Accademia di Belle Arti di Venezia,

Dipartimento Tecniche Restauro

Corso di Tecnologia del Marmo – Restauro dei materiali lapidei

Seminario

Intarsi e tarsie della chiesa di S. Maria Assunta dei Gesuiti a Venezia.

Prof. Marco Tosa

Anno Accademico 2003 - 2004

Diritti riservati®

Gli apparati ornamentali lapidei all’interno della chiesa di S Maria Assunta dei Gesuiti ci stupiscono per la loro esuberanza ornamentale e il loro fasto.

Tralasciando ogni giudizio di carattere estetico, questo imponente impianto decorativo si pone oggi, agli occhi dell’osservatore in grado di riconoscerlo, come manufatto complesso, variamente articolato nelle possibilità espressive delle tecniche che utilizza, fonte di sorpresa per l’occhio moderno, disabituato alla pratica della lavorazione minuziosa, dettagliata e paziente.

In questo caso, alle pietre di varia natura geologica, è stato affidato il compito di ridisegnare i tessuti settecenteschi, fermandone attraverso i secoli i motivi decorativi originariamente costruiti con fragili filati serici, qui definitivamente storicizzati affidandoli alla fermezza di una materia, che, per eccellenza, da sempre è stata associa all’idea d’immutabilità.

Gesuiti veduta generale della navata con il pulpito

Descrizione decori.

La decorazione lapidea in verde antico e marmo bianco che ripropone motivi tessili settecenteschi si estende lungo le paraste della navata centrale e nel transetto, inserita tra i pilastri di pietra d’Istria lavorati a martellina, comprendendo le colonne e la zona absidale dove si erge il grandioso e composito altare maggiore con il tabernacolo di marmo bianco e lapislazzuli, sormontato dalle sculture raffiguranti il Padre Eterno e il Salvatore seduti sul globo in marmo bianco statuario, ad opera di Giuseppe Torretti, il cui baldacchino è sorretto da dieci colonne tortili rivestite di scaglie di verde antico, mentre i gradini sono ricoperti dallo spettacolare "finto tappeto" realizzato a commesso in verde antico e breccia gialla.. Altare e tappeto sono stati attribuiti a Padre Giuseppe Pozzo (Carmelitano Scalzo), a proposito del quale così riferisce P. Selvatico in Sulla architettura e sulla scultura in Venezia da Medio Evo sino ai giorni nostri, Venezia, MDCCCXLVII, p. 431: " Fratello del più famoso P. Andrea, insigne Gesuita (…) egli pittore storico, egli prospettivo famoso, egli architetto: ed in ogni ramo, quanto abile per abbondandosa feracità d’ingegno, altrettanto sfrenato. Il fratello suo, da lui forse imparò quella che allor chiamavonsi architettura, e se nol raggiunse nella feconda varietà delle composizioni, lo emulò, e quasi oserei dire, talvolta lo superò nell’errore. Codesto provano ad evidenza le due grandiose opere da lui lasciate in Venezia una della chiesa del suo Ordine, l’altra in quella dei Gesuiti". P. 431, e a proposito delle: " ..rampogne del Savio Visentini", che si meritò P. G. Pozzo, si legge alle pp. 432/433: " E se l’ebbe anche per le colonne spirali ch’egli in numero di dieci collocò nel magnifico altare della chiesa dei Gesuiti; congerie di tutti quanti sono i contrassensi d’architettura; ma per altro eseguito con si bella scelta di marmi, e con linea tanto agile immaginato, specialmente nella parte inferiore, che non si può rattenersi di guardarlo con qualche allettamento".

Sulla parete sinistra della navata è collocato il fastoso pulpito, vero gioiello rappresentativo di quel gusto per il materiale prezioso e dell’abilità tecnica nella lavorazione di tali pietre, che contraddistinse i "cantieri Manin" di Domenico Rossi. In questo caso specifico, i duri materiali cristallini sono stati adattati per mezzo del virtuosismo esecutivo alle bizzarrie del gonfio panneggio, al serico peso delle pregevoli stoffe operate che imitano fedelmente.

Gesuiti particolare del pulpito

Pulpito e intarsi delle pareti sono attribuiti all’opera dell’architetto Domenico Rossi che nacque nel 1657 a Marcote sul lago di Lugano. La parentela con Giuseppe Sarti lo introdusse nell’ambiente dell’architettura. Rossi fu considerato sempre " Uomo senza lettere ma molto pratico del meccanismo degli edifici". Lavorò per tutto il periodo giovanile a fianco dello zio e ad altre figure importanti, come ad esempio il Longhena e il Tremignon. La vicinanza con questi artisti lo portò ad una notevole maturazione artistica e specialmente ad arrivare alle giuste conoscenze e committenza; si introdusse nell’ambiente del patriziato veneto diventando uno tra gli architetti più richiesti dalle famiglie nobili. Ottenne importanti lavori tra il 1708 e il 1719 a Udine nel Palazzo Vescovile e nella Biblioteca dell’Arcivescovado. Lavorò a Venezia verso il 1705 alla ricostruzione della chiesa di S. Girolamo, ora decaduta, e, soprattutto su richiesta della famiglia Manin, a S. Maria Assunta dei Gesuiti.

Le cappelle laterali che ospitano importanti altari ricchi di pietre pregevoli quali brecce variamente colorate, marmi statuari e bardigli, lumachelle orientali, alabastro, rivestite sulle pareti interne con motivi ornamentali dai colori analoghi rispetto alle paraste della navata, sono state invece decorate con la tecnica meno dispendiosa, ma dal medesimo effetto, del marmorino, all’insegna de " L’apparente magnificenza ed il tangibile inganno", titolo del saggio di F. Amendolagine Studi e ricerche sull’apparato decorativo della chiesa dei Gesuiti in Venezia, Venezia, 1991.I loro pavimenti mostrano differenti tipologie di opus sectile a piccolo, medio modulo quadrato, ad intreccio, prospettico, scacchiera in rosso di Verona, marmo nero, marmo Bardiglio, Istria, con a volte inserite lastre tombali e iscrizioni. Il pavimento della navata e del transetto riprende i due colori base delle pareti, sostituendo al marmo bianco la pietra d’Istria, seguendo un impianto decorativo geometrico derivato da modelli a schemi quadrati in opus sectile detti "listellati" del I secolo D. C., tipici della romanità. ( F. Guidobaldi, A. Guiglia Guidobaldi, Pavimenti marmorei di Roma dal IV al IX secolo, Città del Vaticano, 1983).

Gesuiti altare maggiore e transetto

Si differenzia l’impianto ornamentale per maggior complessità nel recinto entro la balaustra dell’altare maggiore, qui, oltre al già citato tappeto che accuratamente "ripiegato" copre tutti i gradini dell’altare, estendendosi oltre sul piano di calpestio, si osserva un decoro più fine, sempre eseguito ad intarsio ma impiegando lastre di marmo bianco, nelle quali il disegno in verde antico si articola in fantasiosi motivi ad intreccio multiplo, racemi, fiori stilizzati con quattro petali lobati, grandi medaglioni poligonali. Le lastre, di varie dimensioni e forme, sono impiegate per comporre lo schema decorativo assumendo le varie valenze di medaglioni centrati, fasce ornate e cornici, dove sono osservabili anche frammenti di porfido serpentino verde, tondi di breccia verde d’Egitto, (Lapis hecatontalithos).

Gesuiti tondo di breccia africana

Tessuti: storia, simboli, scuole.

L’uso di decorare le pareti e colonne della chiese con tessuti di pregio risale ai tempi pre Carolingi, quando si adoperavano tappezzerie riccamente ornate e "veli" posti tra le colonne del baldacchino e dell’altare maggiore. I disegni di tali tessili dovevano essere grandi, chiaramente visibili, contrastati nelle linee e nei colori, possibilmente corrispondenti allo stile della chiesa.

I colori dei parati e dei tappeti, usati questi ultimi per adornare la predella dell’altare maggiore, del trono vescovile e il pavimento del coro, in ogni caso dovevano essere forti ed efficaci, ma non chiassosi, la materia con la quale erano realizzati solida e decorosa. Simbologie e significati sempre più radicati si associarono ai disegni dei tessuti ornamentali attraverso le varie epoche, così come ai loro colori: il bianco rappresentava la purezza, il rosso la carità, il verde la vita di orazione.

Gesuiti dettaglio dell'intarsio. Colonna di sinistra

Durante i secoli XVII e XVIII Venezia era una delle città con fiorente produzione tessile, specializzata nei tessuti di seta e velluti operati, caratterizzati da una vivace fantasia nell’invenzione dei motivi floreali che raggiunsero grandi dimensioni nel modulo decorativo. Sono queste le precise indicazioni e i riferimenti che gli artigiani riproposero elaborando i decori lapidei della chiesa di S Maria Assunta dei Gesuiti, che, come scrive , D.D. Poli in Le Arti Decorative a Venezia, Bergamo, 1999, p. 52, "..era sede dal 1643 della Scuola dei tessitori di seta e dei sarti". Testimonianza confermata dalla lapide del 1704, con iscrizione, in Campo dei Gesuiti, n. a. 4877 " SCVOLA D SAN CRISTOFORO DEL OFICIO DI ARTE / D TESTORI DA PANNI DI SETA RESTAVRATA / L’ANNO MDCCIV"

E’ del 1735, nell’adiacente Chiesa dei Gesuiti, il primo altare a destra con il dipinto di Jacopo Palma il giovane raffigurante l’Angelo Custode e angeli che trasportano anime, recante l’iscrizione sul coronamento in alto " OFFICIO ET ARTE DE TESTORI DA PANNI DI SETA E D’ORO", nel mezzo " MDCCXXXV", sulle antine d’ingresso all’altare è sbalzata l’immagine del patrono S. Cristoforo e le iniziali dell’arte "TS". Angelo Finamore, Iscrizioni, insegne e scultura dei mestieri della moda a Venezia, catalogo della mostra, I mestieri della moda a Venezia, Venezia, 1988, p 107.

Inoltre, in Campo dei Gesuiti, vicino all’anagrafico 4881, vi sono forbici scolpite sulla pietra dell’architrave di due piccole finestre.

I " taiapiera" che operarono qui, furono certamente attenti al didascalico e pedagogico, senz’altro indirizzati dalla ferma morale di fede Gesuita che volle la chiesa come luogo dove la cerimonia sacra, spettacolosa e memorabile, doveva essere di sicuro effetto propagandistico, circondata dal fasto liturgico sempre maggiore che adottava in non pochi casi le risorse della scenografia, come scrive Michelino Grandieri in Dalla moderazione onesta, introduzione al teatro dei Gesuiti in Italia, 1978, pp. 59/71:" Le finalità più spiccatamente religiose e quelle politiche in senso lato, non risparmiano l’architettura, questa non insegue più la "bellezza" ma il "decoro", e cioè la nobiltà e la severità dell’insieme, la convenienza degli edifici ad una funzione nobilmente rappresentativa, ma anche per ciò essenzialmente rivolta al fine pratico dell’imporre, del persuadere, del meravigliare."

Gesuiti il tappeto sui gradini dell'altare maggiore

Si possono riconoscere oggi nei "tessuti di pietra" di S. Maria Assunta precise strutture grafiche derivate dall’antico, unite con sapienza ad un sorprendente apparato scenografico, utilizzando un abbinamento di colori dominante certamente non casuale: verde e bianco, gli stessi che saranno impiegati dai finanziatori nella cappella Manin di Udine del 1735. La tipologia tessile rappresentata negli intarsi delle pareti e del pulpito ricopia i damaschi veneziani del XVIII secolo, con motivi di grandi steli, rami incurvati, foglie arricciolate, fiori e frutti, composti in un grande modulo decorativo e comprendenti tra le varie specie, il fiore del Cappero, elemento simbolico in uso nelle toghe dei Procuratori della Serenissima Repubblica di S. Marco.

Gesuiti pavimento dell'altare maggiore

Storia e vicende dell’edificio.

Dal punto di vista storico, prima di approfondire ulteriormente l’aspetto tecnologico di tali manufatti, è utile conoscere alcune notizie relative alle vicende dell’edificio, così anomalo rispetto a quelli della tradizione veneziana, per meglio comprendere la sua definitiva connotazione e i motivi di tale dispendio ornamentale.

Flaminio Corner, in "Notizie storiche delle Chiese e Monasteri di Venezia e di Torcello tratte dalle Chiese Veneziane e Torcellane illustrate da Flaminio Corner Senator Veneziano. Padova, MDCCLVIII, (1758), p. 302, e pp. 305/306, cita Marino Sanudo, Cronaca : "Nell’anno 1150 fu edificata la chiesa dei Crocechieri per Pietro Gufoni, il quale fece anche edificare l’ospedale appresso…".

"Non trascorse poscia molto tempo da che il vecchio Monastero era stato consegnato in potere dè Gesuiti, quando la chiesa ampia bensì, ma debole nella sua struttura cominciò a dare non indifferenti contrassegni del vicino pericolo. Perlochè nell’anno 1715 fu intrapreso di rifabbricarla in magnifica forma dà fondamenti, e nel breve giro di tre lustri fu ridotta al suo compimento con tale nobiltà, che può meritatamente annoverarsi fra i più ricchi, e ben ornati Tempi di Venezia.

L’altare sontuosamente eretto nella Cappella maggiore, la ricca incrostatura di tutta la chiesa, e l'esterior facciata di marmo furono tutte opere della Patrizia Famiglia Manina, e gli altri altari della Chiesa furono pure benefici di divote persone…". Testimoniano della primitiva chiesa due frammenti di lastre in marmo bianco saccaroide, decorate a bassorilievo con aquile che ghermiscono il coniglio tra girali vegetali, attualmente esposte al centro della navata, ritrovate alcuni anni fa durante lavori interni di ristrutturazione.

Una testimonianza del Gradenigo narra che: " divenuta rovinosa la chiesa dedicata all’Assunta, a nostri giorni fu riedificata con grosse spese da N. H. S. Antonio Manin, et il chiostro prima si rifece con stratagemmi competenti al fare di essi Gesuiti; vogliamo dire assiduamente presenti ai lavori".

Appare evidenziato in queste fonti l’importante apporto economico della famiglia Manin al cantiere di ricostruzione, presenza che dal punto di vista stilistico e tecnico influenzò in modo determinante l’impianto decorativo interno della chiesa. Tale generosa quanto mirata munificenza era saldamente legata alla necessità politica da parte dei Manin di confermare il loro prestigio e presenza sociale anche a Venezia, oltre che in Friuli, dove già esisteva la fastosa e rappresentativa villa di Passariano.

Giuseppe Tassini, nel suo Edifici di Venezia distrutti o volti ad uso diverso da quello a cui furono destinati, Venezia, 1885, p. 124, ci informa sinteticamente anche riguardo alle ultime vicende del complesso monastico "Fondato nel 1150, ovvero 1155, a merito dei frati Crociferi, detti corrottamente Crosechieri, e fu rifabbricato dopo l’incendio del 1514. Nel 1657 ai Crociferi successero i padri della Compagnia di Gesù, i quali principiarono nel 1715 a riedificare la prossima chiesa, tuttora aperta al culto, compiendola nel 1729. Soppressi i Gesuiti nel 1733, il convento destinonsi nell’anno successivo a pubbliche scuole, e nel 1807 si ridusse a caserma".

In merito al decoro interno dell’edificio, appare spietato il commento di P. Selvatico, sempre nell’opera sopra citata, p. 433, che così lo descrive e giudica: "Codesta lode almeno meritassero gli edifizii di quel Domenico Rossi che dal 1715 al 1728 architettò lo interno della chiesa testè nominata. Ma egli, inferiore d’ingegno al Pozzo, come a tutti i contemporanei, cadde nel trito, nel pesante, nello strampalato, senza raggiungere il pittoresco mai.

Quella chiesa ad una sola nave, a cappelle sfondate, che nel corpo maggiore è decorata da pilastri corintii, ha la trabeazione risaltata sopra ognuno dei detti pilastri e delle colonne, la qual cosa da all’insieme un che di spezzato e di triste che offende l’occhio. Cresce il bruttissimo effetto quel soffitto a volta ornato di barbari stucchi messi per lo più a oro. A me riesce poi intollerabile anche la bizzarria con cui piacque all’architetto fregiare le pareti tra gli intercolomnii, i fusti delle colonne nella tribuna, e fino il pesante panneggiamento di marmo che s’aggrava sul goffo pulpito. In tutte le indicate parti finse una drapperia a gran fiorami verdi e bianchi che distruggono ogni effetto di massa, e che stanno in perfetto disaccordo con tutto il rimanente. E si che costui potea disporre di marmi tanto belli da poter fare una buona figura anche sfogandosi in baroccumi.

A compir la bruttezza di questo tempio, venne certo Gio. Battista Fattoretto, il quale condusse la colossale facciata che a qualcuno piacque di chiamare grandiosa.".

In un’altra interessante nota del Visentini (p. 116): si apprende che anche sulla facciata vi era un richiamo agli intarsi interni: " ..si può anche in questo luogo aggiungere la stravaganza dello strato posto fuori dalla finestra di sopra, che scherza svolazzando volendosi far comparire un drappo posto per ornamento in occasione d’alcune solennità. Ma chi così pensa va errato, non esponendo la pietra materia si leggera che possa esser mossa dal vento, come le bandiere, ma materia soda e pesante, ricercando questa d’appoggiarsi, di trar ferma e stabile, e non già scherzar per l’aria.".

Tecnica.

La tecnica utilizzata per realizzare questi decori parietali, il pulpito, gran parte del pavimento è quella dell’intarsio, che prevede l’impiego di una cosiddetta lastra "madre" spessa alcuni centimetri, tagliata in una misura predefinita, sulla quale si riporta il modello pittorico, disegno, parte di esso se modulare o destinato a comporre grandi motivi, cosa che avverrà affiancando i vari pannelli tra di loro. La lastra è successivamente intagliata, scavando nella materia fino alla profondità utile per permettere l’inserimento delle "crustae" lapidee colorate negli appositi vani del supporto il quale rimane a vista ed è parte della composizione. Gli elementi marmorei, una volta fissati con l’apposito mastice, andranno a completare il motivo ornamentale, definendo campiture graficamente nette e contrasti di colore vivaci. Tale tecnica si differenzia da quella della tarsia o del "commesso" che, invece, prevede la composizione di un disegno affiancando o "commettendo" tra di loro molteplici lastre lapidee, spesso derivate da pietre dure di pregio, precedentemente tagliate in lamine molto sottili nei colori e nelle forme della cosa rappresentata, utili alla finalità progettuale. Inoltre le linee di commettitura tra diversi elementi devono risultare inesistenti e la superficie dovrà essere levigata accuratamente. Matrice di entrambe le tecniche è stato l’opus sectile romano, o mosaico a sezioni, III – IV secolo d.C., che le mescolava spesso con interscambiabilità, rendendole funzionali alla difficoltà richiesta dal manufatto, al costo, alla disponibilità delle pietre da parte dell’artigiano esecutore. Cfr. Raniero Gnoli, Marmora Romana, Roma, 1988, ill. n. 24/29.

La moda per tali raffinati, costosi, rappresentativi lavori di pazienza e ingegno, ha radici antiche nella romanità, con la tradizione lapicide che l’impero aveva assorbito, tradotto e adattato alle proprie esigenze, importandole da ogni angolo dei suoi vasti domini. Sotto Costantino, cessata ogni possibilità di rifornimento diretto dalle cave, a causa del venire meno di un’efficiente rete di trasporti, divennero cave i monumenti stessi e la "Marmorata"- il deposito dei materiali lapidei in grandi blocchi che si era costituito nel tempo, sulla riva sinistra del Tevere- rappresentò una cava: da qui i Cosmati attinsero i materiali per i loro mosaici nel secolo XII.

Tale interesse continuo, legato inevitabilmente alla rappresentazione dello status sociale, attraversando i secoli trovò un entusiasta Vasari a Firenze, e, con la "lettera patente" emanata da Ferdinando I de Medici si assistette alla nascita il 3 settembre 1588 della manifattura granducale fiorentina, che produsse eccezionali capolavori esemplari della tecnica del commesso. Alvarez Gonzales Palacios, Mosaici e pietre dure,Milano, 1988.

Nel caso di Venezia, questi oggetti da collezione sembrano restare un po’ marginali rispetto al desiderio di "ornato" che, invece, aveva da sempre qualificato e resa unica l’architettura locale, trasformando le facciate delle case dei veneziani in preziose raccolte a cielo aperto di sculture, rilievi, patere antiche, incastonate con medaglioni di pietre rare, rivestite di lastre dalle tinte brillanti provenienti da cave lontane. Pochi anche i casi di opere in commesso all’interno di edifici di culto riconducibili ad un autore: è di Benedetto Corberelli il paliotto dell’altare maggiore nella chiesa di S. Stefano, 1656, di Antonio e Iseppo Rusini il paliotto S.Maria del Giglio, 1691, di Cosimo Fanzago l’altare maggiore di S. Nicolo del Lido, 1634.

Assume quindi particolare interesse in questo ambito geografico e culturale il decoro lapideo interno della chiesa di S. Maria Assunta dei Gesuiti che porta in se le radici delle tradizioni romane, il gusto del collezionismo e della eccezionale fiorentino, uniti insieme alla potenza declamatoria della fede gesuita grazie al denaro di un nobile patrizio avviato sull’ambiziosa strada del Dogado.

Realizzazione, taglio, colle, finitura.

L’esecuzione di intarsi e tarsie si deve a maestranze probabilmente veneziane, sono citati nei libri i soliti e generici "taiapiera" e "fregadori", mentre sono state avanzate ipotesi sul disegno dei damaschi marmorei, riferendosi ad un tale Olivo, stesso nome che compare per disegni molto simili impiegati nei i decori della cappella Manin di Udine. Analogie stilistiche, architettoniche e compositive, si riscontrano anche nella cappella collegata alla grande villa Manin di Passariano, fu costruita su progetto dell'arch. Domenico Rossi intorno al 1735, all’interno una superficie marmorea policroma copre il pavimento, si estende sulle paraste, corre lungo la cornice marcapiano ai piedi della cupola, fa da tappeto ai gradini dell'altare maggiore ove troneggia la Madonna con il Bambino opera di Giuseppe Torretti.

Le lastre parietali di marmo bianco monolitiche usate nella chiesa dei Gesuiti hanno uno spessore di circa 4-5 centimetri, e sono scavate per circa 1 centimetro in profondità ricavando le sedi per alloggiarvi le crustae. Vi sono differenti misure nella larghezza, quelle poste sui quattro pilastri che sostengono la cupola sono le più grandi, 52, 5 cm., mentre le lastre nella navata e delle pareti corrispondenti ai due altari affrontati del transetto, sebbene non misurabili direttamente, appaiono chiaramente più strette. Quelle curve, che rivestono le quattro grandi colonne ai lati dell’altare maggiore misurano 50 cm. alla base. Sono evidenti e facilmente individuabili ad occhio i segni di giunzione tra tutte le lastre. I frammenti litodidi di varia natura inseriti per comporre l’ornato e presenti anche negli altri elementi intarsiati, quali le colonnine delle varie balaustre prospicenti gli altari, variano dai 3 ai 5 mm. di spessore.

L’intaglio dell’incavo presentava spesso problemi dovuti alla difficoltà di seguire bene il progredire del lavoro durante l’esecuzione, Vasari scrive in merito narrando della vita di Valerio Belli, celebre intagliatore milanese del XVI secolo:" poiché tagliando in incavo, che è proprio un lavorare al buio, da che non serve ad altro la cera che per acchidi a vedere di man mano quello che si fa", riferendosi all’artificio consistente nell’eseguire durante il lavoro continui calchi in cera dell’incavo per vederne man mano il progresso e stabilire come e dove levare con le ruote fino alla conclusione dell’intarsio, affinchè la pietra, liberata da supporto di legno, pulita dagli abrasivi e dall’olio, poteva finalmente rivelare le forme ottenute.

Nel nostro caso, il disegno verde su fondo bianco, ha uno sviluppo verticale, imitando la larghezza della pezza da tra le due cimosse. I motivi riprodotti sono uguali nelle paraste della navata, nel transetto, sulle colonne e dietro l’altare maggiore, variando di poco nell’espansione del modulo, che risulta a volte allargato o ristretto a seconda delle esigenze imposte dallo spazio a disposizione. Anche alcuni elementi del disegno di base, frutti, infiorescenze, rami, sebbene ricorrenti sono combinati tra di loro in modo diverso, come si può osservare nel caso delle quattro fasce del transetto. Anche il fregio in alto, sotto il cornicione di pietra d’Istria, che corre lungo tutto il perimetro della chiesa, è stato eseguito con la stessa tecnica.

Le crustae di verde antico non sono state tagliate secondo contorni precisi in ampie campiture, ma appaiono frammentarie nell’aspetto compositivo, assemblate in elementi di differente dimensione, forme e intensità cromatica, certamente per una volontà di risparmio e riduzione dello spreco durante il taglio di tale materiale pregiato.

Questo aspetto è molto più evidente nelle colonne ai lati dell’altare maggiore e in quelle tortili del baldacchino, dove si era reso necessario adattare il rivestimento lapideo alla sezione circolare e mossa del fusto, impiegando quindi frammenti ancora più piccoli di verde.

Le linee di congiunzione tra tali elementi, dovevano essere invisibili al fine di fornire una visione unitaria, fortemente grafica, dell’intarsio. In questo senso si procedeva utilizzando leganti colorati, secondo uno studio pubblicato dal Centro Regionale di catalogazione e restauro del Beni Culturali del Friuli Venezia Giulia, Restauro nel Friuli Venezia Giulia,, n. 2, Udine, 1990, vi sono analogie tra le "maltine" con cui sono incollate le crustae di breccia verde al marmo bianco di Udine e quelle di Venezia. Nelle analisi eseguite sui materiali campionati nella cappella di Udine il legante in questione risulta composto da gesso, carbonato di calcio, materiale organico. Tale risultato ha trovato conferma con la consultazione di fonti archivistiche, dalle quale si apprende dell’acquisto di " carbon, cera, pegola, gesso polvere di marmo ed altro".

Probabilmente il carbone era stato usato come tinta per scurire la malta nelle interconnessioni tra i frammenti lapidei. La "pegola" nei ricettari veneti sta ad indicare le resine derivate da conifere, dalla colofonia alla trementina, note e molto usate all’epoca in differenti tecniche artistiche. In questo caso il suo impiego fu come collante, considerate alcune sue caratteristiche quali il buon potere adesivo, la resistenza nel tempo anche in ambiente umido.

A causa del diffuso degrado, si può osservare nei punti in cui le parti di verde sono andate perdute o staccate, uno strato spesso e duro, irregolare, dal colore giallo ocra che riempie lo spazio dell’intarsio, probabile residuo della suddetta "maltina".

Dobbiamo immaginare questi decori finiti a lustro, resi lucenti oltre che dalla perfetta levigatura delle superfici, anche dalla cera impiegata come lucidante finale. Parte di tale finitura è ancora riconoscibile nei panneggi del pulpito, dove per altro è quasi impossibile identificare ad occhio nudo le linee di giunzione tra i vari blocchi massivi di marmo. Qui, a differenza delle paraste, oggi opache e sbiadite, la qualità tecnica dell’intarsio sorprende ancora di più poiché il modulo decorativo del tessuto è fedelmente adattato, senza nessuna approssimazione, alle casuali e gonfie pieghe dei due drappi, raccolti ai lati della balaustra. Se potessimo idealmente distendere le due tende, ritroveremmo le perfette corrispondenze dei disegni. Il contrasto tra la solida struttura architettonica barocca del pulpito, definita dalla copertura a pagoda e dal balcone sagomato, con il soffitto intarsiato decorato da cornici a bassorilievo, e le tende di "damasco", sottolinea ulteriormente il puro impianto scenografico dell’opera. Completano l’illusione le frange mosse poste all’orlo dei drappi e le nappe tra le centine del baldacchino, scolpite all’insegna del più ricercato realismo nel marmo bianco.

Marco Tosa

Accademia di Belle Arti di Venezia,

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