L'Accademia di Belle Arti di Venezia ha gratuitamente intrapreso anche questo restauro come segno di contatto con il territorio.
Con questi incentivi affettivi l'istituto veneziano ha intrapreso il recupero di un dipinto che versava in condizioni conservative disastrose. L'intervento è stato effettuato nell'ambito della attività didattica ed è stato curato direttamente dagli allievi in un rapporto individuale opera/operatore che la Scuola di Restauro, Pietro Edwards, dell’Accademia di Belle Arti di Venezia ritiene fondamentale e del quale vi è chiara esemplificazione nelle parole di Paul Philippot: "Il vantaggio dell'atelier è la possibilità che offre di portare un lavoro avanti fino alla fine, mentre nella scuola si frazionano gli interventi e sparisce l'aspetto più importante, cioè l'oggetto nella sua unità. Il restauratore deve prendere su di sè la responsabilità di curare un oggetto nella sua totalità e di capire da dove deve cominciare e dove deve finire. Allora si tratta di inserire una parte teorica a mano a mano che sorgono i problemi.”
L'intervento di restauro si è sviluppato nella solita direttrice in cui l’Accademia veneziana crede con convinzione: ossia quella della valorizzazione dell'opera nella sua unità potenziale, coniugando valorizzazione dell'istanza estetica con quella storica, rifuggendo la chimera del "originario splendore" che ovviamente tende ad annullare bios, intendendo con questo termine i positivi segni del passaggio del tempo sull’opera. Questa attenzione non è certo casuale data la naturale vocazione dell’Accademia di Belle Arti di coniugare materialità e immaterialità, operazione oggi così difficile a causa dell’assuefazione ai vari mezzi di riproduzione, dalle esaltate cromie, per cui si è sempre più portati a dissociare la materia dall’immagine, proprio come ci ammoniva Alessandro Conti: "il comportamento dei materiali antichi sono sempre meno noti, … sui quali grava spesso disprezzo idealista per la manualità e per la materialità dell’opera d’arte … inoltre, come tutti, sono bombardati da assuefazioni ed immagini diffuse dai mass media". Ed ecco che il monito di Umberto Baldini: "quando restaurare ebbe la pretesa di significare abbellire, correggere, rendere migliore e più bello un oggetto;" deve essere compreso nella accezione completa, ossia con l’avvertenza che il nostro migliore e il nostro bello deve essere commisurato al nostro contesto culturale e quindi il pericolo non è più un addolcimento pittorico di un viso o di un paesaggio ma l’esaltazione cromatica con una impregnazione o una spatinatura, magari con la ingenua giustificazione di migliorare le caratteristiche meccaniche dell’opera.
L’intervento di restauro è stato quindi mirato a superare i vari problemi conservativi e di presentazione cercando di diminuirne la loro negativa interferenza sull’opera, senza mai porsi in antagonismo con l’opera stessa, nemmeno con il suo aspetto temporale; ecco quindi che il migliore complimento al nostro lavoro può essere l’ingenua domanda: ma è restaurato? Ciò ovviamente non significa che l’intervento sia mistificato in una indefinita compenetrazione nell’opera, viceversa è conscio del suo modesto ruolo di accostamento funzionale al raggiungimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, incoraggiati da Cesare Brandi che ci ricorda come l’integrazione dovrà essere invisibile alla distanza a cui l’opera d’arte deve essere guardata.
Vanni Tiozzo
Titolare di Restauro alla Accademia di Belle Arti di Venezia