Ma perdono e giustizia non fanno a pugni
di Giovanni Bachelet
(Da "Avvenire" del 30 dicembre 2001)
A cominciare dal motto che lo riassume, "senza giustizia non
c'è pace, senza perdono non c'è giustizia", il messaggio
del Papa per la prossima giornata della pace, che merita di
essere letto per intero, mi ha toccato profondamente. Ci ho
ritrovato la serena ma non banale unità interiore del cristiano
che ammiravo in mio padre: da lui, che era un giurista, ho
imparato da ragazzo l'idea che perdono e giustizia non sono due
termini antitetici, ma piuttosto due elementi che si completano a
vicenda. Da lui, che come il Papa era figlio di un militare, ho
imparato l'orrore per la guerra e la violenza, ma anche la
coscienza che qualche volta la minaccia e perfino l'uso della
forza possano essere tragicamente necessari.
Un cristiano può rinunciare alla difesa di se stesso - mio padre
aveva rinunciato alla scorta, che pure gli era stata proposta -
ma non alla difesa dei deboli, di persone innocenti e inermi che
vengono oppresse, aggredite o sterminate. Un cristiano può avere
dubbi anche gravi sul modo in cui fermare efficacemente la
violenza e le tante ingiustizie del mondo. Eppure per lui il
tentativo di arginare il male, nella misura in cui è possibile
farlo con mezzi umani e quindi in modo certamente imperfetto, non
solo è legittimo, ma può essere addirittura un dovere.
E' falsa la contrapposizione fra una giustizia fredda e disumana
ed un perdono ricco di calore e umanità: essi sono invece due
facce della stessa medaglia, perché non si può fondare la pace
sulla sopraffazione dei deboli, né si può considerare pace
l'assenza di conflitto e il silenzio delle armi quando il più
forte ha messo a tacere l'inerme. Giustizia e perdono sono due
volti dell'amore e costituiscono, come dice il Papa, i veri
pilastri della pace.
Certo l'innesto nella civiltà umana del perdono cristiano non è
cosa banale. A causa del peccato, anche dopo secoli e millenni
riemerge sempre in ciascuno di noi la vecchia, barbara legge:
occhio per occhio! D'altra parte non possiamo dirci cristiani se
non sappiamo perdonare; il perdono è sostanza stessa del
messaggio evangelico e aspetto costitutivo della nostra vocazione.
La cultura del perdono, proiezione comunitaria (nei secoli e
nelle diverse nazioni) di tante vite autenticamente evangeliche e
quindi orientate alla salvezza, non alla condanna, è uno dei
contributi più preziosi che, in quanto cristiani, abbiamo
offerto e offriamo alla società.
In questo senso alcuni importanti principi di chiara impronta
cristiana - la responsabilità penale è personale, e perfino
un'azione di forza deve tendere al ricupero di chi sbaglia - sono
stati recepiti piú di cinquant'anni fa nella Costituzione
Italiana e in altre carte europee. Ma è importante che il Papa
li ribadisca in questo messaggio, non solo perché vengano
attuati dove già sono riconosciuti, ma perché diventino
patrimonio anche delle non poche nazioni in cui sono sconosciuti:
ancora oggi, in alcune grandi nazioni, vige infatti la pena di
morte, ed è perfino previsto che i parenti delle vittime
assistano alla sua esecuzione. Ciò però è incompatibile col
Vangelo, e anche umanamente, numeri alla mano, non riduce
l'incidenza statistica della violenza omicida.
Giovanni Paolo II lo ripete con chiarezza in questo messaggio: la
semplice e attraente matematica della vendetta - occhio per
occhio - è alla base di una spirale di violenza che finisce col
colpire sempre nuovi innocenti, portando alla guerra di tutti
contro tutti, non alla giustizia e alla pace: benché il perdono,
annunciato con pienezza da Gesú, possa apparire paradossale, nel
lungo periodo esso risulta efficace anche nel curare le ferite
sociali e internazionali: nel perdonare, dice il Papa, vi è in
realtà una certa 'ragionevolezza'. Mio padre, quando ero
bambino, aveva riferito una frase di Kennedy di simile tenore,
che non ho dimenticato: conviene sempre lasciare un'onorevole via
di scampo all'avversario. Offrire una via d'uscita è al tempo
stesso un atto di amore e un gesto prudente, lungimirante e
ragionevole: lo spirito di riconciliazione è destinato a
produrre, nel lungo periodo, frutti positivi.
Del resto, dice il Papa, l'autentica giustizia è agli antipodi
della vendetta: non è mai una gustosa rivalsa dei buoni contro i
cattivi, un regolamento di conti tra vittima e colpevole, quanto
il tentativo della comunità degli uomini, imperfetto eppure
necessario, di difendere i deboli e la possibilità di
un'ordinata ed equa vita comune. Ad un'azione negativa, che
dovrebbe essere mirata ai colpevoli e non coinvolgere interi
gruppi nazionali, etnici o religiosi, va dunque sempre
accompagnata un'azione positiva capace di estirpare le radici
della violenza.
In questa prospettiva il perdono non consiste in un buonismo
sdolcinato; è invece l'impegno a superare, anzitutto con la
volontà del cuore, a livello personale, e poi anche comunitario,
i limiti di questi dolorosi, ma a volte inevitabili interventi.
La coscienza che tutti abbiamo in qualche misura contribuito al
male, che la nostra giustizia è sempre finita (summum ius, summa
iniuria, dicevano gli antichi), che non si uccide in nome di Dio,
che ogni uomo è nostro fratello - come diceva il motto di una
delle prime giornate della pace quando ero giovane - deve fare da
guida alla nostra azione.
Facile a dirsi ma non a farsi - direbbero a questo punto molti
austeri cultori della realpolitik: le inerzie dei governanti e
dei capi delle nazioni non sono meno tragiche delle guerre, come
insegna la storia dell'Europa di fronte al nazismo. Ma proprio il
superamento delle ferite della seconda guerra mondiale attraverso
una progressiva integrazione europea, o l'uscita dell'Italia dal
tunnel del terrorismo negli anni 70 e 80, suggeriscono che, come
già gridava Paolo VI alle Nazioni Unite, la pace è possibile.
E' possibile conciliare giustizia e pace, giustizia e perdono.
Certo si tratta sempre di una pace imperfetta, la pace che può
dare il mondo: finché siamo su questa terra, essa consiste solo
nella progressiva trasformazione dei conflitti in competizioni
regolate. Una giustizia aperta alla riconciliazione resta un
ideale a cui ogni generazione deve tendere sapendo di non poterlo
mai riassumere in una formula definitiva. A quanti però, negli
articoli di fondo dei grandi quotidiani, guardano con sufficienza
a questi richiami del Papa, o addirittura considerano il rifiuto
della guerra di religione come l'ultimo tabú da infrangere -
basta con questa storia che non si uccide in nome di Dio, basta
col dialogo interreligioso - occorrerebbe ricordare che anche
alcuni dittatori dicevano di avere Dio dalla loro parte (Gott mit
uns) mentre altri si domandavano con ironia quante divisioni
avesse il Papa. Ma avevano fatto male i loro conti.