|
Howard
Carter aveva sette anni quando sua madre pensò che bisognasse mandarlo
a scuola; Samuel, il padre, non volle ritenendo che fosse troppo debole.
Fu chiamato un maestro che in casa diede al malatino i rudimenti del
sapere. Mamma Martha colmava il figlio di attenzioni, sempre timorosa
che si buscasse un malanno. Con gli altri ragazzi non poteva giocare. Il
successo di Samuel Carter come pittore di animali era collegato al fatto
che la fotografia costava ancora molto cara; gli altolocati che andavano
matti per i cavalli gli facevano ritrarre quelli di razza, che poi
appendevano nelle case di campagna. Poichè
gli animali erano i suoi unici compagni, Howard passava il tempo
libero nel serraglio paterno, dietro la loro abitazione. A giudizio del genitore, i timidi tentativi
del figlio di imitarlo nel ritrarre gli uccelli prigionieri erano
"talento ereditario". Tutta la famiglia trascorreva mesi estivi in campagna (Swaffham, Norfolk), dove il
pittore in erba era venuto al mondo. Poi Carte junior prese a spostarsi
di villaggio in villaggio. Un giorno nell'estate del 1891, a Didlington,
incontrò Lady Amherst of Hackney. La baronessa gli disse che se avesse
avuto intenzione di diventare pittore forse aveva un'occupazione per
lui: il noto esumatore Flinders
Petrie e il suo giovane assistente Percy Newberry, reduci da una
spedizione nell'Egitto centrale, avevano portato l'inverno recedente
migliaia di schizzi a matita, tanto che il povero Newberry stava giorno
e notte al British Museum a rifinirli in bella copia. La dama gli
propose di dargli una mano. Carter le rispose che era dispostissimo a
farlo. Accompagnato dal padre partì per Londra e si presento al British
Museum. Lo ingaggiarono per tre mesi. Copiare i disegni gli piacque; i
suoi datori di lavoro furono contenti. Allorchè, nell'ottobre del 1891,
per conto dell’Egypt Exploration Fund, Newberry si preparò a tornare
nella Terra dei faraoni, fece sapere al comitato che sarebbe stato più
economico portarvi anche il giovane copiatore, il quale avrebbe così
avuto la possibilità di disegnare dal vero, mentre agli esumatori
sarebbe rimasto più tempo per cercare. Lord Amherst si disse disposto
ad accollarsi le spese purchè oltre che a disegnare Carter aiutasse
anche a scavare: collezionare oggetti antichi era per lui una passione.
Nei mesi successivi lui e Newberry lavorarono nelle sepolture rupestri
di Beni Hassan e Der al-Bersha; Carter aveva soltanto disegnato dato che
era impensabile porre mano ai badili, decise perciò di andare a Tell
El_Amarna, dove sperava proprio di dissotterrare qualcosa per Lord
Amherst. Arrivato ad Amarna si presentò al direttore degli scavi,
Petrie, che gli affidò come primo incarico quello di disegnare. Ma
Carter sin dal primo giorno espresse il desiderio di poter partecipare
attivamente agli scavi. Petrie gli assegnò allora un appezzamento
vicino al muro esterno del grande tempio di Aton. Il terreno che gli era
stato assegnato era stato lungamente vagliato, ma Carter lavorava
febbrilmente: doveva trovare qualcosa, non poteva deludere il suo
mecenate. Dopo il terzo giorno, quando Petrie vedendo l'entusiasmo di
Carter, decise di assegnargli un appezzamento in cui nessuno aveva mai
scavato, Carter gli mostrò raggiante i frammenti della statua di una
regina e poche ore dopo disseppellì parecchi torsi passati tra le
maglie del vaglio precedente. L'entusiasmo e il giovanile slancio di
Carte gli avevano fatto conquistare l'amicizia di Flinders Petrie.
Carter era affascinato da Petrie. Ah, se fosse riuscito a diventare come
lui. Ma la fortuna che gli era stata propizia all'inizio parve volerlo
abbandonare: Carter lavorava come un matto, ma purtroppo dopo settimane
di lavoro si trovò tra le mani solo tre blocchi di pietra,
evidentemente frammenti di una lapide di grosse dimensioni, su uno dei
quali si poteva riconoscere la testa di Akhenaton. Petrie cercò di
spiegare a Carter che le fondamenta che stavano venendo alla luce erano
quelle del più grande tempio del mondo. Ma Carter era deluso. Iniziò
allora a tracciare le piantine in scala. Petrie era dell’opinione che
il giovane avrebbe guadagnato una grossa somma, se avesse inserito lo
schizzo templare nella planimetria complessiva dell’antica città,
impresa fino allora mai tentata: Il valente disegnatore non se lo fece
ripetere, camminando per trenta, quaranta e spesso cinquanta chilometri
al giorno, misurò, rilevò, disegnò e, in poche settimane
preparò il primo documento cartografico di Tell el_Amarna, Akhetaton,
l’antica capitale. La planimetria della città fu così perfetta, che
Petrie propose a Carter di mandarla al Cairo, all’Ufficio Antichità.
Carte seguì il consiglio portò il piano urbanistico a Minia e lo spedì
per posta. Da allora è scomparso. Non è mai arrivato a destinazione:
un duro lavoro di settimane andato in fumo. Da tempo ormai Carter aveva
capito che la perseveranza era la prima virtù del disseppellitore; poi
prese coscienza della seconda virtù: la fantasia. La grinta con la
quale Howard s’era messo all’opera diede presto i suoi frutti:
anch’egli cominciò a dissotterrare utili reperti, sempre più di
frequente, fino a raggiungere a fine stagione il numero di diciassette.
Una sera durante il solito esame degli oggetti rinvenuti Petrie mostrò
a Carter un anello, un anello da sigillo, sul cartiglio del quale
c’era il nome di un re: “ Tut-ankh-Amon”
– “più che mai vivo è Amon”. Era il nome del faraone
dimenticato. Il fantasma di Tut aleggiava ormai da molti anni sulla
scena archeologica, ogni tanto veniva trovato il suo nome o tracce di
esso. Petrie fu il primo ad occuparsi
in maniera sistematica della cronologia del Dimenticato. All’età
di 20 anni, Carte giunse a Luxor si presentò ad Edward Faville e lavorò
per lui per quasi 6 anni. Imparò a svolgere autonomamente la propria
attività, lavorando con esattezza scientifica; toccò a lui una
meraviglia al limitare del deserto: il tempio della regina Hatshepsut.Carter
disegnò, costruì, fotografò, documentò, assistendo
contemporaneamente ad una rinascita: un tempio in rovina, dimenticato,
risorgeva; la sua storia diventava viva. A 25anni Carter divenne
ispettore alle Antichità per l’Alto Egitto e la Nubia, con sede a
Luxor. Ora spettava a lui il controllo di Karnak, di Tebe, di Edfu, di
Philae, di Abu Simbel, dei grandi templi e dei maggiori centri di antica
cultura. Come ispettore alle antichità Carter aveva il poter, ma non il
denaro finchè non conobbe Theodore Davis. Insieme solcarono le acque
del Nilo e il neoispettore mostrò all’ospite il proprio impero. Davis
assicurò che sarebbe stato un piacere frugare da quelle parti; quanto a
lui se c’era da spendere non si tirava indietro. Avrebbe cercato di
fare il possibile, rispose Carter. Howard naturalmente, sarebbe stato
felicissimo di rimboccarsi le maniche in uno scavo, invece di star lì a
far quadrare i conti e a preparare le paghe. Il 3 ottobre 1899
crollarono undici delle centrotrentaquattro gigantesche colonne nel
grande tempio di Karnak.
Si trattava di colossi alti
ventuno metri; le fondamenta di uno di essi avevano ceduto; la colonna
si era piegata su un fianco e aveva trascinato con sé le altre. Ora
bisognava rimetterle in piedi. Carter comandava anche uomini armati che
facevano la guardia alle sepolture faraoniche già scoperte nella valle
dei Re. Ogni volta, però, che Howard Carter a dorso di somaro
faceva la sua ispezione si accorgeva sempre più di non essere
l’uomo giusto al posto giusto. D’ufficio non si poteva ricostruire
la storia; bisognava muoversi, impolverarsi e infangarsi nel deserto,
lavorare di pala e piccone. Davis e Carter si misero d’accordo in
maniera rapida: avrebbero scavato insieme, utilizzando il capitale
finanziario del primo e il patrimonio d’esperienza del secondo. Howard
si diede da fare perché al facoltoso statunitense venisse concesso di
scavare nella Valle dei Re. Maspero acconsentì malvolentieri: da un
lato temeva che, se Carter si fosse dedicato a dissotterrare, la sua
attività di ispettore ne avrebbe sofferto e, dall’altro, era del
parere che nella Valle dei Re non si potesse trovare più nulla di
archeologicamente valido. Carter fu
irremovibile. Nei primi giorni del 1902, Carter cominciò a frugare
nella Valle dei Re, per conto proprio. Puntò inizialmente sulla parete
rocciosa sudorientale della conca valliva. Pur essendo una zona
impervia, nel giro di 3 giorni trovò quello che cercava: gradini di
pietra, entrata sepolcrale, corridoio, camera del sarcofago, insomma,
l’ultima dimora del quarto Thutmosi, accuratamente spogliata (tranne
qualche suppellettile e un carro ).). Mentre scavava per trovare
l’estrema dimora di Thutmosi IV, Howard rinvenne una tazzina
d’alabastro e un piccolo scarabeo azzurro con il nome della regina
Hatshepsut. Il 2 febbraio 1903, sessanta metri a nord della tomba di
Thutmosi IV, Carter trovò una pietra su cui c’era l’anello con il
nome di Hatshepsut; in quel momento ebbe la certezza di trovarsi di
fronte alla sepoltura dell’eccentrica sovrana. L’apertura del
sepolcro rupestre fu, dal punto di vista tecnico, una delle imprese più
complicate mai affrontate dalla ricerca archeologica. Anche se la tomba
era spogliata, disadorna e priva d’iscrizioni, averla scoperta rese
celebre Carter, per essere riuscito là dove Napoleone e Lepsius avevano
fatto cilecca. Howard Carter, lo scopritore, divenne improvvisamente
interessante, fu invitato a prendere il tè, ai ricevimenti. Quattro
classi sociali erano presenti sulla piazza di Luxor: uno strato
superiore di pochi individui ricchi o arricchiti; uomini d’affari e
funzionari dello Stato; un continuo flusso di turisti e buontemponi
danarosi, e la grande massa della popolazione indigena, una metà della
quale era regolarmente occupata, mentre l’altra era indaffarata ad
escogitare stratagemmi per spillar quattrini alla classe alta e ai
turisti. Gli archeologi, salvo rare eccezioni tutti
poveri in canna, erano una sorta di curiosità che i gruppi
facoltosi si disputavano. Verso la fine del 1905, a Saqqara, un gruppo
di francesi ubriachi tentarono di entrare nel Serapeum, senza biglietto,
spintonando il guardiano che però oppose una ferma resistenza e non li
lasciò entrare. Questo stupido avvenimento con il quale dapprima Carter
non ebbe nulla a che vedere, prese poi una brutta piega. Quando
il capo delle sentinelle avvisò Carter di quello che stava succedendo
egli si affrettò a raggiungere il sepolcro dei tori e fu coinvolto
nella lite e malamente ingiuriato. Ordinò alle sentinelle di difendersi
ed un francese rimase ucciso. Tornati al Cairo i turisti protestarono
contro Carter e il console generale di Francia pretese le scuse. Howard
rifiutò, disse di non aver fatto che il proprio dovere. La vicenda si
concluse però con le sue dimissioni. Maspero cercò in tutti i modi di
indurre il suo ispettore a scusarsi, per farla finita con quella
faccenda, ma Carter preferì dimettersi. Dall’oggi al domani una
promettente carriera archeologica ebbe fine. A trentuno anni Carter si
trovò senza lavoro. Si era sempre sentito meno attratto da Saqqara, da
Menfi e dal Basso Egitto, rispetto a Luxor, a Tebe, all’Alto Egitto e
soprattutto alla “sua” Valle. Strada facendo, incontrò Ahmed Gurgar.
L’ex ispettore non nascose al suo vecchio caposquadra di essere
preoccupato: senza tetto, senza lavoro, senza soldi. Ahmed gli diede
ospitalità. Meditando sulla sua mala sorte, Howard si ricordò di aver
in mano un mestiere, quello che aveva imparato: si mise a dipingere
paesaggi e a venderli ai turisti. Pur rendendosi conto di mettersi sullo
stesso piano degli indigeni, prese a commerciare i propri quadri: doveva
pur vivere. Theodore M. Davis non rimase insensibile nel vedere Howard
così dimenticato: Davis sapeva che si trattava dello scopritore della
tomba di Hatshepsut e di quella di Thutmosi IV. Un giorno incontrandolo,
gli chiese come stesse. Carter prese a parlare di sé senza reticenze:
quello che guadagnava era appena sufficiente per non morire; in
Inghilterra, però, non sarebbe tornato, poiché in Egitto era più
facile essere poveri. Theodore volle sapere se non avesse piacere di
scavare e di disegnare per lui dietro compenso, naturalmente. Si
trattava, nella successiva stagione di scavo, di copiare le iscrizioni e
di disegnare tutti i reperti. L’archeologo disoccupato non aveva altra
scelta ;: dovette accettare, anche se era un lavoro deprimente. Le prime
settimane di quella nuova attività risultarono frustanti. Davis, che,
praticamente nella Valle poteva scavare
dove voleva, aveva fatto affondare i picconi in una valle laterale. Dal
1° novembre al 20 dicembre 1904 fece rimuovere enormi quantità di
sabbia e di roccia, ma senza ottenere alcun risultato: la matita di
Carter rimase completamente inoperosa. Dopo una breve vacanza in
occasione delle feste natalizie e di capodanno, Howard e l’ispettore
Quibell trovarono un piccolo spiazzo all’imbocco della Valle dei Re,
tra la sepoltura di Ramses III (1184-1153) e quella di Ramses XI
(1099-1070) – la quale, a quel tempo, veniva
ancora attribuita a Ramses XII, poi rivelatosi inesistente. In
quei giorni Gaston Maspero, direttore generale alle Antichità, annunciò
che sarebbe giunto in visita a Luxor. Ricordandosi che era stato proprio
Maspero a silurare Carter, Davis fece sapere all’inglese che nei
giorni successivi si sarebbe dovuto tenere lontano dalla
Valle; bisognava evitare qualsiasi confronto. Forse Maspero non
doveva neppure sapere che l’ex ispettore disegnava per Theodore. Il 6
febbraio 1905, vedendo in lontananza
Davis avanzare nella Valle a dorso di somaro, il caposquadra gli
corse incontro gridando: “un gradino, un gradino!” In fondo alla
buca gli operai avevano scoperto un gradino di pietra, Da esso,
inequivocabilmente, cominciava una tomba. Era l’ultima dimora di Tuja
e Juja. Carter guardava l’avvenimento da lontano, ma non appena
Maspero se ne andò Carter volle vedere di persona ciò di cui aveva
soltanto sentito parlare: eseguì gli schizzi e i disegni
che poi Davis, nel 1907, avrebbe fatto pubblicare all’editrice
londinese Archibald Constable and Co. Ltd. L’opera di Howard
ebbe una grande importanza: fino a quel momento, infatti, la
tomba di Juja e Tuja era l’unica ritrovata con suppellettili
originali. Una volta all’anno la Commissione governativa per le
Antichità presieduta da Maspero si riuniva e concedeva i permessi di
scavare, a patto che metà dei reperti venissero consegnati. Maspero volle dare una mano a Carter. Il licenziamento era avvenuto
in seguito a pressioni politiche; ma egli non aveva dimenticato le
capacità del giovane. Anche allora aveva fatto di tutto per non
mandarlo via, pregandolo con insistenza di presentare le scuse. Così lo
presentò a Lord Carnavon.Quando s’incontrarono per la prima volta, i
loro occhi rimasero piuttosto ostili; eppure per sedici anni sarebbero
stati insieme questi due uomini così esteriormente simili, ma anche
profondamente diversi. Carnavon aveva allora quarantuno anni, era
ricchissimo, pieno di vita; per lui l’archeologia era un affascinante
modo di passare il tempo, l’occasione per mettere insieme oggetti da
mostrare: Carter, trentatré anni, era povero, rassegnato, chiuso;
un’esistenza fallita, alla quale era stato sottratto ogni valore.
All’inizio ci fu una specie di amore-odio; avevano bisogno l’uno
dell’altro. La paga giornaliera di Carter (una sterlina britannica)
era annualmente arrotondata a quattrocento: accontentarsi, lavorare e
tacere. Nella primavera del 1907 Maspero diede ai due inglesi il
permesso di scavare in un territorio che si trovava a nord-ovest dal
punto in cui Carnavon aveva fino allora cercato, a Der el-Bahari. Subito
il primo giorno il Lord fece chiaramente capire che era lui il padrone,
lui che comandava; Carter doveva soltanto fungere da consulente.
Carnavon, non solo stabiliva quando, ma anche dove scavare. Mostrava con
orgoglio il diario, su cui tra l’altro si legge:”Scavavamo da dieci
giorni a Der el-Bahari, quando rinvenimmo una sepoltura inviolata. Aveva
un aspetto straordinariamente moderno. Vi erano diverse bare. Una di
esse attrasse particolarmente la nostra attenzione: era bianca, dipinta
con cura, aveva una coltre funebre e, ai piedi, un mazzo di fiori. Per
venticinque secoli nessuno le aveva toccate. Dimenticate. Non tardammo a
scoprire perché gli spogliatori avessero risparmiato quel sepolcro: era
completamente privo d’oggetti di valore; evidentemente le casse da
morto appartenevano a povera gente che, insieme con il loro avevano
investito in esse anche tutto il denaro dei parenti. Fatti i funerali
non era rimasto più nulla. L’insuccesso pieno con cui si concluse la
prima campagna di scavi fece capire a Carnavon che, come minimo,
bisognava utilizzare l’esperienza di Carter e consentirgli di sceglier
dove affondare i picconi. Il Lord comunque le redini non volle mollarle.
Per l’anno successivo individuò tre punti di scavo che gli parvero
promettenti: 1° pochi metri a nord della moschea; 2° una borgata ancor
più a settentrione, tra i tumuli del villaggio di Dra Abu el-Nagga e la
terra coltivabile; 3° un territorio nella parte settentrionale di Der
el_Bahari. L’attesa di Carnavon era grande. Si cominciò a scavare
pochi metri a nord della moschea. La prima settimana passò senza che
nulla venisse alla luce;anche la seconda settimana si rivelò un
fallimento, il Lord chiamò Carter a rapporto . Howard lo pregò di
avere pazienza. Era abbastanza sicuro di essere sulla strada giusta. I
nativi, e, specialmente gli abitanti di el-Lurna, avevano parlato di una
tomba, di cui avevano avuto notizia; ciò significava che la sepoltura
esisteva; magari era stata da loro stessi già depredata da gran tempo e
tutto era già stato venduto al mercato nero. Continuò a cercare.
All’inizio della terza settimana, tra ingenti masse di macerie,
comparve la tomba. Pur essendo quasi vuota, risaliva alla diciottesima
dinastia; le iscrizioni e i rilievi perfettamente conservati le
conferivano un’importanza notevolissima. Da essi si potè dedurre che
si trattava dell’estrema dimora di Teta-Ky (il figlio di un re). Oltre
a numerose scene, essa conteneva un rilievo a figura intera della regina
Ahmes-Nofretari, madre del faraone Amenofi I, una delle poche sovrane
che in vita sia stata venerata come una dea. Una grande quantità di
figurette funebri lignee e piccole bare per mummie anch’esse di legno
(evidentemente i tombaroli le avevano ritenute prive di valore), fecero
sobbalzare il collezionista Carnavon: finalmente aveva trovato qualcosa!
Per tre giorni Carter e i suoi operai esplorarono il sottosuolo a circa
centocinquanta metri dall’imbocco vallivo di Der el-Bahari (in
direzione nord-est), poi scoprì qualcos’altro: una tomba della XVII
dinastia. Non trovando il nome del possessore ed essendo quella la nona
sepoltura della zona, Carter la contraddistinse con il numero nove. Fu
necessario rimuovere un enorme mucchio di macerie e di cocci per rendere
possibile l’accesso. Trovò dapprima qualche mummia spogliata: i
violatori ne avevano disturbato l’eterno riposo. Sulla soglia
dell’anticamera giacevano due tavolette di legno, che Carter prese in
attento esame: sullo strato di gesso che le ricopriva era dipinta una
scrittura a caratteri ieratici. Howard chiese aiuto a Francis Llewellyn
Griffith, egittologo di Oxford, uno dei linguisti più brillanti
dell’epoca. Disse a Carter che quello che aveva trovato aveva
un’importanza storica straordinaria e mostrandogli le tavolette gli
disse: “ E’ la storia del generale Kamose, che ha liberato
l’Egitto dalla dominazione degli hykos. Un documento
importantissimo”. Carnavon non guardò al ritrovamento con particolare
entusiasmo: non erano oggetti da collezione; si trattava di reperti che
interessavano soltanto dal punto di vista storico. Nell’aprile del
1908, finita la stagione degli scavi, la tomba numero 9 fu nuovamente
riempita di detriti. Carter, che si era imitato ad esplorarne l’antica
camera, credeva che nella nicchia del sarcofago potesse esserci il
grosso del tesoro e temeva che venisse rubato. Scrive Howard:” Ma nel
1909, per aprire la camera principale, dovemmo scavare parecchio,
soprattutto perché il mucchio di macerie era molto alto e franava
continuamente. Non trovammo che qualche pentola, simili a quelle
rinvenute in anticamera; una bara per bambino, troppo rovinata per poter
servire a qualcosa. La tomba consisteva in uno spiazzo, al centro del
quale si trovava l’ingresso di un corridoio lungo sei metri e scavato
nella roccia che conduceva a una camera rettangolare (probabilmente il
morto doveva usarla come magazzino). Sul lato ovest della camera c’era
un pozzo profondo circa tre metri, attraverso cui si poterono
raggiungere altri due locali sovrapposti. Per me non è facile
immaginare che la massa di cocci trovata fuori del sepolcro gli
appartenesse tutta: esso era troppo piccolo. Suppongo che in gran parte
provenga da vicine tombe, forse più grandi. La supposizione di Carter
doveva rivelarsi fondata. Pochi giorni dopo, q auliche centimetro di
profondità, gli operai urtarono contro un muro, il cui stato di
conservazione risultò ottimo. Era di pietre, e Carter ne portò alla
luce prima dieci metri, poi venti ed infine quaranta metri. Il muro,
largo due metri e sessanta, divenne sempre più lungo, fece gomito e
comparve la sagoma di un edificio. A nord dissotterrano l’accesso. Sul
lato interno, i blocchi di pietra lavorati testimoniarono che,
originariamente, essi avevano fatto parte di un complesso più antico e
che erano stati utilizzati per realizzare il nuovo progetto. Per
liberare il poderoso complesso edilizio, ci volle tutta la stagione
1909. Molti i segreti da svelare. Egittologi accorsi da ogni parte del
mondo stettero a guardare le mura perimetrali, senza potersi spiegare
che significato avessero e a che cosa servissero. Carnavon fu
entusiasta: ” Essi, se collegati ad un unico blocco con il nome di
Senenmut (il celebre architetto della sovrana Hatshepsut), dimostravano
che l’opera muraria rinvenuta risaliva al periodo in cui la sovrana
aveva regnato”.
Il suo tempio a terrazzi doveva in un modo o nell’altro essere
collegato con la costruzione scoperta da Carter. A confermarlo, bastava
la strada che vi giungeva perfettamente diritta. Carter si ricordò
degli edifici di Gise e di Abusir, e ad un tratto gli furono chiari sia
il significato sia lo scopo dell’edificio. Si trattava di uno dei
cosiddetti templi vallivi e fungeva da edificio-ingresso del tempio
principale. Da qui il visitatore, percorrendo il viale delle sfingi (le
statue avevano tutte le teste di Hatshepsut), raggiungeva l’entrata
del tempio vero e proprio, un pilastro oggi scomparso. C’era una cosa
che Howard non sapeva ancor: la linea che collegava il tempio vallivo
con quello terrazzato non era che il prolungamento dell’asse templare
karnakiano di Amon. Il perché è rimasto finora n enigma. Sotto le
fondamenta del tempio vallivo Carter s’imbattè in parecchie tombe
semplici, scavate nella roccia massiccia. Nessuna era sfuggita agli
spogliatori. Alcune ne avevano ricevuto la visita persino due volte,
poiché gli esumatori trovarono tracce che risalivano al Medio Impero e
relitti del periodo in cui aveva regnato Hatshepsut. Frammenti di una
medesima lapide commemorativa vennero alla luce in due diverse tombe
(numero ventisette e numero trentuno). Nel sepolcro contrassegnato, col
numero venticinque c’era una bara ancora chiusa, che però era priva
di ornamenti; sulla mummia non si vedevano indicazioni circa il nome del
defunto e l’epoca in cui era vissuto. L’interesse di Carnavon fu
attratto da uno specchio di bronzo col manico d’avorio e da una
collana d’oro e di pietre dure; tutto qui. Howard Carter, invece, si
occupò di un paio di centinaia di pezzetti di legno, di piastrelle
d’avorio, di schegge di cedro e d’ebano. L’esperienza gli diceva
che erano componenti di portagioie, i quali di solito avevano
iscrizioni, ragguagli sul possessore. Mentre il Lord perlustrava le
sepolture Howard si appartò per un paio di giorni e si dedicò a
ricomporre l’antichissimo rompicapo. Ci riuscì. La sua ipotesi si
dimostrò fondata. Il portagioie, oltre ad essere finemente lavorato,
portava il nome di Amenemhet IV, un faraone della XII dinastia quasi
completamente sconosciuto, e il nome di Kemen, colui che “amministra
le dispense”. Sul coperchio del portagioielli c’era un’invocazione
a Sobek, l “signore di Hent”, una località del Fayyum, dove i
sovrani della XII dinastia furono particolarmente attivi.Nel 1912, dopo
cinque anni di lavoro a Tebe, Carnavon si convinse che era inutile
continuare a cercare nella Valle dei Re e chiese di poter scavare
altrove, in qualche località del Basso Egitto, preferibilmente del
delta. Le autorità del Cairo gli indicarono Xois, alla foce del Nilo.
Carter seguì il datore di lavoro controvoglia; ma l’avventura durò
soltanto due settimane. Fu come se l’avessero deciso gli dei:
centinaia di cobra velenosi presero le difese dell’antica Xois; ogni
colpo di piccone rischiava di costare una vita; inoltre il caldo era
tremendo. Carnavon rinunciò. Per il Lord si pose quindi il problema se
valesse la pena chiedere una nuova concessione. Le località più
appetibili si trovavano saldamente in mano ai francesi, ai tedeschi o
agli americani, ed erano Samara, Amarna, Tebe. Secondo Carter, la
possibilità di scoprire qualcosa nella Vale era tutt’altro che
esaurita. Ma Carnavon si disse contrario. Howard non mutò opinione,
riuscì a convincere il capo a fare un nuovo, un ultimo tentativo. Il
Lord aveva appena fatto
richiesta del permesso di tornare a cercare nella Valle dei Re, che scoppiò il primo conflitto mondiale. Carter fu
tutt’altro che risparmiato dal primo conflitto mondiale, ma tra tutti
gli archeologi egli ebbe la sorte migliore. In qualità di king’s
messenger (messaggero del re), come corriere diplomatico operante nel
Vicino Oriente, Carter aveva la sua base al quartier generale del Cairo.
Batteva centimetro dopo centimetro le pareti e restava in ascolto, come
se aspettasse che dall’interno gli rispondessero. Allora in compagnia
di qualche fellah, si trasferì a due chilometri di distanza, in un
canalone rupestre situato nel deserto libico. I sentieri incassati tra
le cime, i resti di antiche capanne di pietra e le scritture ieratiche
rupestri avevano fatto nascere in Howard il sospetto che in quel luogo
avessero operato funzionari e lavoratori della necropoli tebana. “Le
mie ricerche iniziali “, scrive Carter nel suo resoconto, “ si
limitarono a una generale ricognizione della zona, a partire da sud-est
fino a nord-ovest, procedendo lentamente, una valle dietro l’altra.
Con l’aiuto di un modesto staff eseguii dei sondaggi, dovunque
ritenessi possibile ‘esistenza di una tomba, non importa se già
spogliata dai predoni che sapevo attivissimi tra i nativi. Accanto alle
scritte rupestri ho fatto scolpire le mie iniziali e la data: H.C. 1915.
Chiunque cerchi dopo di me deve sapere quando è stato fatto l’ultimo
tentativo di annotarle o di copiarle. Nelle valli laterali Howard scoprì
diverse tombe nelle rocce e numerose iscrizioni, tutte però di
importanza minima. Bisogna anche aggiungere che egli non aveva riposto
eccessive speranze nell’impresa, essendo il Wadi troppo fuori mano,
troppo “sterile”. I sovrani erano stati sepolti nella Valle dei Re;
i nobili e i ricchi dormivano il sonno eterno a Der el-Medina o al
el-Kurna. Lì c’era quindi
ben poco da dissotterrare. Tuttavia nel Wadi e Taka e Zeide, Carter non
cessò neppure per un attimo di cercare. Nulla però, assolutamente
nulla trovò che recasse traccia del lavoro umano. Lo stesso Carter si
sentiva spinto da una forza sconosciuta che lo faceva arrampicare sulle
pareti a centinaia di metri di altezza. Arrivato in alto, si soffermava
ad osservare il canalone e ascoltava i ciottoli rimbalzare. Il fragore
di solito durava qualche secondo. Una
volta tuttavia il volo di un sasso fu troncato a metà rispetto a quello
degli altri. Carter guardò in basso, sporgendosi per riuscire a vedere
in fondo alla parete perpendicolare. Di lassù potè rendersi conto di
dove il sasso si fosse fermato: si trattava di una piccola sporgenza
rocciosa. Ma scorse qualcos’altro: un gradino pietra, che era senza
dubbio il primo di una scavata nella roccia: A settanta metri dal
fondovalle, a quaranta metri dalla cima, una scala penetrava nella
montagna. Chi l’aveva nascosta e collocata in posizione così
disagevole? Servendosi di una fune, Carter si lasciò calare giù venti
metri, fino ad una sporgenza larga cinque, quindi – attraverso un
crepaccio – scese ancora più sotto. Si trovò davanti la scala di
pietra. Ma la speranza di trovarsi in un attimo nella camera di un
sepolcro zeppa d’oro andò delusa: il corridoio che ai piedi della
gradinata sembrava inoltrarsi in linea retta nel cuore della montagna
era ingombro di macerie dal pavimento al soffitto, il quale era altro
due metri e venti. Sotto di esso le talpe umane avevano trapanato un
cunicolo, attraverso cui si poteva avanzare strisciando sulla pancia.
Howard non pensò due volte a dove la galleria potesse sboccare, o che
significato o scopo avesse: si armò di lampada a carburo e, spingendola
avanti, penetrò come un serpente verso l’ignoto. Il cunicolo diventò
interminabile: curve, salite, discese: Non poteva che essere stato
scavato dai violatori, un cunicolo-sonda. Dopo un’avanzata di
ventinove metri, Howard trovò il cunicolo interrotto. Gli spogliatori
si erano fermati lì. Certo di essere sulle orme di un’importante
scoperta Carter decise di sgomberare il corridoio. Gli uomini che aveva
sarebbero bastati. I detriti potevano benissimo rovesciarli nella
valle,a due passi. Il problema era piuttosto, per lui e per i suoi
collaboratori, quello di raggiungere incolumi il posto di lavoro. Howard
risolse il problema in maniera tecnicamente complicata: con l’ausilio
delle bestie da soma, fece trascinare in cima alla roccia un po’ di
travi, da dove le calò
sulla sporgenza rupestre antistante all’imbocco, per costruirvi una
struttura portante un braccio con un paranco in grado di sollevare dal
fondovalle un uomo per volta e di riadagiarvelo. Facendo lavorare due o
tre persone per turno, Carter organizzò un ciclo continuo ( giorno e
notte per tre settimane). Cinque gradini di pietra conducevano ad un
portale, da cui partiva un corridoio di diciassette metri che,
leggermente in discesa, penetrava nel monte fino ad un’anticamera di
nove mq.; attraverso un breve passaggio sulla destra si accedeva ad una
camera del sarcofago (5,40 x 5,30 altra 3 metri). Al centro di questa
camera, dopo averla liberata da una grande quantità di macerie, Howard
trovò un sarcofago giallo di arenaria. Era vuoto. Il coperchio stava
appoggiato ala lato più corto. Numerose geroglifici davano notizia del
possessore di quel labirinto irraggiungibile. “La principessa
ereditaria, piena di grazia e di benevolenza, sovrana di tutti i Paesi,
figlia e sorella del re, consorte di dio, grande consorte regale,
sovrana dei Due Paesi, Hatshepsut”. Carter era frastornato. Ma non era
la sovrana, la cui tomba egli – tredici anni prima – aveva
faticosissimamente dissepolto nella Valle? Esaminando più a fondo la
camera che ospitava la bara, Carter riuscì a chiarire l’enigma.
Scrive: “Non vi era la
minima traccia che vi fosse stato seppellito qualcuno, niente, tranne il
collo di due giare, di quelle usate dai costruttori di tombe. Tutto
stava a testimoniare che i lavori, ad un certo punto, non era proseguiti
…”. Ecco il motivo: Hatshepsut si era fatta costruire quel solitario
sepolcro quando ancora era la moglie del fratellastro Thutmosi II: Morto
il marito (30 aprile 1940 a.C.) e assunti i poteri di faraone,
l’eccentrica regina pretese una tomba nella Valle dei Re (a Biban el
Moluk) e ordinò che quella a nido d’aquila nella roccia venisse
abbandonata. Nel gennaio del 1917 Carter portò a termine i lavori nel
Wadi e Taka e Zeide. Fu richiamato al Cairo; c’era bisogno della sua
opera di corriere diplomatico. Un problema rimaneva irrisolto: il
sarcofago pesava tonnellate; come avevano fatto a issarlo fin lassù?
Detto tra parentesi: non lo si è mai saputo. Non appena ebbe compiuto
il suo dovere di soldato , Howard tornò nella Valle dei Re.
L’insuccesso di tutti gli sforzi precedenti lo rese ancor più
convinto che doveva lavorare con intensità e tenacia . Per sondare il
terreno con nuovi scavi gli mancavano i mezzi finanziari e la
manodopera. Senza un’intesa col Lord non poteva cominciare. Per non
sprecare tempo, costruì una casa sulla strada che conduceva alla Valle;
doveva servire a lui e a Carnavon da abitazione-ufficio-laboratorio. Fu
Howard steso a progettarla ; l’esecuzione dell’opera venne affidata
ad alcuni vecchi di el-Kurna inabili alla guerra.Le attività
archeologiche e scientifiche, a causa della guerra, per lungo tempo
rimasero bloccate. Anche Carter dovette limitare i suoi sondaggi.
Sebbene infuriasse il conflitto e fosse da suicidio affrontare il mare,
Carnavon cercò più volte di raggiungere il paese del Nilo.Finalmente
giunse al Cairo, dopo un avventuroso viaggio, esattamente il giorno in
cui i turchi attaccarono il canale di Suez. Senza indugio volle parlare
con Carter. La sua preoccupazione era in quale località scavare. Howard
estraendo dalla tasca della giacca una carta con la planimetria della
Valle gli indicò un punto segnato con una croce. Carnavon era deluso!Ma
come? Ancora in quella Valle? Pochi giorni dopo la fine della guerra
’15-’18 s’imbarcarono per raggiungere l’Alto Egitto. Carte
riprese gli scavi dove i aveva interrotti quattro anni prima, a poca
distanza, ma gli uomini di el-Kurna frugarono per un paio di giorni
soltanto; la roccia li arrestò. Il conte di Carnavon riteneva che, dal
punto di vista archeologico, la Valle dei Re non avesse più futuro.
C’era, disse il Fayyum , la gigantesca oasi al limitare del deserto
libico: migliore come clima, meno inaccessibile, più ospitale
dell’arida Valle piena di sepolture. Avendo notata la contrarietà del
compagno, Carnavon provvide personalmente a coordinare i preparativi
della spedizione. Tutto era pronto per la partenza già fissata, allorché
nel Fayyum scoppiò una rivolta che spinse il Paese verso l’anarchia.
Per l’Europa c’era soltanto un luogo, dove esisteva una certa
tranquillità: il Cairo. Carnavon dovette rimandare la data della
partenza per il Fayyum; Carter non se ne rammaricò. Al Cairo il Lord
aspettò pazientemente per qualche settimana, poi si rese pienamente
conto che era impensabile dare inizio ai lavori entro quell’inverno:
fece ritorno a Londra. La grande occasione di Carter era venuta. 5
Novembre 1922. Londra. Alan Gardiner professore di lingue orientali,
ebraico e arabo, è richiestissimo. Segretario dell’Egypt Exploration
Society, sta lavorando ad una grammatica egiziana. Squilla il telefono.
E’ Lord Carnavon. “Senta”,
dice Carnavon”ho ricevuto un telegramma da Carter: “lei ha
finalmente trovato qualcosa di meraviglioso nella Valle dei Re. Tomba
straordinaria con sigilli intatti. Fino suo arrivo di nuovo
interrata”. “Crede che possa trattarsi della sepoltura di
Tut-ankh-Amon?” domandò il Lord impaziente.
Gardiner gli rispose che non aveva conoscenze precise riguardo la
XVIII dinastia, ma la cosa non era da escludere. Carnavon gi chiese di
partire per l’Egitto con lui, ma Gardiner gli rispose che prima del
nuovo anno non avrebbe potuto partire.Ma cosa era successo nella Valle
dei Re? Carter aveva trascorso l’estate del 1922 a Londra, col morale
a pezzi. A giudicare dall’atteggiamento di Carnavon, il Lord non era
più disposto a finanziare scavi nella Valle.Riconobbe meritori gli
sforzi compiuti dall’esumatore in quegli ultimi anni, “ma”
aggiunse senza giri di parole,” tenuto conto delle difficoltà
economiche di questo dopoguerra, mi è impossibile continuare a dare il
mio appoggio ad una attività dimostratasi praticamente sterile”.
Chiuso. La carriere dell’archeologo Carter era finita. Senza pietà il
Lord gli aveva comunicato proprio ciò che Howard temeva. “Mylord”,
fece Carter emozionato, “il persistente insuccesso non ha scalfito la
mia convinzione che la Valle nasconda almeno una tomba, senz’altro
quella di Tut-ankh-Amon”. “Ci credo”, disse Carnavon, “ma
…“Lei sa che ci sono le prove”, lo interruppe Carter e gli stese
davanti una carta. Carnavon la conosceva. Su di essa l’esumatore aveva
segnato gli scavi e le ricerche di tutte le stagioni, per ogni metro
quadrato di terreno. Vista in maniera superficiale, quella mappa poteva
dare l’impressione che tutte le possibilità di scavo fossero davvero
esaurite. Ma Howard indicò un piccolo triangolo e disse:” Sotto
l’ingresso della tomba di Ramses IV ci sono resti di fondamenta in
muratura appartenute ad antiche capanne di pietra, presumibilmente
edificate dai costruttori per esaminare il terreno sottostante. Soltanto
quando avrò sgomberato questo triangolo mi convincerò che il mio
lavoro nella Valle è finito”. Un’altra stagione di scavi da
finanziare, dunque. A Carnavon parve non avesse senso. Rifiutò. Howard
lo pregò di lasciarlo almeno cercare a proprie spese, utilizzando però
la concessione intestata al Lord, gli operai e l’attrezzatura.” Se,
finita la stagione, non avrò trovato niente, abbandonerò la Valle dei
Re con la coscienza tranquilla. Ma se dovessi fare una scoperta, essa
apparterrà a lei, come sta scritto nella concessione”: Carnavon si
sentì commosso. Lasciar scavare Carter e addossargliene i costi? No,
non poteva. Gli strinse la mano:” D’accordo, Howard, arrivederci
nella Valle, ma a mie spese”: Carter ne fu felice. Non avrebbe mai
sperato di riuscire ad ottenere così tanto. Carter si rese conto che
quella era la sua ultima stagione di scavi: o trovava il faraone
dimenticato o il fallimento avrebbe posto fine alla sua carriera di
archeologo. Arrivato a Luxor il 28 ottobre 1922, Howard rimise insieme
la vecchia squadra di scavatori. I lavori ebbero inizio il primo
novembre. Sotto l’ingresso sepolcrale di Ramses IV, liberate dalle
macerie, vennero alla luce le fondamenta delle capanne erette tremila
anni prima dai costruttori di necropoli.Carter le fece rimuovere. Il 3
novembre le fondamenta non c’erano più. Il mattino seguente, quando
giunse in cantiere, non udì il consueto rumore dei picconi e dei
badili: doveva essere accaduto qualcosa. Il caposquadra gli fece strada
e gli mostrò un gradino nella roccia, proprio dove erano state
asportate le fondamenta. Anni di insuccessi avevano reso scettico l’esumatore:”Stentai
a credere che avessimo finalmente scoperto una tomba”: Lavorarono come
matti fino al pomeriggio del dì seguente per disseppellire dodici
gradini e la parte superiore di un portale murato. Howard non riusciva a
capacitarsi: in trent’anni aveva trovato numerosi sepolcri,mai però
col portale sigillato. La malta millenaria portava impressi i sigilli;
Carter riconobbe quelli della città dei morti: lo sciacallo con nove
prigionieri; gli altri non riuscì a decifrarli, suppose che
appartenessero a Ramses IX: Grande divenne la tensione. Possibile che
proprio lui avesse
successo, là dove per decine di secoli tutti avevano fallito? Come
poteva lui scoprire un’estrema dimora faraonica inviolata? A Carter
sembrò che si lavorasse troppo lentamente. Egli, che in passato era
stato la calma in persona, fu preso da una sorta di febbre: bisognava
accelerare: sbadilò e trasportò lui medesimo le ceste colme di
detriti. Poi spinse da parte i collaboratori, afferrò martello e
scalpello, praticò un foro nella parete sotto la trave trasversale
superiore, in modo da poter introdurre una lampadina elettrica. Poi,
schermandosi gli occhi con la mano, diede uno sguardo dentro. Si sentì
deluso, ma anche incoraggiato. Si vedeva un corridoio zeppo di macerie.
Prova lampante che la sepoltura non aveva mai subito l’assalto dei
violatori? Nel corso del Nuovo Impero era costume saturare con detriti i
passaggi, dopo aver tumulato la mummia proprio per proteggerla dagli
spogliatori. Sebbene Howard non sapesse ancora di chi fosse
quell’estrema dimora, gli costò
non poco non sfondare subito la parte che occludeva il portale.
Ma, invisibile, dietro di lui c’era il conte di Carnavon; il denaro
era suo, suoi erano i soldi con cui da quindici anni viveva. Nel
frattempo era calato il crepuscolo. Carter ordinò agli operai di
ricoprire i gradini con i detriti. Più che reale era il pericolo di
un’aggressione notturna. Si allontanò dalla sepoltura soltanto quando
ebbe assegnato i turni di guardia. Il mattino successivo fece spedire da
Luxor il telegramma che già conosciamo. Carnavon rispose immediatamente
che sarebbe venuto più presto possibile. Nel frattempo Howard portò a
termine i preparativi. Pur avendo imposto agli operai di non dire una
parola, sapeva che il segreto avrebbe raggiunto Luxor nel giro di
ventiquattro ore. Il 18 novembre prese il treno per il Cairo: recava
personalmente all’Ufficio Antichità la notizia del ritrovamento, ma
gli occorrevano anche arnesi e materiale da imballaggio. La speranza di
incontrare il Lord nella capitale non si realizzò. La nave era in
ritardo. Howard fece ritorno a Luxor. Carnavon ed Evelyn arrivarono due
giorni dopo. Era il 24 novembre 1922. I gradini furono subito liberati.
Sedici scalini di pietra, modesti, forse, ma che gli facevano salire la
china della felicità. Ora che il portale non era più murato scorse, in
basso, altri sigilli. Gli erano sfuggiti, perché i quattro ultimi
gradini li aveva dissotterrati dopo. Cinquanta centimetri più sotto
comparvero anelli con il nome, il segno del sole e lo scarabeo.
Tut-ankh-Amon, non c’era dubbio! Il Lord e l’archeologo si
abbracciarono. Pochi minuti dopo essersi abbracciati, Howard indicò
spaventato il muro che sbarrava l’ingresso. Non disse una parola,
tenne soltanto il dito puntato verso una macchia sul portale, in alto a
destra. Anche il Lord la notò, illuminata dai raggi obliqui del sole:
un buco, mezzo metro di diametro, intonacato in epoca successiva, forse
addirittura due volte. Nessuno sarebbe riuscito ad esprimere ciò che lo
sventurato esumatore provava in quel momento. Trionfo e sconfitta,
indissolubilmente intrecciate. La disperazione di Howard era ancora più
grande di quella del Lord, al quale infatti era sfuggito un particolare:
nel liberare gli ultimi gradini, erano venuti alla luce dei frammenti e
uno scarabeo con i nomi di Thutmosi III, di Amenofi III e Akhenaton. Che
si trattasse di un nascondiglio di suppellettili occultate da qualche
tombarolo? Il 25 novembre 1922 il
muro che chiudeva il portale fu demolito. Il sospetto che il sepolcro
fosse già stato violato trovò conferma. Impossibile non accorgersi che
il corridoio era
pieno di macerie di colore diverso. La volta era alta un paio di metri;
nell’angolo in alto a sinistra i predatori si erano scavati un
cunicolo, dal quale però – osservò Carter – non avevano potuto far
passare che piccoli oggetti.Verso le quindici del giorno dopo, rimossa
la massa dei detriti, a otto metri e mezzo dal portale d’ingresso
comparve una seconda porta sigillata. Anch’essa aveva un buco tappato
con intonaco diverso, ma era così piccolo, che sarebbe stato
faticosissimo per un uomo penetrarvi. Quando Howard vide sui sigilli
l’anello con il nome di Tut- ankh-Amon, ricominciò a sperare. Chissà,
forse l’ultima dimora del Dimenticato era ancora intatta. Carnavon
vide che le mani di Carter tremavano, mentre con delicatezza si
accingeva a scalpellare la parte in alto a sinistra della porta
sigillata. Dapprima non vide nulla. Poi di punta, con una barra di
ferro, prese a percuotere il buco. Risuonò il vuoto. La camera da cui
il muro lo separava non era piena di detriti. Howard accese una candela,
la tenne davanti alla piccola apertura. Il soffio d'aria calda
proveniente dall'interno fece vacillare la fiammella. Contrariamente a
quel che aveva temuto, di gas velenosi non ce n'erano. Per poter
introdurre la candela, Howard dovette allargare la breccia. Ci volle
tempo, parecchio tempo. Finito che ebbe, Carnavon ed Evelyn guardarono e
rimasero di stucco. Spingendo avanti con la sinistra la candela, Carter
introdusse la testa più che potè con circospezione. Come da sotto un
velo emersero adagio adagio cose favolose: strani animali che lo
fissavano, uomini a grandezza naturale armati di bastone sbucarono
dall'ombra, preziosi forzieri, vasi di luminoso alabastro, carri in
sosta che attendevano i cavalli, leggiadri divani con teste e zampe
d’animali invitavano a sdraiarsi. Dopo aver consentito a Carnavon di
dare un’occhiata, Carter demolì il moro quasi completamente. Nel
frattempo era stato approntato l’impianto elettrico, ed essi stessero
a guardare estasiati come bambini la favola di una vita che si era
svolta tremiladuecentosessanta anni prima. Scrisse Carter: "Nostra
prima impressione è che la camera da noi già aperta sia soltanto
un’anticamera del mausoleo faraonico; avendo trovato infatti i sigilli
della porta, pensiamo di trovare Tut. I papiri di Torino dicono –
descrivendo la tomba di Ramses IV – che era uso chiudere il cadavere
del re in tre bare, oltre che nel sarcofago, e che quest’ultimo veniva
a sua volta serrato in tutta una serie di casse da morto. Poiché la
porta non era aperta – tranne un piccolo buco nel muro praticato dai
tombaroli e tappato dai necroguardiani di Ramses IX - , abbiamo fondato
motivo di sperare che lo stesso faraone non sia stato violato, così
come sono stati trovati intatti gli oggetti d’oro ..”. Senza
esitazioni, Howard continuò: “ La scoperta è particolarmente
importante proprio perché, per la prima volta, si tratta di una
sepoltura reali con le porte non manomesse, sigillate dagli ispettori di
Ramses IX: Naturalmente grande è il nostro desiderio di rompere altri
sigilli; prima, però, dobbiamo sistemare tutti i reperti
dell’anticamera. Finchè non abbiamo finito, preghiamo gli archeologi
di tutto il mondo di avere pazienze. Tra un paio di mesi speriamo di
poter cominciare l’esame della altre camere”. Stupisce come Carte
descrisse i particolari della futura scoperta. Però commetteva un
errore quando parlava dei sigilli; mon erano ramessidi quelli del
portale d’ingresso; buco, sua otturazione e intonacatura erano
avvenuti prima. Anche i sigilli successivamente apposti portavano il
nome di Tut-ankh-Amon. L’indescrivibile disordine dell’anticamera
provava che gli spogliatori l’avevano messa a soqquadro: fregi
strappati, forzieri rotti, legni denudati dei rivestimenti aurei. La
cupidigia umano aveva impresso il suo marchio. Evidentemente i gangster
dovevano essere stati disturbati in pieno delitto. Di qui il disordini.
Ma chi erano gli scassinatori di sepolcri? Perché violavano le tombe?
Soltanto i sacerdoti e i costruttori di necropoli di Der el-Medina
conoscevano i segreti delle sepolture. Mentre i sacerdoti erano tenuti a
trasmetterli ufficialmente ai successori, gli edificatori di tombe, se
divulgavano le notizie concernenti le estreme dimore regali agivano
contro la legge; la corruzione deve aver avuto un’importanza
determinante. Quando gli antichi funzionari cimiteriali incaricati di
sorvegliare la Valle si accorsero che la sepoltura di Tut era stata
violata, murarono con mattoni e gesso i buchi e impresero il loro
sigillo a fresco: In un rapporto inviato al “Times”, Carnavon aveva
affermato che i sigilli delle porte erano di Ramses IX e che quindi lo
scasso doveva essere avvenuto in quel periodo (1127-1109). James Henry
Breasted, più tardi incaricato da Carter di esaminare i sigilli, stabilì
che quelli attribuiti a Ramses IX erano in realtà – anche se in
cattivo stato di conservazione – di Tut-ankh-Amon. Bisognava tener
presente che il sepolcro del re-bambino era già dimenticato quando
regnava Ramses VI (1142 – 1135). Soltanto così trova spiegazione il
fatto che coloro che edificarono nella roccia la tomba sesto faraone
ramessida, eressero le capanne sull’ingresso sepolcrale di Tut, la cui
estrema dimora era sicuramente stata violata subito dopo la costruzione.
L’impresa Tut, Carter non tardò ad accorgersene, andava al di là
delle sue forze e delle sue capacità. Ma fu tutt’altro che facile
convincere Carnavon che era necessaria un’intera èquipe di
archeologi, se si voleva esaminare con esattezza scientifica la
sepoltura. L’sos di Howard venne raccolto da una spedizione del New
Yorker Metropolitan Museum, che, guidata da Arthur Mace, Stava portando
a termine gli scavi iniziati nel 1906 a Lisht. Lythgoe (capo della
sezione egizia di quel museo) diede il suo assenso telegrafico.
L’impresa Tut, da privata, diventava una società a responsabilità
limitata. Ottima fu l’intesa tra Mace e Carter. Per due anni egli fu
il suo miglior sostegno, quando si trattò di superare le numerose
difficoltà che via via dovettero affrontare. Ci fu poi un altro
archeologo che si dimostrò un vero amico: l’americano James Henry
Breasted. Breasted ebbe notizia della scoperta il 7 dicembre 1922.
Partito con la nave da Abu Simbel e approdato ad Assuan, trovò ferma in
posta una lettera di Carnavon: lo informava della tomba trovata da
Carter, partì subito alla volta di Luxor. Qui giunto, sentì parlare di
tesori, di una tomba faraonica inviolata. Di più preciso nessuno non
sapeva nulla. I giornali egiziani non ne avevano ancora dato notizia.
Howard era scomparso, correva voce che fosse partito per il Cairo. James
Henry e suo figlio Charles presero due asini in affitto e si recarono
nella Valle.Passando davanti alla casa scura che Carter si era costruito
durante gli anni dei propri fallimenti, Breasted non potè fare a meno
di pensare al primo suo incontro con Howard, quasi vent’anni prima, un periodo che Carter aveva trascorso salendo e
scendendo la scala dell’archeologia. Però la convinzione che Tut
fosse sepolto nella Valle non lo aveva mai abbandonato. Nessuno più di
Howard, quindi, meritava di riuscire. Gli americani erano ancora lontani
quando scorsero la sepoltura, subito sotto l’ingresso di quella di
Ramses VI. Era circondata da militari armati di fucili. Al centro della
fossa c’era un mucchio di macerie su cui videro piantata una tavola
calcarea con stilizzato in nero il blasone dei Carnavon, opera di
Carter. Il nuovo assistente del disegnatore, A.R. Callender era seduto
con un fucile sulle ginocchia, a guardia del mucchio che evidentemente
occultava l’accesso del sepolcro. Altro non si vedeva. Il mattino
seguente, Carter e Breasted s’incontrarono all’imbarcadero sul Nilo,
dove la nave degli americani era alla fonda. Carter subito iniziò a
raccontare: “Pensi che già due volte avevo scavato a pochissima
distanza dal primo gradino. La prima volta, anni fa, quando scavavo con
Davis. Allora egli propose di scegliere un posto diverso, che offrisse
maggiori probabilità. La seconda volta, oche stagioni or sono: Lord
Carnavon ed io decidemmo di sospendere le ricerche in questa zona per
non intralciare continuamente il flusso di visitatori che vengono alla
tomba di Ramses VI”: Mentre parlava, frugò nella tasca della giacca,
tirò fuori una vecchia lettera su cui cominciò a tracciare la pianta
dell’anticamera. Poi con la matita toccò leggermente diversi punti
interni del rettangolo, facendo il nome di alcuni tesori che si
trovavano li. Breasted espresse il desiderio di dare un’occhiata alla
tomba. “Torneremo a sgomberare l’ingresso”, rispose Carter,”in
due o tre giorni applicheremo una porta d’acciaio e sistemeremo altre
cosette. Torni fra tre giorni. Tre giorni dopo, Breasted, per non
destare il minimo sospetto e per non attirare un codazzo di curiosi,
finse di fare il turista svogliato e perdigiorno. Salì il sentiero a
lui ben noto e, giunto in cima, scese il pendio roccioso. Carter lo
aspettava. La fossa aveva mutato aspetto. Al posto del mucchio di
detriti c’era un pozzo; avevano costruito una piccola baracca. Accanto
ad Howard stavano Callender, Burton, Mace ed Herbert Winlock.Scesero i
sedici gradini fino alla cancellata coperta da una tela bianca. Dentro
la tomba c’erano i fari accesi che proiettavano le sbarre di ferro del
cancello sulla tela. Se ne vedeva l’ombra. La cancellata era chiusa
con quattro lucchetti e catene. Tutti stettero a guardare Carter che
faticosamente la spalancava. Sussultarono
quando disse: “Ma come non entrate?”: Parole superflue,
certo, ma l’emozione e la tensione erano tali, che risultava difficile
per tutti agire con naturalezza; i movimenti erano impacciati, costavano
fatica. Parve che nessuno volesse accogliere l’invito; Howard si voltò
e li guardò in faccia: avevano le lacrime agli occhi. Anche Carter
piangeva. Poi cominciarono a stringersi la mano, a sorridersi,
asciugandosi le guance. Per
Howard non fu facile convincere Carnavon che non si poteva sgomberare
l’anticamera dall’oggi al domani. L’unicità dei reperti esigeva
che lì si fotografasse, disegnasse e catalogasse, prima di iniziarne la
rimozione. Il Lord giudicò eccessiva l’attesa. Tornò in Inghilterra
e pregò Carter di comunicargli la data della ripresa dei lavori. Venne
aperto il massiccio cancello, simile a quello di un carcere, che
separava l’entrata dai gradini, per portar giù le sedie. Demolita la
parte superiore del muro, apparve una sorta di parete tutta d'oro, ma
asportando il resto dell’opera muraria, si vide che si trattava di un
gigantesco forziere esterno o di un tabernacolo. Di forzieri simili se
ne era già letto sugli antichi papiri, ma quello era reale, luminoso
d’oro e d’azzurro, con un volume quasi pari a quello della seconda
camera, di cui sfiorava il soffitto. Introno, tra le pareti e i lati
dello scrigno, correva un passaggio largo una sessantina di centimetri.
I primi ad entrare furono Carter e Carnavon e subito dopo Alan Gardiner
con il figlio: “ci spingemmo fino al primo angolo a sinistra e ci
trovammo sul lato anteriore del forziere, davanti alla due massicce
porte. Carter aveva fatto scorrere il catenaccio e spalancato le due
porte. Potemmo vedere che dentro il grande scrigno esterno ce n’era un
altro, anch’esso con doppia porta a sigilli intatti. Contammo in tutto
quattro forzieri di protezione, uno dentro l’altro, ricoperti d’oro;
l’ultimo conteneva il sarcofago di pietra: potemmo però vederlo
soltanto un anno dopo”. Il vero lavoro cominciava proprio in quel
momento: recuperare i tesori. L’impresa durò dieci anni, dieci anni
di scoperte, trascorsi raccogliendo, conservando e valorizzando i
reperti. Un decennio di duro lavoro fisico, di caldo soffocante, di
intensa fatica intellettuale; dieci anni di intralci, di contese
politiche, scanditi, molestati dai visitatori. Durante tale periodo il
governo era cambiato cinque volte; altrettante era mutato il ministro
che si occupava delle Antichità egizie.Nel 1932, dopo quarant’anni di
attività in Egitto, Howard fece
ritorno a Londra. Era ammalato. L’impossibile clima del deserto, il
logorante lavoro sotterraneo, ma soprattutto gli scontri e le emozioni
derivati dalla scoperta del secolo gli avevano minato la salute:
soffriva di disturbi circolatori. Aveva cinquantotto anni, ma si muoveva
come un vecchio. Ritiratosi nella sua casa di Albert Court, senza amici,
prese a vivere come un eremita.
Sentiva che, dopo aver portato a termine il suo compito, non aveva più
nulla da attendersi dalla propria esistenza. Come al solito era di nuovo
solo; la sua epoca, che si nutriva unicamente di sensazionale, lo aveva
già dimenticato .L’unica ad avere contatti con lui negli ultimi anni
fu sua nipote Phyllis Walzer, la quale lo pregò e lo supplicò di
valorizzare le carte su cui aveva annotato con tanta cura ogni
particolare dell’impresa Tut. Ma Carter era stanco; il suo stesso
lavoro era diventato superiore alle forze che gli rimanevano.
Valorizzare le carte significava rifare tutto, ricominciare da capo, e
lui era debole, anche finanziariamente. Calcolò che per trarne una
pubblicazione scientifica occorrevano trentamila sterline britanniche.
Non si ha notizia che ciò sia avvenuto. I tre libri che egli scrisse e
che riguardano il recupero, furono tradotti in tedesco e in olandese.
L’unica fonte di reddito durante l’ultimo scorcio della sua
esistenza furono le quote di interessenza. Gli uomini di scienza risero
dei suoi libri: non erano scientifici, erano stati scritti per le grandi
masse, le quali a loro volta si mostrarono deluse, perché l’autore si
era limitato a descrivere puramente e semplicemente ciò che la tomba
conteneva, senza minimamente parlare di sé e di tutte le complicazioni
che avevano riempito le cronache. Altro motivo di amarezza per Howard.
Il 2 marzo 1939 Carter morì, ma pochi lo seppero. Il londinese “Times”,
che aveva venduto sue notizie in tutto il mondo, ne annunziò la
scomparsa il giorno dopo pubblicando il nome della lista dei deceduti a
pagina sedici: “ Mr. Howard Carter, il grande egittologo diventato
celebre per aver preso parte agli emozionanti avvenimenti che portarono
alla scoperta della tomba di Tut-ankh-Amon, la quale tanto lustro ha
dato all’archeologia, colui che poi esaminato e studiato la sepoltura
venuta alla luce, è morto ieri nella sua casa di Londra … Aver
scoperto il sepolcro fu già di per sé un trionfo, e lo fu, in misura
ancora maggiore, quando ci si rese conto che esso era inviolato; per gli
egittologi, ormai abituati ad accontentarsi di sepolture saccheggiate,
fu un grande evento. La scoperta commosse il mondo civile più di quanto
qualsiasi altro dissotterramento archeologico avesse mai fatto …”.
Il suo funerale fu abbastanza misero. Poche persone accompagnarono al
cimitero colui che era stato l’eroe della nazione. Tra i pochi
l’unica donna che per lui aveva contato e che era stata tanto
irraggiungibile: Evelyn Carnavon: il vero e unico amore della sua vita,
la figlia del Lord. La chiamava Eve. Lui sulle rive del Nilo, lei in
Inghilterra, si scambiavano tenere lettere, spesso una ogni due giorni.
“O perché non sei qui accanto a me” singhiozzava la ragazza. Ma Eve
e Howard sapevano che l’etichetta inglese no consentiva ad un
esumatore vagabondo di poter sposare la figlia di un Lord. L’amore
rimase platonico. Carter morì scapolo.
Howard Carter in una foto scattata
nel 1903. Carter (il primo a sinistra)
e un'assistente posano accanto
all'archeologo Gaston Maspero e la
moglie.
|
|