodi delle stelle. Indossavano dei costumi
realizzati con tessuti scuri come la notte, pennellati di tocchi di luce e di
azzurro, maschere agli occhi e un mantello li avvolgeva.
Ci condussero nei pressi di un piccolo palcoscenico di pietra rotondo, situato
nella parte est della proprietà e circondato da meli; panchine e sedie erano
state poste attorno al palcoscenico ma io scelsi di restarmene seduta sul pendio
inferiore da cui godevo di una vista meravigliosa: le colline attorno immerse
nell'oscurità, la luna, le stelle anche se poche, la casa illuminata, le
candele sparse, le lanterne, la capanna di San Francesco realizzata in legno e
paglia sotto la quale era stata posta la roccia dipinta con l'immagine del
Santo. I due custodi delle stelle ci regalarono un balletto dolce e alla fine
gettarono in aria manciate di coriandoli argentei che sembravano regalarci
quelle stelle che mancavano alla festa quella notte. Poi sul palco arrivò una
poltrona di velluto ocra e una lampada veneziana colorata; era per Marco Stefani,
un poeta veneziano che incantò tutti raccontandoci della sua adorata Venezia
che però stava scomparendo piano piano con sua grande tristezza; una Venezia in
cui esistevano ancora persone che amavano l'arte e ne capivano le difficoltà
nel seguirla e praticarla. A lui ,per esempio, non facevano mai pagare i viaggi
in vaporetto e se gli capitava di perdere l'ultima corsa per la sua calle perché
reduce da una festa o da una conferenza, facevano addirittura fermate
straordinarie. E quando lui chiedeva ogni volta perché, si sentiva rispondere
"perché xe un poeta". Le sue poesie mi commossero perché
sinceramente tristi e profonde e sto cercando ancora i suoi scritti. Ma
non mancò una ventata di musica speciale: due ragazzi brasiliani, lui alla
chitarra e lei alla voce ci regalarono alcune canzoni tradizionali del loro
popolo; due pianisti di jazz veneziani molto noti nell'ambiente realizzarono dei
brani al pianoforte a coda, trasportato fino al palcoscenico e illuminato solo
da una piccola abat-jour e lo spettacolo si concluse con le arie di un tenore di
cui purtroppo non ricordo il nome, anch'egli veneziano ma di fama internazionale
che ci incantò con arie dalla Turandot, da Madame Butterfly e da altre opere
famosissime. E mentre ascoltavo tutto ciò io non potei non avvicinarmi al melo
sulla cui chioma era stata posta una stella luminosissima di neon gialla; sotto
di essa era stato posto un tavolino coperto da un telo turchino che reggeva una
boccia di vetro trasparente con dentro piccoli rettangolini azzurri, un vaso
dipinto a mano con scene di notti esotiche e che offriva delle striscioline di
carta azzurra su cui si potevano , come spiegava un cartoncino, scrivere i
propri desideri e i propri sogni. gettarli all'interno della boccia di vetro e
alla fine della serata sarebbero stati bruciati nel falò della buona sorte che
avrebbe permesso di realizzarli. Ma in Veneto non può mancare una festa senza
che questa sia anche occasione di convivio e lì eravamo nella zona della
tradizione dello spiedo che dal primo pomeriggio stava lentamente cucinandosi,
assistito da pazienti cuochi volontari. Vicino alla veranda era stata realizzata
una tettoia di legno con dei tavoli lunghissimi che offrivano olive, formaggio,
pane, spiedo, porchetta e vino direttamente dalle damigiane. E tutta la magia
della festa si fuse nel piacere del palato, del buon bicchiere di vino e
dell'ascolto delle canzoni tradizionali che le voci armoniche del Coro Castel a
lungo ci regalarono in quella notte di San Lorenzo di inizio millennio.
La panchina di Luisa
Se ne sta lì
bella luccicante nel suo nuovo look “verde Inghilterra” spolverata di foglie
dalle gradazioni calde dell’autunno, la panchina di Luisa. Osserva da sempre
la rivetta tranquilla del laghetto delle oche selvatiche, protetta dalle fronde
dell’antico olmo dei giardini pubblici. Sembra un panchina nuova di fabbrica ,
nonostante il suo stile riveli un gusto del passato, grazie all’intervento di
Giuseppe; gli operai del comune non avevano ritenuto meritasse di essere
ripulita e riportata agli antichi splendori, coperta com’era di scritte,
graffi di coltelli e monete e attaccata in più punti dalla aggressività della
ruggine. Eppure quella panchina era posizionata in un luogo particolarmente
bello e rilassante del parco pubblico, anche se dava l’idea della solitudine:
su una piccola altura a cui si giungeva seguendo anche il sentierino di ghiaia
bianca che normalmente veniva percorso anche di corsa da centinaia di giovani
nelle sere primaverili ed estive. Era circondata e protetta da un muro di
cespugli di bosso e solo quell’olmo placido e solitario sembrava stendere le
braccia protettive sul quel punto di riposo. A quella panchina giungevano
affaticati i nonni in passeggiata con i nipotini scatenati nell’ora del mezzo
pomeriggio, costringendoli ad una sosta per riprendere fiato e distraendoli con
piccole storie ed aneddoti proprio su Luisa. La panchina aveva ascoltato le
grida silenziose di molti giovani combattuti nelle incertezze e nelle difficoltà
della vita e dell’amore. Aveva assistito ai gesti affettuosi e amorevoli di
coppie più o meno consolidate, più o meno ufficiali; aveva visto visi rigati
di lacrime per un amore fallito, per un dolore familiare o personale. Aveva
avuto sotto le sue assi protettive anche la compagnia di gatti spauriti, di cani
spaventati dalla pioggia e di passerotti “chiacchieroni” beccheggianti le
briciole sparse dagli occasionali avventori di pasti frugali e tascabili,
nell’ora di pausa dell’ufficio. Quella panchina però aveva avuto
soprattutto la presenza e la dolcezza di Luisa per circa trent’anni, con le
tasche del cappotto color pepe e sale piene di avanzi di pagnotte e di biscotti
sbriciolati. Luisa era una donna minuta e dal portamento elegante: da giovane
aveva avuto lunghi capelli scuri ondulati che portava fermati con due mollette
di metallo colorato ai lati della fronte, uno sguardo dolce e profondo e un
sorriso aperto e generoso. A diciotto anni aveva piegato i pochi vestiti fatti
dalla mamma ed era partita in treno per Genova dove per dieci anni aveva fatto
la cameriera presso la casa di una famiglia della borghesia della città. Aveva
imparato i gesti e il portamento adeguato a chi deve servire le pietanze ai
signori ospiti dei padroni di casa. La signora era particolarmente legata a
quella ragazza riservata e dallo sguardo buono: la portava con sé a fare i giri
dei negozi della città e spesso le regalava qualcosa che esaltava senza fatica
la sua bellezza naturale. A Genova Luisa aveva scoperto l’amore: ogni giorno
usciva di corsa fino al fornaio per comperare le paste fresche per la colazione
del conte. Lui era un giovane garzone dagli occhi chiari e dai gesti gentili; fu
affascinato dalla timidezza e dall’eleganza di quella ragazza in divisa scura
e collettino ricamato ed inamidato. Un giorno ebbe il coraggio di chiederle
quale fosse il suo giorno o la sua serata libera e se lei avesse voluto
accompagnarlo a mangiare un gelato. Quel gelato fu l’inizio di un amore
profondo: non si spezzò mai, neppure di fronte alla morte. Claudio (quello era
il suo nome) fu chiamato alle armi e fu costretto a partire per la campagna
militare di Russia. Loro decisero di sposarsi in fretta quattro giorni prima
della sua partenza, nella cappella di Maria Immacolata. E quei giorni li vissero
totalmente, fondendo le loro anime in un modo che poi neppure il fato avverso
poté separare. Claudio non tornò dalla guerra ma Luisa rimase ben cinquant’
anni aspettando di sentire bussare alla sua porta e di ritrovarsi
improvvisamente quegli occhi quasi trasparenti e sorridenti sprofondare di nuovo
dentro ai suoi. Lasciò Genova dopo dieci anni e tornò al suo paese. Molti
furono i corteggiatori che tentarono di catturare l’affetto di quella donna
elegante e gentile. Ma lei non trovò mai il profumo della pelle del suo Claudio
e quegli occhi in nessuno di loro. Scelse solo il suo lavoro di sarta e un gatto
tigrato a farle compagnia; aveva amiche e bimbi che bussavano alla sua porta per
assaggiare i biscotti al miele fatti in casa. Ma lei andava da sola fino a
quella panchina sotto l’olmo frondoso con le tasche piene di bocconcini per le
anitre selvatiche del parco. E lì osservava con lo sguardo a volte triste a
volte sorridente la gente che passava per quei viottoli ombrosi: giovani
innamorati, abbracciati stretti stretti, coppie di mezza età cariche di
sacchetti della spesa che accorciavano la via del ritorno a casa, giovani mamme
con carrozzine, passeggini o bimbi ribelli ai loro primi passi o spericolati
sulle altalene. Giuseppe era uno studente dell’istituto per geometri che
preferiva consumare il pranzo che la madre gli preparava per i giorni degli
allenamenti di pallacanestro del pomeriggio, seduto all’ombra di una betulla,
in compagnia del suo giornale sportivo o della sua ragazza quando riusciva a
stare con lui in quelle ore di pausa. Quella signora la osservava ogni volta
pieno di curiosità: sempre seduta sola, con la sua borsetta scura e d’inverno
con il suo cappellino di lana blu e il fiore bianco fatto a uncinetto. Chissà
cosa pensava mentre osservava la gente che passava…e sempre a quell’ora. Ma
non aveva il coraggio di avvicinarsi a lei e con qualche scusa banale iniziare a
fare due chiacchiere: sembrava sola ma anche serena e regalava a chi passando la
salutava un sorriso pieno di riconoscenza. A Giuseppe capitò di portare anche
sua moglie a fare una passeggiata diversi anni dopo in quel parco nelle ore del
primo pomeriggio della domenica e la vide ancora lì che distribuiva pezzi di
biscotti e pane sbriciolato alle anitre, con la stessa espressione sul viso solo
un po’ più rugoso…e quella visione gli regalò un soffio di serenità e
gioia di rivederla. Ma un giorno all’edicola dove comprava il solito giornale
sportivo , fu attratto da una epigrafe e da una foto: Luisa…ecco come si
chiamava… Luisa se n’era andata altrettanto dolcemente, come gli aveva
raccontato il giornalaio, addormentandosi due sere prima e non rivedendo però
la luce del giorno dopo. Quell’uomo gli disse che sicuramente ora Luisa era
felice perché poteva raggiungere suo marito, che aveva talmente amato da
scegliere la solitudine per ben cinquant’anni. E magari ora erano in Paradiso,
stretti l’uno a l’altra, cullati da un valzer lento come avevano fatto tanti
anni prima. Giuseppe ritornò quel sabato mattina al parco; con sé aveva un
barattolo di vernice verde scura e carta vetrata. Lavorò anche per tutto il
pomeriggio ma alla fine quella panchina era di nuovo splendente: non c’erano
più messaggi amorosi scritti con pennarelli indelebili, graffiature e sfregi,
ruggine. Dietro a uno degli assi dello schienale, alla fine, Giuseppe scrisse
con un tocco di vernice nera: “ A Luisa”. Sorrise e pensò che lei in quel
momento lo stava guardando con occhi amorevoli per quel regalo, aggrappata al
braccio del suo Claudio…
per sempre.
Patty