Una antologia ragionata sulla Resistenza
A cura di Guglielmo Gaviani
(Liberamente ispirata ad una conferenza tenuta a Galliate nel 50' anniversario della Resistenza dal
Prof. Massimo Bonfantini , docente di Semiologia all'Università di Napoli)
Il tema proposto in questa piccola antologia è la Resistenza.
L'argomento non è dei più facili ed ancora oggi dopo cinquanta anni trascorsi suscita atteggiamenti e passioni contrastanti. Sicuramente anche questo lavoro con il suo taglio nella scelta dei testi e delle tematiche da affrontare farà riemergere vecchie e mai sopite polemiche.
Cercando di sgombrare il campo da equivoci, si parte da una semplice constatazione: malgrado la nostra Repubblica sia fondata sulla Resistenza, quasi subito dopo il termine della guerra, si è cercato da un lato di mitizzare questa ispirazione e dall'altro di denigrarla con simmetrica acriticità e ciò ha portato, in breve tempo, ad equivocare su molte delle ragioni che sono state alla base di questo momento storico ed a smarrire le grandi aspettative di democrazia che in essa erano comunque (in modo caotico ed utopisticamente se si vuole) espresse.
Di fronte a quella che è stata a tutti gli effetti una guerra civile, che ha lacerato una nazione, hanno prevalso le istanze di "pacificazione" (concretamente portate avanti dall'asse De Gasperi - Togliatti) che avevano una forte motivazione nel cercare di chiudere una ferita aperta tra italiani. L'amnistia generalizzata firmata dal Guardasigilli Togliatti all'indomani della guerra (che sanò molti "delitti" partigiani, ma anche atroci malefatte del regime di Mussolini) è un preciso ed inequivocabile segnale di pacificazione nazionale.
La letteratura non ha potuto che vivere delle contraddizioni di cui si è detto, spesso scendendo in campo prendendo un tono "militante" , altre volte con un tono più cronachistico e di costume.
Si sono scelti due "filoni" molto diversi per toni e contenuti: il romanzo d'invenzione e quello di memoria. Immediatamente, leggendo i testi, si noterà uno stacco netto di linguaggi ed anche in parte di modo di condurre lo sviluppo della storia.
Se è vera l'analisi fatta all'inizio, mentre il romanzo d'invenzione ha accentuato fortemente la "mitizzazione" o "ideologizzazione" della Resistenza, il romanzo di memoria ha cercato di presentare la realtà così come era stata vissuta dai protagonisti, spesso con una forte caratterizzazione autobiografica.
Del primo filone si possono ricordare alcuni romanzi "classici" da L'Agnese va a morire di Cesare Pavese, al Diario Partigiano di Beppe Fenoglio (che rappresenta in modo ancora grezzo le tematiche poi sviluppate dallo scrittore nei suoi libri di più ampia eco), oltre naturalmente a Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino e Uomini e no di Elio Vittorini
E' quello che potremmo definire il neorealismo in letteratura con tutti i miti dell'eroe proletario o sottoproletario, della storia come evoluzione "inevitabile" verso la libertà e l'emancipazione, il volontarismo e naturalmente quel modo "militante" di intendere la letteratura di cui si è già detto.
Si sono volontariamente esclusi altri scrittori come Carlo Cassola (Il taglio del bosco, 1954) e Giorgio Bassani (Il giardino dei Finzi Contini, 1962 ) in quanto hanno sviluppato tematiche più esistenziali nelle quali il contesto storico è di puro contorno.
Al secondo filone invece si possono far risalire La svolta e Salto nel buio di Mario Bonfantini, il Voltagabbana di Davide Layolo, Senza tregua di Giovanni Pesce, La ragazza partigiana di Elsa Oliva e Viva Babeuf di Vermicelli.
Più tardi sono venuti altri romanzi e memorie che hanno cercato di dare spiegazioni e ragioni alla società che si andava formando. Tra questi si è scelto La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino e Servabo di Luigi Pintor. Anche questi due libri si possono in qualche modo omologare alla prima o alla seconda categoria prima evidenziate.
La classificazione proposta in premessa può sembrare forzata e certamente presenta degli elementi di semplificazione. Questo brano di Italo Calvino nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno nella riedizione del 1964 apre uno squarcio sul modo di intendere l'impegno di alcuni intellettuali e sulle motivazioni dello scrivere nell'immediato dopoguerra
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi , 1964, (Prefazione)
Già nella scelta del tema (la Resistenza ndr) c'è un'ostentazione di spavalderia quasi provocatoria. Contro chi? Direi che volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d'una Resistenza agiografica ed edulcorata.
Primo fronte: a poco più d'un anno dalla Liberazione già la "rispettabilità ben pensante" era in piena riscossa, e approfittava d'ogni aspetto contingente di quell'epoca - gli sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la difficoltà di stabilire una nuova legalità - per esclamare: "Ecco, noi l'avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d'ideali…"
Fu in questo clima che io scrissi il mio libro con cui volevo rispondere ai benpensanti: "D'accordo, farò come se aveste ragione voi , non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po' storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un'elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!"
La piccola antologia che seguirà cercherà di sottolineare i punti di vista e le contraddizioni tra i modi di intendere la Resistenza.
Come premessa si è voluto inserire un brano sulle origini lontane della Resistenza: c'è già lontana lontana l'eco nella Sicilia di Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo. Ma come si potrà notare gli elementi ci sono tutti: la povertà terribile dopo la Grande guerra, la violenza squadristica alimentata dagli interessi agrari, la forte ideologizzazione e la contraddizione tra militanti ed intellettuali.
Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadorí, 1992, p.90-95
Sciopero " ripetè Miceli. " S'attendono i capi, altra gente per il comizio, il corteo."
Aveva qualche anno più di Pietro eppure sembrava vecchio Cicco Paolo, era di quelli nati malamente e per la vita sembra che la malattia li accompagni. Era gracile, le spalle scivolate e la faccia priva di barba, raggrinzita. Solamente gli occhi aveva accesi. E viva la coscienza. Ragionava su ogni cosa, procedeva per paragoni, per contrasti, andava fino addentro nei problemi, traeva somme chiare, dava giudizi netti. E il suo interesse primo era la storia, la vita pubblica, la condizione al presente della gente, chè per la gente aveva attenzione, per la miseria. S'erano fatti amici al tempo della scuola. Giunto Petro al primo giorno, chiuso, impacciato, parte per natura, parte per la vita nella campagna, avevan preso i carusi a molestarlo, dargli la baia, chiamarlo luponario, chè il male del padre, l'imbestiarsi, il vagare notturno lamentando, era saputo, s'accorse, era come favola in paese. Il Miceli, che pur malmesso aveva influenza sopra tutti, lo affiancò nel banco. E più nessuno diede fastidio a Petro. Anzi, dopo che il professore prese a leggere i suoi scritti nella classe, ebbe rispetto.
" Eh, la penna... Hai il dono della penna!" gli diceva Cicco Paolo.
" E tu della parola."
" Parlo sì, e quel che dico svanisce come il fumo... "
" Sai ragionare."
" Forse... Ma immaginare è meglio..."
" lo mi perdo nell'incanto. Mi pare, sempre d'esser fuori, estraneo, di camminare sopra le mura della Rocca, di precipitare..."
Si parlavano così da giovinetti. Dopo, finita la scuola, dopo che Cicco Paolo si mise nel negozio di suo padre, lì all'angolo fra la strada Ruggero e il piano Duomo - v. Miceli Fu G.ni, un bazar di cose fini, libri, quaderni lapis penne calamari aghi fili bottoni nastri trine collane profumi servizi per caffè... - e Petro cominciò l'insegnamento, continuarono. Parlarono nei meriggi estivi, di deserto, seduti all'ombra davanti alla bottega, nei giorni di tramontana in cui tutti stavano al chiuso tomo alla conca, parlarono di romanzi, di poesia, ma Cicco Paolo parlava maggiormente del paese, del Comune, dei reduci, della carestia, del rincaro dei prezzi, dell'occupazione delle terre nelle Madonie, della maffia, dei banditi, del governo di Roma, delle elezioni... Prestava a Petro giornali che si stampavano a Palermo, a Catania, " La Dittatura proletaria", " Il Riscatto ", " La Riscossa socialista", " Bandiera rossa", " Avanti giovani! "...
Petro non aveva trasporto per quei fogli, quei linguaggi, che tante volte gli riuscivano grevi, oscuri, come oscuro era per lui, e pauroso, il presente, il vicino, tutto quanto nel mondo si svolgeva, guerra e pace, penuria e sciali, soprusi e avvilimenti, privilegi e angherie, scontri fra ceti, assassinii dei re, dei tiranni, rivoluzioni popolari, come quella del Diciassette nella Russia... Conosceva e capiva la Russia narrata da Tolstoj Dostoevskij Cechov Gogol, come la Francia narrata da Victor Hugo e da Balzac, l'Italia da Manzoni e Verga... Questi scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l'immagine più vera più della politica, che a Petro sembrava allontanasse la realtà, come i numeri e le figure della geometria, verso l'astrazione, il generale. Come l'allontanavano gli scrittori privi di verità e rispetto per la vita d'ognuno, per le vicende umane. Gli dava nausea per questo d tanto celebrato Gabriele, il D'Annunzio della vanità, della. menzogna, il poeta delle parole rare e abbaglianti. "Il più grande imbroglione e farabutto d'Italia ha paura della presenza dell'onorevole Misiano a Fiume. Il gran despota, il pederasta alla cocaina vuol far soffocare dai suoi turpi gregari la parola vivificatrice del deputato socialista. Il grande disonesto ha paura, mentre al contrario Msiano, il disertore, pur sapendo di andare incontro alla sicura morte, lo sfida... Ed ecco che il grande dittatore, ruffiano della casta militare, lo addita ai suoi scherani, compagni nel vizio, nelle nefandezze, nel furto e nell'appropriazione indebita, per farlo assassinare... " Così scriveva " La Dittatura proletaria" nell'agosto di quell'anno.
L'infastidivano ugualmente i versi brutti, le parole roboanti del poeta socialista Rapisardi.
Sbucarono nella piazza, come fiumicelli che sfociano nel mare, dalla strada Ruggero, Mandralisca, Santa Caterina, Passafiume, Candelora, contadini sopra mule, asini, popolani di quartieri, di contrade, invasero il centro della piazza. E subito scortati dai compagni, seguiti dai gendarmi, apparvero i capi socialisti. Che salirono in cima alla scalinata, fra mezzo alla massa delle donne.
" Maria Giudice, Sapienza, Camalò, Loncao, Crescimanno... Sono della federazione regionale" spiegò Miceli,
" Vieni, andiamo a sentire dal finestrone del soppalco."
" Nasce in un'alba rugiadosa dell'agosto, s'alza da una terra presso il mare, in vista delle Eolie, si spande col profumo d'un fiore piccolo e bianco, cresce man mano e in o luogo la protesta, culmina nello sciopero generale di quest'oggi.,." esordisce Giudice, la maestrina di Pavia, e accompagna le parole con gesti larghi delle braccia, movimento della testa, con l'oscillare della figura snella, chiusa nella lunga gonna, nel corpetto stretto. " Le donne, le donne! Sono state le donne a cominciare, le raccoglitrici di gelsomino nella piana di Milazzo, ad incrociare le braccia sin dal crepuscolo dell'alba, far passire, cadere a terra il fiore sotto ì raggi del sole furioso, il fiore che dona essenze per il lusso nelle bocce di cristallo, profumi seducenti per le mogli, le mantenute dei padroni... Come un'onda la lotta monta per la costa, sale per i colli, investe i vivai d'aranci e di limoni sul fiume Mazzarrà, le portatrici d'acqua, le addette ai semenzai, urta le raccoglitrici dì nocciole di San Piero Montalbano Ucrìa Castanea, le incartatrici limoni di Capo d'Orlando, le salatrici di sarde di Sant'Agata, le portatrici d'argilla Santo Stefano, infiamma in questo novembre d'umido e dì nebbie le raccoglitrici d'olivo delle falde dei Nèbrodi, delle Madonie... Le donne! Sono vedove dei cinquantamila morti di Sicilia per la guerra, mogli di mutilati, donne solamente che faticano più degli uomini per salari di fame... Oppresse dalle brocche dai corbelli dai sacchi dai pesi enormi che portano in equilibrio sulla testa, piegate ore e ore, la faccia a terra, a cogliere frutti erbe, le mani gonfie per il gelo, ulcerate per il sale. Ma ecco che le olive rischiano d marcire, con danno pei padroni, sulle rame sulla terra, d'esser divorate dalle gazze, per lo sciopero attuale. L'ulivo del nutrimento e della luce era dai greci consacrato a un donna. Per il nutrimento e per la luce di giustizia scioperano dunque le donne trascinando nella lotta tutti i lavoratori..."
" Che brava!" esclamava Cieco Paolo. Petro si diceva come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere incerte nella roba, ma salde neri persona, nel volere, coscienti e attive come le contadine, le giornaliere, fuori di casa, là nella piazza.
Passò a dire la dirigente socialista delle dodici ore di lavoro, delle due o tre lire del salario, della doppia gabbia, della situazione femminile e del meridione, degli scioperi contadini nell'ottobre, dell'occupazione dei feudi a Caronia Novara Brolo Licodìa Eube Aidone Bronte... dei sette morti in luglio di Randazzo uccisi dai gendarmi, degli scontri in Catania coi provocatori nazional-fascisti, della rivolta in maggio di Ragusa, ancora altre vittime, della rivolta precedente di Ribera, dove i contadini sequestrarono l'infido feudatario, il grande di Spagna, il duca di Bivona don Tristano de Toledo y Gutierre della Conca...
E sulla conca rise la piazza.
" Le leggi, i decreti Visocchi e Falcioli, le norme del Micheli, per il continuo inganno borghese, restano lettera morta, fino a che il proletariato non le impone con la propria forza!"
E tutti applaudirono, urlando.
Alla finestra del Distretto là di fronte, i suoi intorno, il sottoprefetto cavaliere Ferraùto sogghignava.
S'aprì pertanto un balcone sul terrazzo prospiciente la piazza, presso la scalinata, apparve il vescovo Sansoni, frate Anselmo Evangelista, con la sua barba bianca, venne avanti, seguito dal Capitolo fino alla balaustra con le graste. Si sporse, alzò le braccia al cielo, parlò con voce forte.
" Figlie di Dio, figli, andate, andate, questo è un luogo sacro!.... Tornate alle vostre case, non fatevi incitare all'odio, contagiare dall'anarchia, dal Bolscevismo, confidate nella giustizia su principi cristiani, confidate nel Santo Salvatore nella Provvidenza...
" Eccellenza!" gli gridò l'avvocato Sapienza. " Le sue prediche vada a farle in chiesa, alle monache, alle badesse... "
In cima alla Rocca che sovrastava il Duomo, dietro donne dalla sparare. Successe un gran marasma, urla aiuto allarmi, il precipitare delle scalinata, la fuga verso le strade, i vicoli d'intorno. Fuggirono il vescovo e i prelati, ripararono dentro il palazzo. Suonarono gravi le campane delle torri.
"Maffiosi, assassini, vigliacchi!" urlava Maria Giudica verso l'alto, mentre i compagni, coprendola la trascinavano via.
Si svuotò la piazza come d'incanto, cadde il silenzio.
Anche Petro e Ciccio Paolo, abbandonata la finestra, s'erano messi al sicuro nella bottega . Da dove scorsero, per la porta, una brigata ch'era sopraggiunta dalla strada Ruggero, di reduci, studenti, con elmi medaglie bandoliere, con nervi e bastoni in mano, capeggiata da Lillo D'Anna, Leo Di Stefano, Spinosa, Cassata, Misuraca, seguita dalle regie guardie, da proprietari popolani, fra cui Calò e Sardone, il servo e il cocchiere del barone Cìcio. Procedeva spavalda in mezzo alla piazza, cantando sventolando il tricolore.
" Sono gli scagnozzi degli agrari, i maffiosi, i nazionalisti di Cucco, di Tàccari, Rizzone... " disse adirato Cicco Paolo. E spalancò la porta, uscì con Petro sulla piazza.
" Così fate politica, coi fucili, con le mazze'?!...." urlò.
Rapido uno lo raggiunse e lo colpì alla testa.
" Muto, rachitico!"
" Vigliacco!" fece Petro chinandosi sull'amico sanguinante. E si prese legnate sulle spalle. Nell'indifferenza delle guardie, nelle risate degli astanti.
Partiamo ora dal tema delle motivazioni di fondo che hanno fatto scegliere l'impegno nella Resistenza o nella Repubblica di Salò: Calvino nella prefazione del 1964 de Il sentiero dei nidi di ragno sostiene che la scelta sembra per molti dovuta al "caso" tesi molto contrastata dai sostenitori della libera e consapevole scelta. Tra questi ultimi si è scelto pe esempio Mario Bonfantini ne' La svolta.
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, 1964, (Prefazione)
Per molti dei miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere per molti le parti tutt'a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall'altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile.
Mario Bonfantini, La svolta, (epigrafe)
Giacché sono persuaso che nella vita d'ogni persona c'è sempre stato quel momento, quell'occasione che avrebbe potuto cambiarne il corso o che lo ha realmente cambiato provocando una svolta in quello che si dice il suo destino.
Qualunque sia stata la motivazione, il partigiano parte, lasciandosi dietro tutta la sua vita: è spesso un giovane renitente alla leva e fuggito alle retate nazi-fasciste dopo il tentativo di ricostituire l'esercito nella Repubblica di Salò. La partenza di uno di loro ne' Appunti partigiani di Beppe Fenoglio sintetizza l'emozione di un giovane che si appresta a vivere la grande avventura e la sincera simpatia del popolo verso questi ragazzi. Quando poi raggiunge il manipolo di altri compagni di lotta, ecco la prima lezione e la prima scelta, definitiva. Come descritto dal successivo brano di Davide Lajolo de' Il "voltagabbana
Beppe Fenoglio, Appunti partigiani 1944-1945, Einaudi, 1994, p.3
- Tòrnaci. Se te la senti, tòrnaci. Ma sappi che ogni volta passeranno con camion e mitraglie e cani per quelle colline dove tu sarai, io mi sentirò morire. Ora vai.
Abbraccio mia madre, non stretta, che non senta col petto la pistola che mi sforma la tasca. Scendo nel prestino, lo traverso. Alla porta il fornaio di Bellonuovo mi mette la mano nella mano e in tasca un cotechino incartato. Gli sono grato che non mi parla di rifletterci bene, pesto i piedi per aggiustarli negli scarponi, e vado. E' già buio e molto freddo. Non c'è luna, ma spunterà? Risalgo la provinciale Alba- Acqui per un duecento metri, taglio in un prato in salita e sono sulla stradina di S. Rocco. Lì stacco il mio bel passo da campagna; paiono viaggiare con me le colline alla mia destra, che guardano la mia piccola città tenuta da loro. Ci vive la ragazza di cui sono, sarò sempre innamorato. Se ora almeno non fossi innamorato, o se piuttosto quella bellissima mi desse speranze. A non voler staccar gli occhi da quelle colline, mi trovo con un piede sul vuoto del fossato. M riporto in metà della strada con uno scossone. Ma l'amore si fa ripensare. Se m'ammazzano, posso sperare che lei senta qualcosa rompersi dentro e venga sú per le colline a cercarmi tra amici e nemici, ululando come una lupa? Mi ritroverà lungo, lunghissimo sopra la neve e mi bacerà tra sangue e gelo. Come cammino forte! Ma sono proprio pazzo di lei se per lei dimentico mia madre. Mia madre a quest'ora s'è congedata con tante grazie dal fornaio che non sa dirle altro che- Signora... signora Rita... - e torna m città per la lunga strada. E in un'ora sarà nella nostra casa in Piazza del Duomo, entrerà a guardare il mio letto che chissà quando lo avrà da rifare, poi chiamerà mio padre per dirgli come me ne sono partito. Dopo cena sentiranno tre volte Radio Londra, e se gli alleati non sono avanzati un pochino, li prenderà la disperazione
Davide Lajolo, Il "voltagabbana", Il Saggiatore, 1963, p.215
Eravamo diciannove. Si sedettero attorno a me a semicerchio come fossero tornati sui banchi di scuola. Parlai senza imbarazzo e con tutta responsabilità: " L'esercito che vogliamo creare non ha nulla a che vedere con quello dal quale siamo scappati. Qui i gradi verranno dati da voi sulla base del comportamento di fronte ai fascisti- lo da stasera non sono più capitano. Abbiamo tutti lo stesso grado."
Nessuno dei diciannove si muoveva: ascoltavano attenti e accigliati.
" Ognuno di noi deve prendere una decisione assai seria.
Siamo in pochi, quasi senza armi, e dovremo resistere ad un nemico ben armato. Non solo sarà in gioco la nostra pelle, ma poiché dovremo fare la guerra tra le nostre case, sarà messa a repentaglio anche quella delle nostre famiglie, prima di prestare giuramento è bene che ognuno di noi rifletta. Dopo aver giurato, ognuno di noi sarà un partigiano, cioè un soldato senza stellette che non ha diritto al congedo fino a che non saremo liberi dai tedeschi e dai fascisti."
Seguì un breve silenzio. Le teste dei diciannove ragazzi rimasero fisse a guardarmi.
Nessuno si consigliò con l'altro.
Stavano fermo, come sanno stare i contadini: come alberi.
Dopo un istante- dissi con voce ben chiara: "Chi di voi vuole essere, da domani,
partigiano?".
Si alzarono di scatto diciannove mani.
" Allora giuriamo.
Si alzarono tutti: giurammo incrociando le mani.
Ci sono partigiani e partigiani. Infatti i "partigiani di pianura" sono ben diversi da quelli "di montagna": i primi debbono provvedere a nascondersi nell'anonimato di vite normali. Sono una via di mezzo tra i "partigiani di montagna" e i GAP (i "commandos" di città). La descrizione di uno di questi partigiani della campagna milanese ci viene fatta da Giovanni Pesce in Senza tregua.
Giovanni Pesce, Senza tregua, Feltrinelli,1967, p. 272 a p 275
Avevo salutato il distaccamento di Lainate, deciso a dare un'occhiata agli uomini di Nerviano e di Mazzo. La notte è splendida e silenziosa. Il cielo nero è freddo come ghiaccio.
Il distaccamento di Mazzo è il più brillante della brigata. Il capo è Grassi, l'uomo più calmo che abbia mai incontrato nella guerra partigiana in pianura. Lavora il suo podere, accudisce al bestiame, si avvolge in un mantello scuro che abbandona solo a primavera fatta. E' stato guastatore e maneggia gli esplosivi con la stessa serenità e sicurezza con la quale dispone il foraggio nelle greppie. Fa la guerra come accudisce al suo lavoro: con serenità, con precisione, con il medesimo impegno che mette nel coltivare il suo fazzoletto di terra.
Quando deve trasportare dell'esplosivo il più possibile vicino al luogo dell'operazione, si " veste della festa, " si copre con il tabarro e se ne va tranquillo con lo zaino pieno di dinamite, per le vie del paese, salutando senza fretta gli amici, con in bocca la pipa decrepita sempre accesa. Durante la mia ispezione ai distaccamenti lo incontro alla riva del Villoresi, lontano dal paese, dall'obiettivo e da ogni occhio indiscreto. In questa zona si respira un'altra aria, un'aria nostra- si può fare uno spuntino all'osteria, con pane, salame e un bicchiere di vino. L'oste è uno dei nostri e il suo locale una base di transito. Lì sono raccolti assieme a Grassi i ragazzi di Mazzo. All'ora stabilita aggireranno il cimitero per avvicinarsi alla linea ferroviaria sorvegliata da sentinelle tedesche e far saltare parecchie decine di metri di binario, interrompendo il traffico con Milano. Faccio ritorno alla mia base, una fabbrica in costruzione dove perverranno via via le notizie sulla grande operazione simultanea in Valle Olona. Transito davanti a una cappellina dedicata a S. Rocco; guardo il dipinto familiare, la mano protesa in un gesto di saluto. Il lucignolo esile schermato da un vetro azzurro è stato acceso come ogni sera e non saprò mai se dalla pietà dei credenti o dalla prudenza dei patrioti che depositano esplosivi e mitragliatrici dietro l'altare. Il lumino spostato a destra e i due vasi ai lati dell'altare mi dicono, in linguaggio convenzionale, che le armi sono state ritirate per essere adoperate sulla strada di Rho, su quella di Lainate e nella zona di Mazzo. Do un'ultima occhiata a S. Rocco e raggiungo lo sgabuzzino sopravvissuto alle demolizioni e ai bombardamenti, il " quartier generale. " Dal cielo mi arriva ronzio familiare di pippo, l'aereo che ogni sera puntualmente scarica bombe sulla strada e su ogni luce. Sono le 23.
In quel momento i miei uomini stanno muovendosi dietro i cespugli, i ragazzi di Lainate controllano gli otturatori delle loro armi, ascoltando le ultime istruzioni. Forse è irragionevole, ma sento che tutto andrà per il meglio, nonostante la zona, l'inesperienza dei giovani e la complessità di una mobilitazione in grande stile. Per ottenere le armi dal Conte, dopo il colloquio in casa delle sorelle Crespi, ho dovuto partecipare alla distribuzione di vin brulé ai convenuti davanti all'osteria, una specie di rancio militare.
Ricordo rabbrividendo il viaggio in automobile verso Lecco, l'arrivo alla villa per ritirare il baule dal guardiano, la penosa trafila delle presentazioni sussurrate- la sentinella tedesca di guardia, l'andirivieni sospetto dell'incaricato, il nostro " deprofundis " con le mani sul calcio della rivoltella e infine la sorpresa del baule carico di armi trafugate sotto il naso dei tedeschi.
E' gioco d'azzardo, melodramma. Che cosa sapevamo di quell'uomo di mondo, intabarrato in stile ottocentesco? Che era in contatto con gli angloamericani? Che ospitava ufficiali americani lanciati col paracadute? Voci. Se sono ancora libero, se i miei partigiani possono combattere contro il nemico, lo devo alla buona fortuna, alla severa preparazione, al rispetto scrupoloso delle norme clandestine e, soprattutto, al silenzio di questi paesi legati alle tradizioni, popolati da gente chiusa in se stessa, come fortezze impenetrabili. Nemmeno il saluto barattano con i forestieri. Tacciono volentieri, sia che sappiano, sia che ignorino. Per superare la barriera della loro diffidenza, bisogna stare dalla parte giusta della barricata, rispettare il loro orgoglio, per feroce fedeltà al passato, la fedeltà alla profonda vocazione contadina. Non c'è da dubitare di quella gente. Del resto, ormai, manca solo qualche secondo alla mezzanotte. La " base" sede del mio comando, è provvista d'uno sgabello, una branda, il mitra, esplosivo e caricatori. Resto al buio, in attesa.
A quell'ora, con il coprifuoco, o sono i nostri o una motocicletta delle brigate nere: distinguo alcuni passi, sento qualche sasso smosso, a poca distanza dal mio ricovero, osservo da una fessura, tenendo imbracciato il mitra. Ci sono due uomini, ad una decina di metri di distanza. Il primo fa il segnale convenzionale: butta un sasso contro la porta e ripete subito dopo il gesto. Sono i miei ragazzi. Apro la porta. Appena il tempo di richiudere e il primo che è entrato, ansimando mi dice: " Tutto bene, tutti i fili della Wehrmacht sono tagliati a Rho e i ragazzi sono filati al sicuro prima che i tedeschi ed i fascisti potessero intervenire."
La prima staffetta porta buone notizie, da celebrare subito. Un comando partigiano può essere sfornito di tutto, ma non d'una sorsata di grappa. Un'eco di raffiche di mitra ci raggiunge da lontano. Usciamo dal ricovero, si scorgono fiammelle insistenti , che fanno udire un crepitio assordante in direzione della strada provinciale. I riflettori dell'autoparco frugano nel buio. Colpi sordi e fiammate violente di " Panzer-faust, " fucilate isolate. I nostri si stanno allontanando e i tedeschi non riescono ad ostacolare la ritirata. Nella zona di Mazzo, un bagliore di un blu fosforescente dà un nuovo colore alla notte. La prima esplosione si confonde con la successiva. Dal distaccamento tedesco la guarnigione spara all'impazzata, con tutte le armi disponibili: mortai, anticarro, mitragliatrici.
Gruppi di automezzi tedeschi attaccati sulle strade, linee telefoniche interrotte a Rho, binari divelti sulla Milano - Torino. Questo il bilancio immediato dell'attacco simultaneo.
Ora comincia un'altra fase, altrettanto dura.
Le decisioni del comando tedesco non si fanno attendere: coprifuoco, rastrellamenti, tetri manifesti della Plazkommandatur, vari gruppi di sentinelle lungo la ferrovia. Il nemico sguinzaglia i suoi informatori ' fa sfilare colonne di carri armati e camion carichi di soldati per seminare il terrore nei centri della Valle Olona, tentando di interrompere ogni contatto fra partigiani e popolazione.
Ora, ognuno dei miei uomini e dei miei ragazzi deve trovare in se stesso la forza d'animo per resistere da solo alle pressioni, la prontezza di spirito per rispondere alle domande: "dove sei stato tu stanotte? Come mai sei tornato a casa tutto sporco di sangue? Perché hai dormito in casa di un amico? Ora che il nemico passa alla controffensiva, è il momento di tenere ben salde le file di un'organizzazione di combattimento che ha già fatto ottima prova ma che deve superare quella più ardua.
Altro tema fortemente ideologico è quello che contrappone da un lato la società gerarchica e dall'altro l'aspirazione ad una democrazia diretta. Davide Layolo ci presenta in questo brano de' Il voltagabbana " quali fossero le idee di libertà che circolavano in ambiente partigiano
Davide Lajolo, "Il voltagabbana" Saggiatore, Milano, 1963 (p. 257-258 ed. Oscar Mondadori)
Nell'autunno inoltrato del millenovecentoquarantaquattro le nostre brigate erano cresciute di numero ed erano state trasformate in divisioni. Né fascisti né tedeschi, dopo la battaglia di Bruno, si erano più avventurati nella zona. Le due grandi strade di comunicazione erano controllate dai nostri posti di blocco.
Avevano liberato da due mesi tutti i paesi compresi tra Asti e Alessandria. Sulle zone di confine nei pressi delle due città, avevamo dislocato i nostri reparti d'avanguardia, adattato le linee di arroccamento, collegato telefonicamente un reparto all'altro e ridistribuito l'armamento, specie le mitragliatrici. Quaranta paesi erano ormai al sicuro dalle puntate e dalle rappresaglie nazifasciste.
Avevamo tagliato tutte le strade d'accesso per quattordici metri di lunghezza e tre profondità, impedendo così ogni sorpresa che il nemico potesse tentare con l'attacco di carri armati o di truppe autocarrate.
Contemporaneamente avevamo restituito alle popolazioni la loro autorità in tutte le operazioni che interessavano la loro vita economica, amministrativa e politica.
All'azione, per abituare i cittadini ad attuare una democrazia diretta, avevano collaborato tutti gli esponenti dei partiti antifascisti, già uniti nei Comitati di Liberazione Nazionale.
Molti dei parroci di quei paesi, non solo furono solidali con i partigiani e con i partiti, ma collaborarono attivamente.
Era stata nominata una Giunta di Governo che esercitava i poteri civili su tutta la zona liberata. Formavano la Giunta: il Partito d'Azione, il Partito Comunista, il Partito Democristiano, il Partito Liberale, il Partito Socialista.
Mi appassionavo all'azione politica più che a quella militare. Nel rafforzare i vincoli tra partigiani e popolazioni, avevo la sensazione che questo era lo sbocco democratico della nostra guerra.
Non volevamo infatti cacciare lo straniero o debellare il fascismo soltanto, ma creare nuovi rapporti sociali, politici, di costume, regolare la vita di tutti in armonia con la libertà.
Fare il partigiano significava avere una morale e non in termini strettamente religiosi, ma semplicemente civili, come è esemplificato nel brano di Beppe Fenoglio Appunti partigiani che descrive in una sequenza molto "cinematografica” la fucilazione dei partigiani Blister e Jack, rapinatori di contadini, condannati dagli stessi compagni e poi nel confronto tra partigiani sulla violenza alle donne in Viva Babeuf di Vermicelli.
Beppe Fenoglio, Appunti partigiani, Einaudi, 1994, p.56
Set ha premuto, ma l'arma s'inceppa, cik. Set si sbianca, grida o Cosmo che è la prima volta; che il suo mitra lo tradisce, e che non gli dia il cambio che lui lo ripara súbito. Blister s'è messo a ridere, ride fortissimo e Set lo fa morire che Blister che ride e noi Blister ce lo ricorderemo sempre così. Poi c'è Jack che corre perché qualcuno gli ha dato uno spintone e Set lo spara in corsa, perché è certo che Jack stramazzava come si fermava, e non è bello fucilare un uomo insaccato in terra, non è far giustizia.
Gino Vermicelli, Víva Babeuf, 1984
Toni gli si avvicinò e gli disse, in dialetto e molto piano: "Credo proprio che ci convenga andar via". Simon conosceva il suo tipo e recepì subito il messaggio. "Questo ci sta dicendo che è meglio che ci fermiamo, cosa succede". Sapeva che sarebbe stato inutile chiederlo a Toni, non gli avrebbe strappato una parola di più. Tornò quindi da Jim.
" Spiegami un dettaglio Jim, cosa ne farete della ragazza?"
" Beh, la dovremo portar su anche lei altrimenti i fascisti capirebbero che era d'accordo"
" Giusto, ma lei lo sa?"
" No, eh eh, dev'essere un po' oca"
" Va bene, portate su anche lei, e poi?"
" Poi i ragazzi vogliono darle una bella rapata"
" Già andava coi fascisti, è una consuetudine". E Simon aggiunge:" E' una consuetudine fascista"
Jim si sentiva a disaglio, non capiva se l'altro scherzava o foesse irritato. Vi fu una pausa, un silenzio imbarazzante, poi Simon continuò: "Dunque voi volete rapare una ragazza che vi consegna un fascista, perché è andata con quello…"
" Ma non solo con quello…"
" A capisco, poi quando l'avrete rapata, che cosa ne farete?"
Jim si sentiva preso dall'angoscia, il volto di Simon era come una maschera, non lasciava trapelare
nessun sentimento. Doveva comunque rispondere.
" E poi, poi ce la sollazziamo un po', non siamo mica peggio dei fascisti "
" Peggio no, e poi. - ."
" E poi basta, cos'altro?"
"Poi la dovete uccidere..." Simon parlava con voce calma, quasi distaccata: " La dovrete ammazzare…, dopo aver subito la rapata ed i vostri sollazzi obbligatori, quella prima o poi scappa e va a raccontare tutto ai fascisti a quelli di Piédimulera e a quelli della Masone, dirà dove siete, quanti siete, come vi chiamate, dove stanno le vostre famiglie, dirà tutto quello che sa per aiutare i fascisti a colpirvi. Non faresti così anche tu al suo posto?"
Jim adesso aveva paura: la storia prendeva una storia che gli piaceva. Ma gli argomenti di Sirnon non erano confutabili. Cercò di darsi un atteggiamento sicuro e a lui: "E si la dovremo uccidere".
Simon alzò lo sguardo, lo piantò negli occhi di Jim e disse: "Jim sei un cretino".
Jim si sentiva trafitto. Sempre sotto voce ed apparentemente con calma Simon disse ancora: "Dunque, una
donna vi consegna un sott'ufficiale nemico, vi dà la possibilità di catturarlo senza rischi, voi prendete quella donna, la rapate, ve la sollazzate senza chiederle se gradisce il trattamento e poi l'ammazzate". Ha acceso una sigaretta, ne aspirò alcune boccate senza guardare Jim, poi continuò ora guardandolo in faccia: "Se nella tua testa passano delle idee del genere, perché sei venuto con noi, il tuo posto è con quelli" e con la mano indicava la Masone.
(Jim, dopo questo episodio, è degradato e non assume la carica di Commissario politico a cui aspirava).
L'azione partigiana è rievocata da Elsa Oliva in questo brano de' La ragazza partigiana. E' un esempio di militanza partigiana diretta, con le armi in pugno, che sottolinea un ruolo assunto da alcune donne non solo quali supporto ai combattenti (le così dette “staffette”).
Elsa Oliva, La ragazza partigiana, Nuova Italia, 1977 (l'ultimo episodio partigiano a Gignese)
Con fatica mi rialzo e sento che non ce la faccio più. Ho la borsa delle munizioni e dei caricatori vuoti. Mi rimangono pochi colpi nel caricatore innestato. Penso che devo raggiungere il paese prima del nemico. NE arrampico con fatica su un piccolo promontorio e incontro lì due giovanissimi partigiani garibaldini, sono anche loro smarriti non sanno più da che parte andare. Dico che tenterò di arrivare al paese e venire anche loro con me che dietro alle mie spalle i tedeschi avanzano. Penso che accettino la mia proposta, ma fatti pochi passi, mi volto e li vedo scomparire dietro al cocuzzolo. Grido loro di tornare indietro, ma è inutile. Vanno ciecamente incontro alla morte. In quel mentre raffiche violente vengono sparate proprio nella direzione presa da loro. Mi butto a terra senza forza ne coraggio. Il cuore mi dice che quelle raffiche hanno colpito proprio loro. A svegliarmi dalla momentanea apatia sono voci tedesche poco lontano. Qualcuno sta dando ordini. Mi guardo intorno senza scorgere nessuno, passo dietro un cespuglio e dietro un altro ancora. Risento le voci sempre lì intorno, attraverso correndo quanto posso un piccolo spazio per portarnú nuovamente verso il vigneto. Mi fermo dietro un albero devo attraversare uno spazio scoperto per raggiungere il punto prefisso. Da lì salterò di gradinata in gradinata e raggiungerò le prime case. Mi guardo intorno: il fuoco nemico si e un po' allentato. Sto per prendere la corsa quando vedo alzarsi un tedesco da un cespuglio vicino e mi prende di mira con il suo Tac-bum. Sono più svelta di lui a far partire i pochi colpi che mi rimangono e lo colpisco in pieno viso. Con un gemito si accascia dietro il verde da dove era spuntato. In un baleno raggiungo il vigneto e di salto in salto i primi caseggiati del paese.
Ben diversa è l'azione partigiana nelle città dove si configura come un'azione promossa da piccoli nuclei armati clandestini molto mobili che colpiscono con attentati ed azioni dimostrative proprio là dove i nazi-fasciti si sentono più al sicuro. Questa è la descrizione di un attentato ad un giudice effettuato dai GAP (Gruppi Armati Partigiani) a Milano.
Elio Vittorini, Uomini e no, Bompiani,1945 ( L'attentato, p. 20-23 Ed Mondadori)
Una signora che comprava il giornale gli si avvicinò.
" Che faccia scura! " gli disse.
" Si? " Enne 2 rispose.
Essa apri la borsetta, ed egli ne ritirò una rivoltella che fece sparire nella tasca del soprabito.
" In gamba," egli disse.
" In gamba," gli disse lei.
XIV.
Tre uomini in tuta grigia, con borsa da lattoniere a tracolla, lo aspettavano poco più in là, le biciclette contro il marciapiede, dietro un grande palazzo.
"Ehi!" egli salutò.
I tre erano giovani e lieti: con occhi che ridevano.
" Allora?"
" Ve l'ho mostrato ieri. Escono a mezzogiorno."
" Mancano tre minuti."
" Voi passate con le biciclette, lasciate che salgano sulla macchina."
" E appena saliti diamo dentro? "
" Appena la macchina si mette in moto."
" No appena saliti ?" .
" Appena la macchina si mette in moto."
" Ma tu ? "
" Ve l'ho detto. Resto dietro."
I tre ragazzi si guardarono.
" Mica è indispensabile."
" Andiamo, " disse Enne 2. " E' mezzogiorno."
I tre montarono in bicicletta.
" In gamba."
" In gamba."
Si allontanarono, e l'uomo Enne 2, portando per mano la bicicletta, passò davanti alla facciata del palazzo, tra una nera macchina ferma e una breve gradinata in cima alla quali, montava la guardia un biondo ragazzo delle S.S., in uniforme anch'essa bionda. Il sole dell'inverno splendeva sulla canna nera del mitragliatore, e d'un tratto egli fece un brusco movimento, quattro uomini uscirono, con lunghi cappotti militari, al sole. Enne 2 vide un momento le loro facce, tre tedesche, una italiana dalle sopracciglia grigie, e passò oltre, andò fino all'angolo senza mai voltarsi.
XV.
I tre ragazzi in bicicletta lo incrociarono.
Parlavano tra loro, pedalando piano, e non lo guardarono, avevano capelli bruni che luccicarono al sole dell'inverno, come pelo bruno di animali. Enne 2 si voltò, allora, nell'atto di disporsi a salire in bicicletta. Vide sulla gradinata il ragazzo biondo rimasto impietrito nel suo brusco movimento, vide la macchina con lo sportello aperto, e qualcuno vestito di nero che teneva lo sportello, vide i quattro dai lunghi cappotti ch'erano già al piede della gradinata.
I tre dalle facce tedesche si salutavano, quello dalla faccia italiana, un po' più avanti, teneva chino il capo, ed ecco ch'egli ebbe una risoluzione improvvisa, entrò a prendere posto nella macchina.
Ma i tre ragazzi in bicicletta erano già all'altezza della macchina e ancora i tedeschi si salutavano. Enne 2 vide i tre ragazzi continuare il loro cammino.
" Bene," disse. " Meglio."
Due dei tedeschi entrarono in macchina, l'uomo nero chiuse lo sportello, salì a sua volta, e il tedesco rimasto a terra ancora salutava, ancora s'inchinava. Enne 2 guardò il ragazzo biondo sull'alto della gradinata, e l'ufficiale che salutava al piede di essa.
Partì la macchina.
I tre ragazzi in bicicletta si scansarono davanti ad essa, tutti e tre dalla stessa parte, e allora Enne 2 vide le loro braccia levate in aria, udì in tre tempi lo scoppio. " Ci siamo, " disse. E salì in bicicletta, ed estrasse la rivoltella.
In alto il ragazzo biondo mirava con la sua arma nera i tre che scappavano sulle biciclette, e al piede della gradinata l'ufficiale che fino a quel momento aveva salutato toglieva la sicura alla sua rivoltella. Egli gridava in tedesco.
" Che vuoi tu>" disse Enne 2. " Che vuoi anche tu?"
Si trovò a far fuoco, due volte, e il ragazzo biondo cadde ripiegato sulla sua arma, l'ufficiale si voltò e sparò contro di lui.
Era come se fosse ingrandito. Ingrandiva, e vide al di là la nera macchina che fumava, in nera rovina attraverso la strada.
XVI.
Presto fu dietro al palazzo.
Entrò in piccole strade dove la gente scappava, le facce bianche, e corse con altri che pure correvano in bicicletta. Si chiudevano i portoni, venivano abbassate le saracinesche delle botteghe, le facce erano bianche, ed egli domandò che cosa accadesse.
" Cane Nero! Cane Nero! " gli risposero.
" Cane Nero? " egli domandò.
" Viene Cane Nero! " gli risposero.
Davanti a una latteria c'era una coda per il latte. Il lattaio voleva chiudere, le donne volevano prima il loro latte.
" Ma viene Cane Nero! " il lattaio gridò.
Le donne maledissero Cane Nero.
" Ma che cosa è accaduto? " domandò Enne2.
Egli aveva visto la persona che cercava. Era ferma tra la latteria e un negozio di parrucchiere, dietro la gente che correva, ed era la stessa- delle dodici meno un quarto. " Sembra che abbiano fatto saltare il Comando tedesco," essa gli rispose.
Era intrepida e sorrideva.
" Perdio! " pensò Enne 2 guardandola. E non trovò altro che potesse dire. " Perdio!
rispose alla sua risposta.
La signora aprì, tra la gente, la sua borsetta, ne prese fuori un fazzoletto e si soffiò il naso.
" Molti morti? " Enne2 domandò.
La signora guardò nella borsetta, vide che c'era di nuovo la rivoltella.
" Sembra di sì, " rispose " Venti o trenta." gridava: " Hanno fatto fuori un generale!".
Un garzone di droghiere la urtò passando. Passò e
La signora aveva richiuso la borsetta, e trattenne il garzone per il braccio.
" Che cosa hanno fatto? "
" Hanno fatto fuori il capo del Tribunale."
L'idealizzazione della lotta porta a considerare non più uomini gli avversari politici (fascisti e nazisti). E' significativo in questo contesto il titolo dell'opera di Elio Vittorini Uomini e no da cui è tratto questo brano. Chi ha negato così duramente l'umanità (allora poco si sapeva ancora dell'olocausto degli ebrei e delle altre minoranze etniche!) non può essere considerato che una bestia.
Elio Vittorini Uomini e no, Bonpiani, 1945
LXIII.
I morti al largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n'erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria- sette erano nella piazza delleCinque Giornate, ai piedi del monumento.
Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le anni.
Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C'era anche una bambina, c'erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto, e il corso di Porta Vittoria fino a Piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno di saper altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa. Come? Anche quei due ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni cosa? per questo appunto, sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva di niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava.
C'era tra la gente, il Gracco. C'erano Orazio e Metastasio; Scipione; Mambrino. Ognuno era per suo conto, come ogni uomo ch'era nella folla. C'era Barca Tartaro. Passò, un momento, anche El Paso. C'era Figlio-di-Dio. E c'era Enne 2. Essi, naturalmente, comprendevano ogni cosa; anche il perché delle donne, della bambina, del vecchio, dei due ragazzi; ma ogni uomo ch'era nella folla sembrava comprendere come ognuno di loro: ogni cosa.
Perché? Il Gracco diceva.
Una delle due donne era avvolta nel tappeto di un tavolo. L'altra, sotto il monumento, sembrava che fosse cresciuta, dopo morta, dentro il suo vestito a pallini: se lo era aperto lungo il ventre e le cosce, dal seno alle ginocchia; e ora lasciava vedere il reggicalze rosa, .sporco di vecchio sudore, con una delle giarrettiere che pendeva attraverso la coscia dove avrebbe dovuto avere le mutandine.
Perché quella donna nel tappeto? Perché quell'altra
E perché la bambina? Il vecchio? I due ragazzi?
Il vecchio era ignudo, senz'altro che la lunga barba bianca a capire qualcosa di lui, il colano del petto; stava al centro dei sette allineati ai piedi del monumento, non segnato da proiettili, ma livido nel corpo ignudo, e le grandi dita dei piedi nere, le nocche alle mani nere, le ginocchia nere, come se lo avessero colpito, così nudo, con armi avvelenate di freddo.
I due ragazzi, sul marciapiede all'ombra di largo Augusto, erano invece sotto una coperta. Una in due, e stavano insieme, nudi i piedi fuori della coperta, e in faccia serii, non come morti bambini, con paura, con tristezza, ma serii da grandi, come i morti grandi vicino ai quali si trovavano.
E perché, loro?
Il Gracco vide, dove lui era, Orazio e Metastasio. Con chi aveva parlato, nella vigilia dell'automobile, di loro due?
Con l'uno o l'altro, egli aveva parlato tutta la sera, sempre conversava con chi si incontrava, e ora lo stesso parlava, conversava, come tra un uomo e un uomo si fa, o come un uomo fa da solo, di cose che sappiamo e a cui pur cerchiamo una risposta nuova, una risposta strana, una svolta di parole che cambi di corso, in un modo o in un altro, della nostra consapevolezza.
Lì guardò, dal lato suo dell'angolo che passava attraverso i morti, e una piccola ruga venne, rivolta a loro insieme allo sguardo, in mezzo alle labbra di quella sua faccia dalle tempie bianche.
Orazio e Metastasio gli risposero quasi nello stesso modo. Come se lui avesse chiesto: E perché loro? Mossero nello stesso modo la faccia, e gli rimandarono la domanda:, E perché loro?
LMV
Ma c'era anche la bambina.
Più giù, tra i quattro del corso, dagli undici o dodici anni che aveva mostrava anche lei la faccia adulta, non di morta bambina, come se nel breve tempo che l'avevano presa e messa al muro avesse di colpo fatta la strada che la separava dall'essere adulta. La sua testa era girata verso l'uomo morto e al suo fianco, quasi recisa nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi capelli stavano nel sangue raggrumati, la sua faccia guardava seria la seria faccia dell'uomo che pendeva un poco dalla parte di lei.
Perché lei anche.
Gracco vide passare un altro degli uomini che aveva conosciuto la sera prima, il piccolo Figlio-di-Dio fece per avvicinarglisi.
Ma poi restò dov'era. Perché lei? il Gracco chiedeva. E Figlio-di-Dio rispose nello stesso modo, guardandolo. Gli rimandò lui pure la domanda: Perché lei.?
Perché la bambina esclamò. Come perché? Perché sì! Tu lo sai e tutti lo sapete. Tutti lo sappiamo. E tu lo domandi? Essa parlò con l'uomo morto che gli era accanto. Lo domandano, gli disse. Non lo sanno?
Si, si, l'uomo rispose. lo so. Noi lo sappiamo. Ed essi no? la bambina disse. Essi pure lo sanno. Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, e i morti glielo dicevano. Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un'altra donna: questo era il modo migliore di colpir l'uomo ' Colpirlo dove l'uomo era più debole, dove aveva l'infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il suo cuore scoperto: dov'era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all'uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura.
Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura.
Due sono i terni trattati in questa ultima parte: da un lato le motivazioni di una scelta di parte in Servabo di Luigi Pintor e dall'altra quella che potremmo definire la "stanchezza” della democrazia così come è profeticamente prefigurata ne' La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino.
Luigi Pintor, Servabo, Bollati Boringhieri, 1991, p.47-49
Era esplosa l'ultima bomba, mirabile invenzione del secolo, e in quel rogo infernale la guerra era finita. Era tempo di far festa, di risarcirci delle privazioni, di riprendere le proprie occupazioni, di tornare alla normalità. E tutti lo facevano con la frenesia che accompagna le novità della pace, quando la guerra è solo una parentesi da chiudere precipitosamente, schiacciandone i fantasmi. Ma io non avevo più abitudini e non sapevo a quali Occupazioni tornare.
Normalità voleva dire dare esami di storia e filosofia, fare esercizi meccanici sul pianoforte, partecipare a comizi con inni e bandiere, amoreggiare nei giardini rinverditi e ritrovare il buon umore. Voleva dire riconoscere che il mondo girava come prima, che non era successo nulla di irreparabile, che la vita riaffermava i nostri diritti.
Ma l'aria del dopoguerra non aveva per me questa leggerezza, non la respiravo con questa disinvoltura e neanche desideravo farlo. Provavo un senso di estraneità, di isolamento e di sospetto, la quotidianità non aveva il sapore di prima. Quegli esami, quegli esercizi, quei comizi somigliavano troppo a un comodo diversivo. C'era troppa sproporzione, era morta troppa gente, quella normalità somigliava a una diserzione.
Non ero neanche sicuro che la guerra fosse finita. Sembrava piuttosto una tregua carica di minacce, come se gli uomini non avessero imparato nulla e quel lascito di cadaveri e di macerie non h avessero convertiti alla saggezza ma addestrati a una futura ecatombe. I vincitori somigliavano stranamente ai vinti, si scambiavano le parti, erano di nuovo nemici gli uni agli altri, come se la guerra fosse stata svuotata delle promesse che l'avevano nobilitata e confessasse ora la sua vera natura, fredda regola di una storia sempre uguale.
Era stupito che la normalità riproducesse così velocemente, con le stesse abitudini, anche gli stessi vizi. Ora non c'erano tante divise tutti indossavano abiti indistinti ma la diversità dei destini, quella divisione in due tra superiori e inferiori che si vede così bene nella guerra, riappariva identica sotto le forme della civile convivenza. Chi tornava a comandare nelle nuove istituzioni aveva gli stessi connotati dei predecessori, chi tornava a ubbidire nella vita quotidiana conosceva le stesse umiliazioni, i più forti e i più deboli tornavano a recitare la stessa parte senza varianti.
Strana e subitanea metamorfosi, la gente non aveva più nello sguardo quella domanda e quell'offerta di solidarietà che trasmetteva tacitamente nei giorni della sofferenza. Ora un desiderio di rivalsa animava ciascuno contro l'altro, ciascuno alla ricerca della sua parte di bottino, nella grande fiera che imparerò a chiamare capitalistica, dove miserie e abbondanza e ogni genere di mercanzia sono in perenne compravendita. E anche le nuove passioni della politica, i discorsi accalorati, la suggestione dei capi e dei simboli avevano un debole suono a paragone dei fragori di guerra ch'erano ancora nell'aria.
Su questo sfondo anche le cose più semplici, quelle più private e intime, mi apparivano sbiadite e gracili, disperse e inafferrabili. La casa, i libri, gli oggetti, le conversazioni domestiche, le storie e i ricordi facevano parte di un ordine decaduto che non ammetteva restauri ma pretendeva di essere, chissà come, completamente reinventato.
Così, avendo vent'anni, ragionavo dentro di me senza sapere che cosa fare. Pensavo troppo spesso a quel paese del sud e quando mi capitava di incontrare il vecchio compagno di cella tornato al suo mestiere di muratore provavo un vago senso di colpa.
Sentivo che la mobilitazione proclamata nei giorni di ferro e fuoco non poteva finire nella banalità e cercavo un compito da assegnarmi. E così convinsi a prender partito, non per grandi imprese che nessuno più si proponeva, ma per stare in compagnia della gente meno fortunata e sostenerne le buone ragioni.
Italo Calvino, La giornata d'uno scrutatore, Einaudi,1963, p. 21-22
In quegli anni la generazione d'Amerigo (o meglio quella parte della sua generazione che aveva vissuto in un certo modo gli anni dopo il '40) aveva scoperto le risorse d'un atteggiamento finora sconosciuto: la nostalgia. Così, nella memoria, egli prese a contrapporre allo scenario che aveva davanti agli occhi il clima che c'era stato in Italia dopo la liberazione, per un paio d'anni di cui ora gli pareva che il ricordo più vivo fosse la partecipazione di tutti alle cose e agli atti della politica, ai problemi di quel momento, gravi ed elementari (erano pensieri d'adesso: allora aveva vissuto quei tempi come clima naturale, come facevano tutti, godendoselo - dopo tutto quel che c'era stato -, arrabbiandosi contro ciò che non andava, senza pensare che potesse mai essere idealizzato); ricordava l'aspetto della gente d'allora, che pareva tutta quasi povera, e interessata alle questioni universali più che alle private; ricordava le sedi improvvisate dei partiti, piene di fumo, di riunione di ciclostili, di persone incappottate che facevano a gara nello slancio volontario (e questo era tutto vero, ma soltanto adesso, a distanza di anni, egli poteva cominciare a vederlo, a farsene un'immagine, un mito); pensò che solo quella democrazia appena nata poteva meritare il nome di democrazia; era quello il valore che invano poco fa egli andava cercando nella modestia delle cose e non trovava; perché quell'epoca era ormai finita, e piano piano a invadere il campo era tornata l'ombra grigia dello Stato burocratico, uguale prima durante e dopo il fascismo, la vecchia separazione tra amministratori e amministrati. La votazione che adesso cominciava avrebbe (Amerigo ne era, aimé, sicuro) ingrandito ancora quest'ombra, questa separazione, allontanando ancora quei ricordi, facendoli diventare, da corposi e aspri che erano, sempre più eterei e idealizzati.
G.G. 28/11/96 (rivisitata 31/01/98)