La collina



Anno 1980, febbraio, le otto e venti del mattino nel bar dall'altra parte della piazza, di fronte al liceo.  Mattinata fredda, ma asciutta, con un vento che spira dal massiccio matesino e s'intrufola anch'esso nel bar, gira su sé stesso in spire che si possono vedere sul vapore che emanano i the bollenti dei clienti. In un angolo, tra la porta e il bar vero e proprio, me ne sto schiacciato contro un juke box(si scrive così?). Entra lei, la minuta giada del mattino. E' con alcune amiche-compagne di scuola; parlano animatamente dei loro affari. E' ciò che credo, mentre comincio a fissarne il profilo olivastro e asciutto incorniciato da quei suoi capelli neri come un corvo. Bella, mi dico, bella e desiderabile, ma troppo per me. M'appiattisco ancora di più sul cassettone che manda frastuono indecifrabile, poi introduco un'altra moneta. Capo d'Africa, De Gregori. Non l'ascolto, comincio a concentrarmi sulle forme che esplodono da sotto i jeans strettissimi e neri. Snella, flessuosa e nervosa come una gazzella, sempre più bella. Forse lo sguardo affondato nel corpo dà qualche brivido, perché s'accorge di me. Un'occhiata indescrivibile e "che puttanella" comincio a pensare, e il mio desiderio aumenta di pari passo. Viene vicino, la scusa di guardare che dischi hanno inserito di recente, e non mi trattengo: io non voglio andare a scuola, vieni con me. Mi guarda come se fossi una bestia strana, un fenomeno da baraccone, ma ci sta. Certe predisposizioni sono leggibili con gli occhi chiusi, certe sensazioni sono viscerali e primordiali e colpiscono al di sotto della soglia coscienziale. Ti scatenano l'animale, ti distruggono la faccia da bravo ragazzo sgobbone che hai guadagnato con un principio di discopatia. Non mi serve pregarla. Si avvicina alle sue compagne, due parole che non odo, poi ritorna e inserisce una moneta nel cassettone. Le fisso le labbra, piccole e gonfie, bocconcini di carne tesa, ne sento il profumo con la mente. Mi chiede una sigaretta. Poche parole, e siamo su per la collina.  Si parla, si parla lungo la strada, forse del perché non è andata a scuola nemmeno lei, forse d'altro, non ricordo; poi dietro l'uliveto dei monaci, al riparo delle miura diroccate del vecchio convento, là dove il vento non arriva, al caldo sole mattutino che ne rimane; non vuole, almeno dice. Seduti sul tappeto di erbe seccate dai geli del mese precedente, poi sdraiati, comincio lentamente a sbottonarle i jeans.... lentamente, un centimetro per volta per non urtare il suo orgoglio di femmina, ma comincio ad impazzire. Le bacio il ventre, poi centimetro per centimetro scendo dove i profumi si fanno più intensi. Il resto è un ricordo, racchiuso nelle ampolle di un passato che a volte ritorna prepotentemente e s'impone con violenza strappando il mio fluire tempo-spaziale. Quella mattina Nella era rugiada di pianto di sogni, era fluire d'ali d'una vanessa, era fruscii notturni di bosco.. E rimase così, incistata come una malattia nelle carni, come un profumo nella memoria. Quanto la desiderai nei tempi successivi! Nella sposò "uno a posto" solo tre mesi dopo. La vidi l'ultima volta per sentirle soffiare del suo trasferimento a Siena. Venti, venti ne sono trascorsi senza rivederla. Dimenticata, scordata.  Stamane, quasi mezzogiorno, entra in ufficio qualcuno. Sono di spalle, impegnato al pc. Buongiorno, posso? Uno strattone, uno strappo coscienziale, un profumo travolgente, una zaffata di anais anais e resto impietrito. La segretaria: P., c'è qui la nuova collega della 3B, se ne occupa Lei? Già, me ne occupo io, ma... un sorriso, un rossore sul suo viso, forse di più sulle mie gote, la voce tremante. Che resta se non strappi di stracci, che resta se non amori mai avuti? Poco. Come stai, mi ricordo di te. Quanti figli hai. Nessuno, matrimonio finito e bambini mai arrivati. 
Mi blocco. Sarai qui per un mese, poi, forse.. non so, lo spero. 

 

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