MAR-GIU-SETT 2000                   VICUM                    PAGINA 177

 

LA COLTIVAZIONE DEL GRANO NELLA VITA DEI CONTADINI

 

di Franca Molinaro Grieco

 

L'elemento fondamentale che caratterizzò l'agricoltura italiana e in modo particolare quella delle nostre zone, alla fine dell'800, fu, il grano. Intorno a questo prodotto ruotava tutta l'annata agraria, assorbendone tempo e forza lavorativa. La produzione era scarsa, non soddisfaceva il fabbisogno familiare e nazionale ma il grano restava pur sempre un prodotto di primaria importanza. In quell'epoca, il nostro paese contava circa 5.000.000 di ettari di terreno coltivati a grano: il 17,5% del territorio produttivo. La produzione massimale raggiunse i 50 milioni di quintali annui. Con una media per ettaro, di circa 10 quintali, cifra alquanto scarsa.

Il 4 luglio 1925, un regio decreto legge costituì il Comitato permanente con lo scopo di regolare la produzione; venivano inoltre istituite delle commissioni granarie provinciali. Le direttive del duce all'interno di un sistema autarchico erano coerenti, egli incitava a migliorare la produzione rendendo difficile l'importazione attraverso esosi dazi doganali. Mirava ad aumentare la produzione per ettaro evitando di sottrarre terreno ad altre colture. Fu condotta una buona campagna pubblicitaria per l'aggiornamento delle tecniche produttive con l'istituzione di corsi di formazione professionale. Si favorì la diffusione delle trattrici agricole con un premio triennale detto di "buona manutenzione".

La resa per ettaro aumentò considerevolmente e di conseguenza aumentò anche la produzione nazionale ma le regioni interessate maggiormente furono quelle del Nord Italia.

Le nostre province rimasero ancora una volta tagliate fuori. I nostri contadini, piccolissimi proprietari terrieri, sopravvivevano appena. Queste condizioni disagiate non mutarono col tempo e precipitarono definitivamente con lo scoppio della secon­da guerra mondiale.

I piccoli proprietari contavano su un'azienda di qualche ettaro da sfruttare per tutte le colture necessarie a soddisfare il fabbisogno familiare. Zappavano il piccolo fondo e lo accudivano quotidianamente senza permettere che un solo chicco andasse perduto. A lavoro ultimato, vendevano il raccolto di grano e compravano il granturco per sfamare gli animali e per fare il "pane junno".

Più fortunati erano coloro che possedevano una discreta proprietà. Questi piccoli proprietari chiamati "massari", aravano il terreno con i buoi e lo concimavano con lo stallatico da questi prodotto. Questa tecnica permetteva, ogni anno, di arricchire il terreno di humus rendendolo particolarmente fertile. Utilizzando i buoi come forza lavorativa, diminuiva la manodopera e si accorciavano i tempi di esecuzione; insomma "A lo ricco le figlia lo ove e a alo povero le cade la casa". (Al ricco partorisce il bue e al povero cade la casa).

     I nostri contadini, installati nella media valle del Calore, su entrambe le sponde, Morroni sulla sponda destra, il Cubante su quella sinistra, versavano in condizioni economiche ristrettissime, la pancia vuota non aiutava a ricordare l'orgoglio di appartenere al glorioso popolo irpino e sannita.

 

Qualche studioso locale (Miletti) si affannava a scrivere per risvegliare la memoria storica, invitando alla rivalutazione di glorie passate, e rafforzando il concetto di nazionalismo all'interno di una politica già incentrata su questa ideologia. Ma il popolo era affamato e prolificava in una maniera spaventosa; ogni famiglia contava almeno sette figli, le bocche da sfamare erano troppe ed il pane bianco era un lusso per pochi massari. I braccianti erano la classe sociale predominante, uomini, donne, vecchi e giovani, si spostavano in massa, a piedi, da un paese all'altro, nel nostro caso, da Bonito verso Morroni ed il Cubante. I massari, per poche lire, un pezzo di pane duro e l'acqua nel secchio, assoldavano una bella squadra di braccianti facendoli lavorare nei campi, spesso in condizioni disumane.

 

Il massaro si recava di buon mattino in un posto detto "la cerza" (Ad Andretta "fore a la croce") dove si riunivano tutti i braccianti, sceglieva 1a manodopera a buon prezzo e si accaparrava i favori del "caporale" regalandogli qualche soldo in più.

 

L'annata agraria finiva ed incominciava ad agosto quando si arava il campo e si spargeva il letame. Così concimato, il terreno aspettava ottobre per la semina. Già nei primi giorni di ottobre si sceglieva il terreno da seminare per primo: (San Francisco semmena pe lo frisco), cioè nei terreni con esposizione a Nord (Luoco manco). (A San Francisco se non'ha abbiato a semmenà fallo priesto). (San Francisco semmena montagne e isca). Poi si avvicina il mal tempo; per questo (A Santa Teresa semmena a distesa); (A San Luca t'ha trovà semmenato tutto); (A San Luca semmena pe lo nfuso e pe 1'assutto); (Quanno so le Sante semmena pe tutte le campe): Famoso era il formaggio di questo periodo: (Co lo caso de semiento no mmità manco pariente). Verso la fine di novembre il contadino si affretta a completare la semina (Semmena semmena semmenatore fino a che la vòccola s'ammasòna); (A Sant'Andrea, ne simmene ciento e ne nascono trea), difatti (Pe Sant'Andrea, lo buono massaro semmenàto avea). A questo punto viene spontaneo pensare a chi dar ragione perché (Semmena quanno vuoe ca sempe a luglio miete). I nostri antenati erano molto attenti ai proverbi, ogni ricorrenza era legata ad un lavoro ed aveva un suo detto, così la saggezza popolare si trasmetteva di generazione in generazione sotto forma orale senza andare a scuola a studiare sui libri i sistemi migliori per ottenere una buona produzione. Il bravo contadino sapeva regolare i semi che spargeva in rapporto al suo passo, un uomo grosso aveva un pugno grosso ma anche un passo più lungo. Dopo aver seminato divideva il campo in tanti "purchitielli", ognuno for mato da quattro solchi di aratro; questo lavoro veniva perfezionato ulteriormente, a mano, con il rastrello; si diceva che si "schianava", cioè si spianava il terreno. Il menestrello cantore dei mesi così cantava: "Io so novembre co la ciampa de ove, la rinola la mira la sementa, no panariello lo meno pe 1'aucielle, nato lo meno pe stè donne belle". (lo sono novembre con l'orma di bue, la rondine le guarda le sementi, un cestino lo sparale per gli uccelli, un altro lo spande per queste donne belle...)

A dicembre, quando i campi già verdi si coprivano di neve, il contadino era felice perché (Sott'a neve pane, sott'a l'acqua fama) il tenero germoglio rischiava di impallidire e marcire se i terreni non avevano un buon drenaggio ma sotto la neve, al calduccio, il chicco preparava un buon raccolto (Annata nevosa gregna gravosa) Finalmente arrivava il Natale ed i poveri approfittavano per mangiare un poco di pane bianco, questo era concesso solo nei giorni di festa e nell'ultima agonia, chi stava per morire, infatti, si diceva che stesse "a pane de raro".

A gennaio tornavano i dubbi su come interpretare le previsioni per la prossima innata (Jennaro sicco massaro ricco) oppure (Chiovere a friddo de jennaro regneno o granaro). (Pioggia e freddo di gennaio, riempiono il granaio).

Mentre il contadino passava il mese di gennaio accanto al fuoco e pensava di farsi per disperso il giorno di San Bonnito perché (A Santo Bonito ogni mogliera ratte a lo marito) arrivava febbraio.

Nei campi c'era necessità di "erpiciàre": i buoi tracciavano di nuovo il solco tra i "purchitielle" e rincalzavano il grano con l'erpice, uno speciale pettine di ferro.

A primavera il contadino si trovava di nuovo in difficoltà perché non sapeva se sperare nella pioggia (Marzo muollo ranno pe' zolle) oppure sperare nel sereno (Marzo sicco massaro ricco, marzo assutto raro pe tutte) poi optava per un altro desiderio (Marzo sicco, ma non troppo sicco, se no fotte povero e ricco). Osservando il suo campo faceva le dovute considerazioni, una semina corretta avrebbe dato un buon raccolto ma una semina "futa" sarebbe stata un errore perchè (A futella pe tre misi pare bella); un bel campo verde era bello fino a marzo, poi il chicco di grano aveva bisogno di spazio per infoltire gli steli e l'apparato radicale. Come tutta la campagna, in primavera anche il chicco di grano è in crescita, gli esili steli cominciano ad allungare (Marzo lo primo nudeco te fazzo). Il cantastorie diceva così: "Io so marzo co lo mio zappullo e pane e puorre a lo villano aspetta e ghiette circi viecchie e pillizzulli". (lo sono marzo con la mia zappetta   e pane e cipollini al contadino tocca e butta via abiti vecchi e spilli...)

A marzo ogni contadino zappettava il suo campo con una piccola zappa dal ferro stretto, detta "zappiello". Questa operazione consentiva di rincalzare ulteriormente le piantine di grano mentre venivano estirpate le erbacce infestanti. La "sfelecatura" continuava in aprile ed in maggio. In questi mesi il contadino abbandonava "lo zappiello" ed interveniva direttamente con le mani; le erbe infestanti di questo periodo sono maggiormente piante della famiglia delle graminacee, ricordiamo particolarmente l'avena selvatica "ràlliti". La pioggia era particolarmente attesa nel mese di aprile (Abbrile chiuovi chiuovi ,maggio una e bona).

II tempo di Pasqua, ricco di simbolismi e similitudini, era in stretta relazione con l'annata agraria.

La domenica delle Palme le massaie facevano i fusilli molto lunghi perché così sarebbero cresciute le spighe di grano. Tra un fusillo e l'altro pregavano affinché il cielo mandasse giù tanta pioggia perché (Parma nfossa regna torsa). Al ritorno dalla messa, il contadino prendeva le palme benedette e le metteva nei campi come auspi­cio di un raccolto abbondante. Anche la Pasqua doveva presentarsi piovosa perché (Pasqua chiovosa ,annata ranosa).

Sul finire del mese di aprile, la pioggia era ancora indispensabile (N'acqua tra maggio e abbrile vale no carro d'oro e chi lo tira). Ma a maggio (una e bbona) perché (Maggio assutto, rano pe tutte) mentre (Maggio ortolano assai paglia e poco rano).

Verso la fine del mese, il cielo doveva essere assolutamente sereno infatti (Quanno chiove a San Bernardino se perde rano uoglio e vino).

Finalmente arrivava giugno, il grano dorava le sue chiome, il campo era un manto uniforme, non c'era un papavero o un fiordaliso a rompere la tessitura delle spighe. Il cuore del contadino era gonfio di gioia ma un'ansia oscura minava la sua contentezza, egli scrutava il cielo per paura di vedere una nuvola che oscurasse il sole (A giugno non'adda chiove manco uoglio), temeva che il suo raccolto andasse in malora.

La grandine era frequente in questo periodo dell'anno ed egli sapeva benissimo cosa rappresentasse una grandinata sul suo campo. L'angoscia che questo fenomeno incuteva, portava spesso i contadini a fantasticare sulle cause e sui rimedi possibili.

Si racconta a questo proposito che un tempo c'era un monaco capace di creare e comandare la grandine. Egli si recava sulla sponda del fiume e raccoglieva dei ciottoli con i quali tracciava dei segni mentre recitava delle formule magiche. Poi in un turbine si alzava nel cielo mentre intorno a lui si formava una nube carica di grandine. Il monaco guidava la nuvola sul campo di grano del contadino buono salvando quello del contadino malvagio. Ma ogni pazienza ha un limite ed il contadino buono sparò nella nuvola uccidendo il monaco scellerato. La grandine definita "acqua commannata" veniva scongiurata sparando dei colpi di fucile in aria, con la stessa canna che aveva sparato la sera dell'Immacolata.

La mietitura iniziava verso la fine di giugno (San Giovanni la fàuce nganna) ma per (Santo Pietri o verde o sicco miete). Naturalmente la mietitura si protraeva fino a luglio, a secondo della grandezza del podere.

II cantastorie così cantava: "Io so giugno co la falce in pugno tanto ce meto quanno stò nchichierchia, ma si vene mamma quera brutta vecchia la voglio sicutà co la varrecchia".

     Il contadino povero mieteva da solo il suo campicello adottando la tecnica della "casa leata": il marito sceglieva le spighe più lunghe e formava una "casa o leanda", la metteva a terra, mieteva un fascetto di grano e ve lo poneva sopra. La moglie che lo seguiva mieteva un altro fascetto di grano, lo poneva sopra al precedente e legava il tutto. Nei poderi dove venivano impiegati molti braccianti veniva impiegata la tecnica detta "a jermete nterra": il mietitore faceva "lo jermete", un fascetto di grano che poteva impugnare in una mano, lo legava con uno stelo e lo appoggiava a terra. Seguiva una donna che raccoglieva "le jermete" e li legava insieme formando la "gregna".

Ogni donna legava i manelli di tre mietitori i quali mietevano un "purchitiello" ciascuno. I mietitori alle dita della mano destra portavano "le cannelle", proteggidita di stagno o di canna. La falce era di circa cinquanta centrimetri di lunghezza ma variava a seconda delle capacità dell'addetto.

La mietitura era il lavoro più duro specialmente nei campi dei massari: i mietitori erano delle persone specializzate, eccellenti lavoratori, le donne che li seguivano non sempre riuscivano a competere specialmente quando "nfocava lo sole" ed il grano che serviva per legare si rompeva. Il sudore grondava dalla fronte, bagnava le camicie, ma non c'era tempo per andare a bere, ammesso che il padrone metteva a disposizione una "bagnarola" d'acqua.

Quando le forze non erano definitivamente esaurite, qualche prode osava cantare per ingannare il tempo e far sbollire l'ira contro il padrone. A volte inventava le rime per le varie circostanze o richiamava i luoghi dove si trovavano:

"e lo sole s'è fatto russo e lo patrone storce lo musso, e lo sole è arrivato a Castiello curri patrone co lo panariello, e lo sole è arrivato Ariano viene patrone co la vorza murano, e lo sole stace a Padule viene patrone co la vorza nculo".

Qualcuno, temendo l'ira del padrone, cantava in modo meno palese ma altrettanto sofferto: "Amore non tremente lo colore / aggio stato a lo Covante a faticane. / Dio che cavedo e che calandrella / ammucinne no poco a reposane. / Tutte le mizzeiorne hanno sonate / sino lo mio ancora adda sonane. / Te preo sacrestano va lo sona / fa mangià a chi non'ha mangiato ancora. / Te lo ddico a te fronna e limone / chi mangiamo se pozza strafocane".

Spesso tra i braccianti nascevano delle storie d'amore ed allora il canto si addolciva di tenerezze rivolte all'amata ma il tema fondamentale era sempre quello del duro lavoro quotidiano e della carenza di cibo:

"Se n'è minuta l'ora de la marenna zia patrona coma la malata, la parziona mia conzala a parte, la voglio realà a l'amore mio".

Dopo aver mietuto, al sorgere del sole, si raccoglievano i covoni in mucchietti detti "ausielle", in questo modo il grano riposava fino alla metà di luglio. A questo punto poteva anche piovere perché (Quanno chiove ncopp'a l'ausielle fa ricco lo poveriello). Il cantore dei mesi così interpretava il mese di luglio: "Io so luglio co lo carro rutto, lo carro l'aggio rutto a la maesa, carreca nenna mia careca tutto ca lo patrone ce passa le spese, a la tornata ce ne hammo frusci frusci ce ne hammo cantanno a la carrese".

Chiaramente era tempo di "carrare" di portare, cioè, il grano sull'aia. Il contadino preparava accuratamente "l'aria", sceglieva un luogo vicino la masseria tenendo conto dell'esposizione ai quattro venti, asportava tutte le erbacce senza scavare il ter­reno, lo bagnava lievemente, lo batteva ed infine lo spazzava. Con i carri trainati dai buoi, trasportava il grano e lo componeva in grandi mucchi detti "banca, casazza o pignone". Sulla cima di questi accumuli poneva una croce fatta di spighe e sulla croce poneva un immagine della Madonna. I contadini che non avevano i buoi portavano il grano sulle aie dei massari e ve lo facevano lavorare, in cambio prestavano servizio presso la masseria. Un'altra operazione importante era la "spigolatura": il massaro chiamava dei braccianti e li faceva raccogliere ogni piccola spiga caduta accidentalmente durante la mietitura. Le spighe con lo stelo si legavano, quelle senza venivano messe in un sacco, tutte venivano portate sull'aia e sistemate separatamente. Il prodotto della spigolatura veniva diviso a metà col padrone, se i braccianti volevano i due terzi del prodotto, erano tenuti ad aiutare il padrone nella raccolta della paglia "curmo":

Le "casazze" riposavano ancora per qualche tempo, poi si "scognava", quest'operazione finale era lunga e laboriosa e richiedeva molta abilità. I covoni ben stagionati e asciutti venivano sciolti sull'aia a gambo sotto e spighe sopra, si dice che "se menava la pesatora", poi con una pietra triangolare trainata da buoi, si girava in tondo ripetutamente, sulle spighe, per quindici volte dopo di questo si "girava la pesatora" e si ripeteva l'operazione, questo per circa sei volte, secondo l'umidità della paglia. A questo punto si fermavano i buoi e si fermava una squadra di molte persone in fila indiana schierate sotto vento (come cota lo viento fai lo puorto). La persona che era prima nella fila si chiamava "ciuccio" perché addosso a lui finiva tutta la paglia della spulatura. Ogni persona aveva una forca di cinque denti, con questa alzava la paglia in aria, la paglia veniva portata dal vento ed i chicchi, che erano più pesanti, cadevano a terra. L'ultima operazione prima dell'immagazzina­mento era la "cernitura" con un attrezzo detto farnale, in questo modo si eliminavano tutte le impurità ed il seme restava pulito. Se il raccolto non era stato abbondante si diceva "è asciuto co lo compagno".  

(Vedi foto di Trebbiatura)

La paglia ricavata veniva trasportata in grandi lenzuoli in un sol cumulo: questo lavoro veniva fatto dalle donne che si caricavano il peso sulla testa e salendo lungo scale di legno, lo portavano in cima alla "reglia". Le stoppie rimaste nei campi venivano falciate, il prodotto ottenuto si chiamava "curmo" e era utilizzato per la cottura del pane nei forni.

Il lavoro della "scogna" era molto faticoso, impiegava tante braccia e tanto tempo ma veniva rinfrancato da un'abbondante pasto. "Levà lo grano da la paglia" e "Trasì la paglia co l'assutto" erano cose fondamentali per il contadino, da esse dipendeva un anno della sua vita, della vita dei suoi figli e dei suoi animali. Ed ecco che un lavoro così duro si trasformava in una festa. Sull'aia si raccoglievano amici, parenti e braccianti. In cucina la massaia preparava i migliori piatti dell'anno, il pane bianco, il "capocuollo" e la "sopressata" per "marenna", patate e peperoni fritti o insalata di pomodori per colazione, oche, polli, coniglia spezzatino, ragù di tacchino per il pranzo.

E che dire del vino? Il miglior vino veniva conservato per quest'occasione, non a caso per fare un buon pasto occorre: "Vino c'abballa, caso ca chiange, pane ca canta".

La sera poi, quando era buio e non si poteva più lavorare, si metteva da parte la stanchezza e si prendeva l'organetto. E lì era tutto uno svolazzare di sottane e fazzoletti bianchi che si agitavano al ritmo della raspa, tarantella, "uane stepp", "polka figurata" per finire allegramente in confusione con la "quatriglia commannata".

L'allegra brigata si intratteneva finché riusciva a stare sveglia, queste poche ore di frenesia bastavano a rinfrancare i cuori amareggiati dei braccianti, poi qualche ora di riposo e prima del levar del sole di nuovo tutti a lavoro.

Dopo un secolo tutto questo ci può sembrare assurdo, non si riesce a concepire come un agricoltore potesse perdere tutto il suo tempo in una sola attività per giunta così poco redditizia.

Oggi non si impiega molto tempo per la coltura del grano, bastano pochi giorni dell'anno per ottenere un discreto raccolto. Qualche settimana per seminare parecchi ettari, qualche giorno per concimare con agenti chimici, qualche altro giorno per trebbiare ed immagazzinare.

La paglia non sempre si raccoglie, il più delle volte viene bruciata insieme a tutte le spighe perse nelle stoppie e ai chicchi caduti dalla mietitrebbia nell'atto della cernita tra grano e semenze infestanti. Una buona percentuale di semi rimane nel terreno, una quantità tale che un tempo avrebbe sfamato una piccola famiglia per un anno intero. Il contadino ha perso il senso della ristrettezza economica, oggi, per fortuna, non ci sono più poveri nelle nostre contrade, anche il più misero vive dignitosamente. Questa è una cosa che ci rende felici e "mai pozzano minì le tiempi de Musullino" dicono i nostri nonni rabbrividendo al pensiero degli anni passati. Ma noi che non abbiamo vissuto le loro esperienze non sappiamo apprezzare il presente, d'altronde non ci possiamo condannare perché per apprezzare quello che abbiamo dovremmo sapere cosa significa non averlo.

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