IL VIAGGIO DI FRANCESCO DE SANCTIS IN OCCASIONE DEL COLERA

Nel mese di ottobre 1836 scoppia a Napoli il colera “questo ignoto e sinistro morbo, dopo di aver spaventato mezza Europa”. L’epidemia ha fasi alterne: dopo alcuni mesi pare ammansito, si attenua nel mese di dicembre e cessa a marzo dell’anno successivo. Ad aprile riprende con più virulenza facendo registrare il culmine in estate. Infatti, il 29 giugno, nella ricorrenza della festività dei Santi Pietro e Paolo, si contano quattrocentosedici vittime e il 2 luglio se ne registrano venti in più. Il flagello cessa definitivamente a settembre 1837 con ventiduemila persone in meno. 

Si raccontano molti casi di colera fulminante, con le circostanze più strazianti. Si parla di famiglie intere spente, di migliaia di morti ogni giorno, e si descrivono i casi di contagio con i minimi particolari. Il popolo, povero e sporco, fa spavento. Nessuno osa accostarsi al vicino. L'uno fugge l'altro. La vita pubblica è sospesa; le scuole, le botteghe sono deserte.

Si fanno processioni, si espongono Santi e Madonne, s’invocano le intercessioni dei santi, si prega e si fanno penitenze [1].

Anche a me giungeva un vocìo del colera” scrive De Sanctis nella Giovinezza, ”in casa e fuori casa non si parlava che di questo[2].

Intanto lettere mi venivano da babbo, da mamma e da zio atterriti dalle voci del colera, che giungevano in paese, e mi chiamavano, e me ripugnante sgridavano e incalzavano. Io non voleva e per una cotal sciocca braveria, e perché non voleva lasciare a mezzo le mie lezioni, parendomi fare quasi atto di disertore [3].

Alla fine cede ai richiami della madre e decide di partire.

Un'ora più tardi ero già in via a Porta Capuana. Mi avevo comprato una bottiglia di rum, come salvaguardia contro il mostro, e un po' di salame e non so cos'altro. Questo era tutto il mio fardello. Camminavo a piedi velocemente, per non perdere l'ora della diligenza. L'idea di mettermi in una carrozzella non mi era venuta, e non mi venne che assai più tardi, quando non guardavo più al carlino. Giunto in quei vicoli stretti e puzzolenti, che menano a quella brutta Porta Capuana, cominciò un via vai di carri funebri, con preci sommesse, con grida di monelli, che mi fece capire cos'era il colera. Mi strinsi tutto in me, chiusi la bocca e mi turai il naso, come per salvarmi dall'infezione. L'infezione era un fetore acre, che veniva... da spazzature, da cenci, da uomini vivi e da uomini morti. Tirai di lungo, quasi scappando, e giunsi affannoso, che il carrozzone era già in via. — Ferma, ferma, cocchiere! — Fermò, e io mi gettai dentro, che per fortuna c'era ancora un ultimo posto. Mi ci accomodai alla meglio, tra le mormorazioni dei viaggiatori, che mi guardavano come si fa a uno straccione. Io non me ne accorgevo; li salutai e offersi loro del rum, ed essi tirarono la mano indietro come per dir di no. Non ci fu verso di cavar loro una parola, e io che avevo ripreso il mio buon umore, ed ero divenuto tutto ad un tratto comunicativo, ne presi il mio partito, e mi posi a guardare le stelle, sorbendo di volta in volta un po' di rum.

Giunsi in Avellino che parevo un fantasma, e tirai da Peppangelo, il celebre locandiere a quel tempo. — Signorino, cosa avete? voi mi sembrate uno spirito. — Vado a letto, diss'io, e dammi un buon bicchiere di vino, che la polvere m'ha asciugato la gola. — La mattina lasciai Avellino senza vedere alcuno, con l'aria di un fuggitivo. Prima la via era buona, e io caracollava con un frustino in mano e in aria di bravo, su di una mula. Mi veniva appresso, correndo, il contadino che m'accompagnava. Era innanzi l'alba, e il freddo acuto mi dava un tremolìo, specie per le vie umide di Atripalda. Col levarsi del sole la via si faceva sempre più sassosa e ripida, e la mula spaventata e poltra  dava salti, tirava calci, chinava le gambe e il collo, e io mi aggrappavo sulla sella per tenermi saldo. Il contadino andava stuzzicando la bestia, e la pigliava per la coda e la bastonava di santa ragione, imbestialito anche lui, e le due bestie parevano congiurare a farmi cascare. Spesso il cappello rimaneva imbrogliato tra le spine, e talora davo di fronte in qualche albero. La strada era così brutta, che in parecchi punti aveva l'aspetto di un vero precipizio, stretta stretta, sdrucciolevole, aperta ai fianchi, di un'altezza che mi dava le vertigini, e io gridavo che voleva calare, e il contadino bestia dava dei pugni alla mula. Avevo smesso l'aria di bravo cavaliere, e mi rodevo tra la stizza e la paura, col capo dimesso, assetato, affamato, disossato. Giunsi alla famosa taverna di Santa Lucia, e il cuore mi si allargò, come vedessi Gerusalemme.  Mi aiutarono a scendere, che ero intirizzito e non mi potevano  le gambe. Entrai in un camerone oscuro e sudicio, che mi parve una sala principesca, e mi gettai al desco senza badare al tovagliolo e alla forchetta: avrei mangiato con le dita. Pane nero, formaggio piccante, peperoni gialli e una caraffa di vino asciutto furono per me un pranzo da re.

Mi levai arzillo e mi venne la chiacchiera con quei mulattieri, pastori e contadini, che trincavano, giocavano e bestemmiavano. Presto mi si fecero familiari, e m'invitarono a bere, e cioncai e giocai con loro, e non mi parve scendere dalla mia altezza. La natura non mi aveva dato un'aria signorile e di comando, e con la mia sincerità mi presentavo tal quale, senza apparecchio e senza malizia. — Evviva lo Signorino! — dicevano; e s'erano rabboniti tra loro, e io stringeva quelle grosse mani, come per dare un pegno di fratellanza.

A quel tempo era il regno dei galantuomini; i contadini, in povertà e in servitù, erano trattati come i loro asini; io non ne sapevo nulla, ed ero soddisfatto e quasi sorpreso dei loro evviva. Rialzato d'animo e di forza, mi messi a caracollare per la discesa, e via via giunsi a un torrente, che si menava dietro grosse pietre e faceva gran fracasso. Il contadino, presa la briglia, andava innanzi, tirati su i calzoni; io mi tiravo su le gambe per non bagnarmi, e perdendo l'equilibrio, caddi rovescioni nell'acqua, e il contadino mi afferrò e si disperava, e io gli dicevo : — Dio non peggio. — Era un motto di papà, rimastomi impresso. Non giunsi in paese che a ora tarda, di notte. Entrai in casa, sorridente, con le braccia aperte. Non mi attendevano, e maggiore fu la gioia. Mamma voleva pagare il mulattiere. — È pagato, — diss'io, e trassi di tasca un borsellino pieno di piastre, e gliel'offersi, dicendo: — A voi, mamma, le primizie. — La buona donna rideva tra le lagrime, e tutti avevano gli occhi sbarrati su di me, come fossi un principe.

La mattina mamma mi fece mille tenerezze... E mi contava tante cose, e io, stando presso al letticciuolo, negl'intimi penetrali della memoria ritrovavo certe notti lunghe, ch'io mi svegliavo con grida e con pianti clamorosi, e lei veniva e mi toglieva in collo e diceva, palpandomi : — Non aver paura, mamma è con te. — Io guardavo, guardavo, come volessi mettermela bene in mente. Ah! povera mamma, come le volevo bene ! E ora m'intenerisco che l'ho innanzi a me, quella persona alta, asciutta e spigliata, con quella faccia bruna e le folte sopracciglia e gli occhi neri e dolci.

Presto la casa fu piena di gente. Molte strette di mano, molti baciozzi di zie e di comari. Il discorso si oscurò subito, che il colera, non invitato, entrava nella conversazione. Pretendevano che il morbo fosse apparso già in Avellino e in molti paesi vicini, e c'era chi sosteneva di averlo incontrato sulla via del cimitero, e della peggior natura, un vero colera fulminante, un contadino, appena colpito morto[4].

Affascinante è anche il viaggio sempre da Napoli per Morra che fece nel 1833.


[1] Per il colera ad Andretta cfr. Ziccardi C., Aspetti storici di vita andrettese, Poligrafica Irpina Lioni, pagg. 93-105;

[2] De Sanctis Francesco, La Giovinezza, a cura di R. Tosto, Sansoni, 1966, pag. 116;

[3] De Sanctis F., o.c., pagg. 120-121;

[4] De Sanctis F., o.c., pagg. 121-126;