Che cosa fare da grandi? Testi sulle scelte importanti della vita (gruppo giovani S. Etienne)

Discernimento e offerta

"Che devo fare, Signore?". Questa è stata la domanda di Paolo di Tarso sulla strada di Damasco (Atti 22,10); è stata la preghiera insistente di Francesco di Assisi nel momento in cui stava scoprendo una nuova e più vera possibilità di vita. È la domanda di ogni adolescente che vuole fare della sua vita qualcosa di bello per Dio e per i fratelli.Occorre allora intraprendere un cammino di ricerca, nella fondata fiducia che Dio si lascia sempre trovare da chi lo cerca con cuore sincero (Salmo 145,18).

Questo cammino di ricerca richiede di "guardarsi dentro", per scoprire i talenti che il Signore ha donato (attitudini, doti, tendenze) e domandare allo Spirito d'amore di aiutarci ad investire questo capitale di bene non per il nostro tornaconto, ma per servire il regno di Dio.

Richiede anche di "guardare attorno" , tra gli amici, gli adulti, le persone vicine e lontane per scorgere modelli credibili di vita piena e per rintracciare situazioni di dolore che domandano di mettere in gioco la nostra vita.

E, infine, richiede di "guardare avanti", all'unico Maestro e Signore, colui che ci invita a seguirlo sulla strada della croce, che porta a rischiare la vita per amore.

Lo Spirito che prega in noi ci porta, allora, a ridire la preghiera dell'offerta senza ritorni: "Eccomi!". È la preghiera di Gesù che con noi e attraverso noi continua ad offrirsi al Padre: "Ecco, io vengo a fare la tua volontà" (Ebrei 10,9)

Più concretamente, la disponibilità a giocare la propria vita per il regno di Dio richiede di essere educata attraverso varie esperienze spirituali, che vanno fedelmente coltivate. Innanzitutto c'è la partecipazione all'assemblea eucaristica, dove la comunione all'offerta di Gesù al Padre per gli uomini alimenta la nostra disponibilità per Dio e per i fratelli, e dove fiorisce lo Spirito con i suoi carismi. Occorre poi seguire un cammino di preghiera quotidiana, scandito dalla lettura attenta e docile della parola di Dio ("lectio divina", "meditazione") e da una umile e serena revisione del proprio comportamento ("esame di coscienza"). Senza una lenta assimilazione dei criteri di Dio, quali ci vengono rivelati nella Scrittura e soprattutto nella storia di Gesù, senza un quotidiano confronto con lo stile di vita incarnato dal Maestro, non è possibile imparare a cogliere nella nostra vita i segni di cui il Signore si serve per comunicarci i suoi messaggi.

Un valido aiuto per un cammino di ricerca nella fede è offerto anche dall'esperienza del dialogo con il "padre spirituale", un prete amico e competente nella vita dello spirito che, attraverso incontri personali, aiuta a chiarire ciò che forse si avverte in modo confuso e a discernere in modo personalizzato il progetto di salvezza del Padre.

Da non trascurare, infine, è la possibilità di un tempo prolungato di riflessione e di preghiera, quale è l'esperienza degli "esercizi spirituali". Si tratta di una serie di attività spirituali, condotte in raccoglimento per alcuni giorni, finalizzate a ritrovare se stessi e a maturare disposizioni di apertura alla chiamata del Signore.

Catechismo dei giovani 1

Verso un "chi"

La cosa più "di senso" che ha scosso il mio modo di essere è stata la rinuncia alla mentalità del "progetto di vita". Credo che, superata l'adolescenza dei tentativi di essere, l'età adulta ci venga sempre presentata come il tempo dei progetti e della loro realizzazione.

 
Il meccanismo che viene innescato, semplificato è più o meno così:
 
1. Ti guardi intorno alla ricerca di un modello adeguato.
2. Metti in atto tutti i passi necessari a raggiungere la meta prefissa.
3. Ti adoperi per superare o aggirare gli ostacoli che si frappongono.

Il progetto sottintende questa massima: "ecco una meta predefinita: ti resta solo da decidere come ci vuoi arrivare." Guai ad attardarsi, a non fare una di queste tre cose, perché "niente progetto = niente futuro, niente sicurezza, persona poco seria, vita incerta, fallimento". E' un meccanismo drammatico, perché quando va in crisi la meta, va in crisi la vita stessa, se è intesa come progetto di raggiungimento di quella meta. E il vuoto di molti neo-laureati, una volta raggiunta la meta del "cosa farai da grande'. Ma anche di molti fidanzati, una volta messi in discussione dal partner-meta.

Per me il progetto non è stato solo umanamente insostenibile; è stato anti-evangelico. Penso al dialogo tra Gesù e i primi due curiosi del Vangelo: "Maestro, dove abiti?" e Lui: "Venite e vedrete". Che meraviglioso esempio di non progettualità applicata! Non solo non gli dice dove abita (la ricerca della meta spicciola...), ma anche la risposta è una meraviglia di stile: non dice "venite e lo vedrete", ma "venite e vedrete", quasi a significare che quel che si trova non è necessariamente quello che si credeva di cercare. E in effetti nel Vangelo non c'è poi alcun accenno alla dimora di Gesù adulto: sembra stare sempre a casa di qualcun altro.

Gesù fa passare i discepoli dal progetto al processo, da una realtà statica a una dinamica. Passare dal progetto al processo fa paura, perché nel progetto ti illudi di essere tu a decidere della tua vita; sarà pure una illusione, ma dà sicurezza, perché il "pilota automatico" è una garanzia di non essere alla deriva.

Accettare di essere work in progress è un'inversione di rotta che richiede invece coraggio e libertà, perché contiene l'ammissione implicita che non tutto dipende da me, che c'è un grosso spazio per l'imprevisto, il non calcolato, il "fuori progetto".

La differenza che passa tra il progetto e il processo è in un certo senso quella che passa tra Ulisse e Abramo. Ulisse va perché è un inquieto e non può non andare. Abramo va perché Dio lo chiama, anche se francamente alla sua età starebbe benissimo dov'è. Ulisse lascia la casa, la moglie, il figlio, il cane... con la prospettiva di un ritorno. Paradossalmente la meta di Ulisse è il luogo di partenza e il suo viaggio un giro in tondo. Si parte per andare dove già si sa: quel che conta è il durante. Abramo mette in gioco tutta la sua sicurezza: si parte da Ur e non si sa dove si va; l'unica cosa certa è che indietro non si torna, i ponti son bruciati. Abramo è il vero avventuriero, perché nessuno resta ad attenderlo e tutto viene scommesso su una meta ignota.

Ulisse conta solo su se stesso, è immagine dell'uomo che ce la fa con le sue sole forze, l'eroe che tutti vorremmo essere. Abramo non è che un uomo, per di più vecchio e sterile. Non è un modello per nessuno. L'unica forza che ha è quella della fede in una promessa, in un incontro. Più che verso un dove, Abramo va verso un chi. Ulisse parte per conto proprio, ma è un vagabondo, Abramo stava bene dov'era, ma si fa un pellegrino.

Io non troverò il mio senso vagabondando, progettando di meta in meta con la speranza di approdare presto o tardi dove io o altri avevano già deciso che sarei giunta "da grande". Non voglio essere una vagabonda.

Anche io ho un incontro, anche io sento di avere un appuntamento con lo stesso Mistero che affascinÒ Abramo, e voglio la leggerezza mentale per riconoscerlo quando lo incontrerò. E allora vado, perché il momento delle scelte non è in contrasto con l'idea di processo e so che questo appuntamento si può realizzare continuamente ad ogni angolo di vita e di strada; ma come lo riconoscerò, se sono troppo impegnata a far progetti per il futuro? Nessun progetto statico, refrattario ad ogni imprevisto, mi metterà al sicuro dal Dio di Abramo.

Se formulassi una domanda di senso da questo discorso, non sarebbe "Dove arriverò da grande?". Sarebbe "Su chi mi sto scommettendo? Di chi mi sto fidando?"

Michela Murgia
(articolo tratto dal giornale dei giovanissimi Graffiti)