Intervento di Ernesto Diaco,
vicepresidente nazionale Settore Giovani

(9 dicembre 2001)

 

Vogliamo raccontarvi una storia. C’erano una volta due sognatori, anzi tre. E il Terzo era responsabile del sogno degli altri due. Siamo nel 1867. Un giovane 22enne di Viterbo, Mario, è a Bologna ospite di alcuni parenti. Un sogno, per non essere illusorio, ha bisogno di un complice, e Mario ha la grazia di scovare un complice straordinario in un giovane emiliano, Giovanni. Nel suo cuore, il Terzo sognatore – anzi, il Primo – aveva depositato il germe dello stesso sogno. Aspettava solo di essere risvegliato, decifrato, svelato.

Il loro incontro e le loro parole accesero la scintilla: loro parlavano agli altri giovani, regalavano il loro sogno e proponevano un’avventura incredibile e rischiosa: creare un’associazione nazionale di giovani cattolici che si proponesse la finalità di formare gli aderenti a testimoniare pubblicamente la fede in Cristo e ciò attraverso la "carità verso i giovani", soprattutto quelli – scriveva Mario – illusi, addormentati, perduti. Scelsero subito anche due patroni cui affidare la loro opera: Maria Vergine Immacolata e san Pietro, principe degli apostoli. Il primo giornale dell’Azione Cattolica aveva un titolo che sembrava preannunciare l’incontro di oggi: "La Voce dei giovani".

In breve tempo, tanti altri giovani si impossessarono di quell’utopia, perché in fondo non era troppo grande, ma era ritagliata su misura delle aspirazioni del loro cuore. Così l’avventura evangelica sognata da Mario e Giovanni trovò l’impatto con la realtà. Il sogno si materializzò e prese a camminare per le strade d’Italia e poi del mondo. Sì, perché i due non passeggiavano tra soffici nuvole, ma si scorticavano i piedi sul terreno più aspro, quello della testimonianza del vangelo nella vita quotidiana. Fino al dono di sé: Mario, infatti, morirà due anni dopo quell’incontro, in seguito ad una polmonite contratta per essersi tuffato in acqua per salvare una persona che stava annegando.

Dopo di loro, si aggiunsero molti altri sognatori. Venne Pier Giorgio, il "giovane delle otto beatitudini"; Armida, la "sorella maggiore" di generazioni di ragazze italiane e non solo; Gabriella, una vita offerta per l’unità della Chiesa; Antonia e Pierina, una fede semplice e popolare e un amore incandescente; Alberto, l’ "ingegnere manovale della carità"; Carlo, piccolo fratello, instancabile cercatore dell’unica cosa necessaria.

Di generazione in generazione il sogno ha continuato a contagiare un grande numero di giovani fino a noi oggi. Questa infatti non è "una" storia, è la nostra storia. È il nostro sogno, quello che ci stiamo raccontando e che ora ci affidiamo reciprocamente per metterlo alla prova nei mesi che ancora ci dividono dall’assemblea nazionale. Per fare ancora una volta del sogno una storia possibile per molti.

La storia di un popolo numeroso che abbiamo voluto chiamare – con un’espressione audace ma significativa – "generazione 8 dicembre", dove 8 dicembre è il simbolo del nostro sogno, ridestato e vivificato dal Primo sognatore e dalla sua dolcissima Madre.

Perché l’unica buona notizia per l’umanità non viene consegnata ai circuiti pubblicitari, agli organizzatori di spettacoli, ma alla testimonianza di persone disposte a giocarsi l’esistenza sulla Sua parola. Il metodo scelto da Dio è un "passa parola". Pur non rifiutando di misurarsi con la volubilità delle folle, Lui non le rincorre – come invece noi a volte facciamo. Preferisce l’approccio personale, con la fatica di convinzione, di condividere, correndo il rischio di dover pagare il prezzo di un amore incompreso.

È qui che ci collochiamo noi. Tra i discepoli. È qui che si disegna ancora il nostro profilo, antico e nuovo allo stesso tempo. Un’identità plurale, una vocazione sola ma non indifferenziata, o in-differente. Come la Chiesa, che fin dall’inizio si è presentata come una comunione di tanti volti e storie diverse.

È il Papa stesso, nel messaggio che ci ha inviato, a indicarci alcune figure di discepoli che ci provocano e ci descrivono, ci indicano la via e i passi da compiere.

Scrive: "Essere giovani vuol dire avere la schiettezza di Natanaele". Natanaele non nasconde le sue perplessità, ma neppure lascia che ad avere l’ultima parola sia la facile ironia o il qualunquismo banale così diffuso anche oggi. Viene e vede, anzi è visto da Gesù quando era sotto il fico, non sottrae cioè allo sguardo di Gesù la sua intimità più vera.

Natanaele è anche l’apostolo chiamato dall’amico Filippo. Ci riconosciamo in questo ritratto dell’amicizia che diventa condivisione della fede, delle attese profonde che ci muovono. Un’amicizia che si manifesta come cura del cuore dell’altro, della sua coscienza, del suo cammino interiore. Vedete come si delinea il nostro profilo: siamo un’amicizia di credenti, capace di ascoltare le domande più profonde dell’altro, di metterle insieme alle nostre e trasformarle in dialoghi della speranza, tra di noi e con tutti.

Anche l’impegno educativo che spesso assumiamo entra in questa logica: risvegliare la verità nelle coscienze per renderle libere, in un mondo in cui la libertà è un rischio, una conquista e mai un dato di fatto o un possesso radicato. Il risultato? Vedremo "cose più grandi" di queste!

Se Filippo e Natanaele parlano tra loro di Gesù, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro il mattino di Pasqua, trascinati dall’amore. Per lungo tempo avevano vissuto col Signore e non avevano capito nulla. Un po’ come noi, che pur avendo l’agenda piena di "cose religiose" da fare non ci sentiamo affatto degli arrivati nella fede. In questa corsa al sepolcro vuoto sta tutta la nostra formazione, il cui obiettivo è proprio insegnarci a far spazio all’irruzione di Dio, a riconoscere le sue meraviglie nella vita nostra e del mondo.

L’esperienza di Pietro e Giovanni nel mattino di Pasqua si presta bene a descrivere come vediamo la Chiesa, comunità sorpresa dal Mistero e non gelosa detentrice della Verità. A questa scuola di profezia ci iscriviamo volentieri. Pietro e Giovanni: la Chiesa che insegna amando. In ascolto, serva e povera, comunitaria, in dialogo e capace di martirio. Non un’agenzia del sacro, una Chiesa che sta di fronte a noi, ma che portiamo dentro di noi almeno tanto quanto ci lasciamo portare da lei.

E in lei ci lanciamo in questa corsa mozzafiato sulle tracce del Signore, un viaggio di andata al sepolcro vuoto e di ritorno alla Gerusalemme dei nostri giorni.

Passano poche ore ed ecco entrare in scena Tommaso, caparbio nel credere – dice il Papa – ma anche capace di slanci impensabili di fede. Anche in lui ci riconosciamo, pendolari come siamo tra le domande e le risposte, i dubbi e le certezze. In quei "laboratori della fede" che vogliamo siano i nostri gruppi, necessari ma non più sufficienti, le insicurezze e i silenzi sono presi sul serio. Non sono incidenti da evitare, ma l’assumere ogni interrogativo che nasce dalla vita e da tutti i suoi aspetti e problemi, fino al mistero radicale della morte, che li contiene tutti. Perché sono morte la povertà, la violenza, la solitudine, l’odio, la dittatura delle cose, l’ingiustizia, ogni offesa alla vita e alla verità sull’uomo.

Nei nostri "laboratori" la vita ci insegna a smontare la fede, a guardarvi dentro, ma è vero anche il viceversa: la fede in Gesù ci porta a scomporre la vita, a portare alla luce i criteri di giudizio e le dinamiche esistenziali da purificare. Nel "laboratorio della fede", infatti, la ricerca non è fine a se stessa, ma conduce ad alcune scelte essenziali, a qualche concreto "esercizio di laicità". Come il programma di vita che si era dato Bonhoeffer, un programma all’insegna della più sconcertante essenzialità: "Pregare e fare ciò che è giusto tra gli uomini".

A proposito di "laboratori", gli scienziati che scrutano l’universo e racchiudono la sua luce in un minuscolo microscopio ci insegnano che si può osservare il cielo anche guardando in direzione della terra, ed è soltanto la piccolezza che consente di contemplare l’infinito.

 

Di Tommaso condividiamo anche l’importanza che dà al corpo, alla sensibilità, agli affetti.

 

Isaia: "Mostri il Signore la sua gloria, e voi fateci vedere la vostra gioia" (Is 66,5).