Estratto dall’intervento di Paola Bignardi,
presidente nazionale di AC
In "La parola ai giovani… nell’AC che cambia"
Roma, 9 dicembre 2001
Credo che sia così bella l’AC che forse sarebbe meglio fare silenzio e riascoltare dentro di noi l’ideale concreto, fresco, grande, dell’AC. Ieri a Sat2000 un giornalista ha chiesto se i giovani dell’AC erano "tosti". A me questa domanda è rimasta dentro. I giovani di AC sono tosti perché sono giovani, sanno esprimere una volontà di essere giovani, anche quando anagraficamente non lo sono più. Una fraternità, la nostra, che si è allargata e si è nutrita delle cose semplici di cui è fatta l’AC.
La "generazione quotidiana" che vive tutti i giorni, tutto il giorno, non solo il sabato sera o la domenica pomeriggio: questa è quella dei giovani dell’AC, che cercano il segreto per cui il colore del quotidiano non sia il grigio e la misura del quotidiano non sia la mediocrità, che conoscono la fatica e la bellezza di tenere insieme i grandi problemi del mondo e i piccoli e grandi problemi della propria esistenza. La vita quotidiana non è ad una sola dimensione. Questo tenere insieme diverse esperienze significa non "sistemarsi" in una di queste, ma lasciarsi "sospingere" ed andare oltre.
Quale AC questi giovani hanno in mente?
Un’AC che sceglie "meramente" il primato della fede. Torna a dire a sé stessa il primato della fede. Ascoltandovi, credo che emerga la fatica di dire che la fede abbia il primo posto e che tutto essa illumini.
L’AC vi deve anche delle risposte per tutte le volte in cui non vi ha detto con severa verità tutte queste cose. Per averla rivestita di retorica, per averla rivestita di cose da fare e non di un amore liberante. Credo che vi dobbiamo delle scuse
Vivete una fede che è un amore: ciò che ci tiene in vita giorno per giorno è l’amore. Quando l’amore si spegne, ci accorgiamo che la nostra vita muore, in solitudine. Non ci salva da questa solitudine il fare le cose per gli altri, su questo palcoscenico in cui esibisco solo il mio io. Pensiamo subito che l’amore sia da donare, ma in realtà l’amore è il tesoro che nella nostra vita riceviamo. Vivere è ricevere da Dio ogni giorno il suo amore. Amore è la parola con cui Dio non smette di illuminarci: quando la luce della Parola sembra spegnersi, sappiamo che Lui ci fa condividere il dramma del Calvario. Amore è credere che quando non sappiamo più pregare, Dio ci manda chi prega per noi. Questo amore fa parlare alla vita un linguaggio nuovo: gli altri sono un mistero in cui stiamo in ascolto delle parole che Dio rivolge a noi. Poi c’è l’amore che doniamo, che assomiglia alla donna del Vangelo che rompe il vaso d’alabastro per ungere di profumo il corpo di Gesù. L’amore della donna "spreca", come Dio che da buon seminatore getta il seme senza pensare dove può fruttare di più. Lo "spreco" è quello della Croce, dono senza calcolo, senza prudenza. In questo amore è piantata la Croce.
Torniamo a dirci che la Croce è vita! Può sembrare una parola dura e difficile, ma non la cronaca della Croce ci deve spaventare, quanto il significato di condivisione del male estremo, del dono di sé dobbiamo ricordare. Un dono che inizia a Betlemme, anni prima, anzi ancora prima, quando Dio decide di mandare il suo Figlio nel mondo. Per vivere dobbiamo vivere la Croce del Signore come esercizio, in quattro forme: credere che Dio nella Croce ci associa alla sua debolezza, dà un senso alle nostre sofferenze e fragilità, poiché, paradossalmente, ci fa forti perché siamo associati alla Sua debolezza; coltivare un cuore disarmato, convinto che il potere violento si vinca con la forza del perdono; la Croce è vita e non sottrae alla fatica, ma le chiede di non smettere di cercare la giustizia e la pace, anche quando pare impossibile; essere solidali con un Dio che soffre con i poveri è sentirsi responsabili delle piaghe di Lazzaro che ci salveranno.
Un’AC che mette al primo posto la fede è un’AC che vive una Chiesa che è una casa. La casa non è un idillio, ma un luogo vero, dove ci sono contrasti, incomprensioni, dove ci sono momenti brutti e momenti belli e dove tutti costruiscono la casa. Una casa che non si lascia dare un’impronta da quelli che ci stanno non è una casa, ma un albergo. Una casa non da "Mulino Bianco", ma come tutte le case, che parla linguaggi vivi.
Quali sono dunque i segni dell’AC che si rinnova?
Un’AC che assume la propria condizione di debolezza e si abitua e si educa a ritenerla grazia.
Un’AC che smette di lamentarsi delle difficoltà e fa brillare l’ideale su cui si fonda.
Un’AC che pensa di meno alle sue questioni interne e di più alla vita.
Un’AC che crede che sarà la Croce del Signore a rinnovarla e si lascia modellare dall’Amore della Croce.
Un’AC che si sente in cammino e accetta di passare per il deserto, luogo dove si ritrova l’essenziale e si ridà valore alle cose importanti, e solo dopo parla di strategie, modalità, progetti.