Un ragazzo (della) speciale
I - Prologo


Rimase a fissarsi nello specchio, ormai quell'immagine riflessa era diventata il suo migliore amico e fin troppo spesso s'era ritrovato a parlare con dei pezzi di vetro dal fondo argentato. Si sorrise, ma il suo era un sogghigno amaro. Quel volto da eterno ragazzino era stato per lui una specie di condanna.
Chi era lui? Quello di qua o quello di là dello specchio? Ormai era ai limiti della schizofrenia. Reso incapace dalla propria attività di capire quale fosse la propria vera identità o la sua vita reale.
Esse sempre qualcun altro e perdere così chi fosse stato all'inizio di tutto questo.
Agente infiltrato, qualcosa che evocava l'idea di missioni eroiche o film tipo Serpico; invece era qualcosa di molto più dozzinale e, fin troppo spesso, ripugnante, costretto com'era ad entrare nel ruolo di qualcun altro, per potersi inserire nei più disparati settori del crimine e, in particolare, negli ambienti della delinquenza giovanile.
Una gioventù sempre più allo sbando. Un futuro, vissuto al presente, fatto d'angoscia e solitudine che portavano solo all'anarchia e alla violenza.
Ennesima missione a Roma e dintorni, solito punto di partenza: discoteche, droga e, da lì in poi, tutto l'annesso ed il connesso. Si fosse trattato di un'azienda, si sarebbe parlato d'indotto.
Dove lo avrebbe portato quell'ennesimo tirare la catena del cesso? Nella merda! Nella solita schifosa merda di chi perché pensa di non avere niente decide di perdere anche quel poco che ha: se stesso.
Ennesimi documenti falsi, ma erano poi pezzi di carta fasulli? Si può parlare di documenti falsi se te li fornisce lo stato stesso? Allora meglio parlare d'ennesima nuova identità per un'altra, tra le tante, immersioni in una latrina del mondo e ritorno, dove lui, seppur recitando, alla fine dei conti s'era ritrovato ad essere la cosa più vera in un ambiente in cui la falsità e l'apparenza erano all'ordine del giorno.
A forza di svolgere questo bastardo mestiere s'era persino scordato il suo dialetto; se ieri proveniva da Milano, ecco che, magari, oggi viveva a Roma. Per cui era un camaleonte in continua metamorfosi mimetica e anche la parlata s'adattava all'ambiente, quasi la sua voce avesse un qualcosa di mutevole.
Da parecchio tempo, aveva perso le proprie radici e, una pianta senza radici, non potrà mai sviluppare delle foglie.
Una domanda esplose nella sua mente: “Che razza di pianta poteva mai essere?”
Adesso era stato affiancato ad un nuovo reparto. Da quando era esplosa la mania d'Internet anche in Italia, il suo lavoro d'infiltrazione era stato notevolmente agevolato. Era più facile e semplice scovare certi collegamenti sotterranei ed entrare in contatto con ragazzi e ragazzine in cerca di “trasgressione”, quelli che in gergo erano detti “pesci pilota”. Partendo da lì, saltando da contatto in contatto, era possibile trovare i punti d'ingresso di quei canali del malessere.
Strani condotti che, troppo spesso, assomigliavano al retto del mondo.
Sulla sua T-shirt c'era una scritta in latino: "volo interferre digitos in ano mundi", una frase dal significato emblematico: voglio ficcare il mio dito nel buco del culo del mondo… e vedere quanta merda ne può uscire! Che schifezza di motto s'era coniato, tuttavia in tutti quegli anni di “onorata” carriera in quanta merda effettivamente aveva navigato. Navigando in questo mare di letame, aveva visto come testimone di una realtà parallela quale enorme numero di persone vi galleggiasse o, peggio, ci affogasse.
Un mare di liquame in cui anche un pezzo di stronzo poteva diventare qualcosa cui ancorarsi strettamente, pur di rimanere a galla. Quante volte aveva sentito definire amore degli atti di violenza e prevaricazione! Tutto questo, spesso, l'aveva portato a rifletter anche al proprio passato, o delinquente o carabiniere; ecco le due strade che avrebbe avuto a disposizione. Solito disgraziato ragazzo del Sud, con un titolo di studio irrisorio: geometra. Poche prospettive dietro e ancor meno di fronte, specialmente per uno come lui: pulito dentro.
Non amava la sopraffazione, al punto di sentire l'istinto di proteggere i più deboli. Uno così, nato nel bel mezzo dell'illegalità come forma alternativa dello stato, quali scelte in realtà avrebbe avuto?
Servo dei potenti?
No, un semplice tirapiedi dello Stato. Quanti e quali altri termini di disprezzo erano stati ipocritamente diretti nei suoi confronti da quelli con cui aveva avuto a che fare?
Libero è colui che sceglie senza alcun vincolo e, nonostante questo, con le proprie scelte o azioni non danneggia gli altri”; erano le poche parole d'insegnamento avute dal padre, ed erano anche il recondito significato del suo secondo nome, l'altro era la speranza che Dio non benedisse ulteriormente la sua famiglia. Ultimo Libero: nomen omen, nel proprio nome a volte è contenuto il proprio destino, quasi si trattasse di un presagio.
“Basta con i pensieri tristi!” Penso, quasi a volersi scuotere di dosso questi pensieri.
Adesso chi sarebbe dovuto essere? Un ragazzo veneto, con parenti dalle parti di Roma. Nome in codice… ovviamente, come al solito: Han Solo. Un nome epico da cavaliere della tavola rotonda post-moderno ed emblematico nel cognome: Solo; infatti la solitudine era la compagna discreta e silenziosa di ogni sua missione. Una solitudine interiore che era anche amica e compagnia della sua vita reale, quasi fosse uno strascico di tutto ciò che le missioni sotto copertura lo portavano a vivere e poi mantenere chiuso a doppia mandata dentro sé.
Gli venne in mente come lo salutava sua moglie ogni volta che partiva per una missione. Un modo assurdo e strano: “Va amore, va e sconfiggi il drago!”, ma a volte era difficile capire dove era nascosto questo drago in grado di divorare le esistenze di così tanti individui, lui compreso.
Un'occhiata alla carta d'identità, nome e cognome giusti... colore dei capelli? Differente, li avrebbe dovuti tingere. Età, cosi tanti? L'ultima missione di quel genere, se ricordava bene, viaggiava sui 20-25, si vede che questa volta si mirava a qualcuno in alto e serviva un uomo più maturo, al briefing n'avrebbe saputo di più.
Stato civile? Libero... chissà cosa avrebbe pensato sua moglie… e cosa avrebbero pensato pure i due figli! Lui che Libero lo era solo di nome.
Oddio, meglio che la moglie sapesse veramente poco della vita che lui era costretto a fare o degli ambienti in cui bazzicava, nonché delle ragazze, per non dire a volte ragazzine, con cui spesso gli toccava darsi, per così dire, da fare.
Detta così, la cosa pareva anche interessante e intrigante, ma a dire il vero, solitamente, non era per nulla piacevole. Il più delle volte si trattava di persone dalla vita distrutta. Difficile poterli definire dei normali esseri coscienti della realtà, piuttosto si trattava di zombie bloccati in una situazione indistinta tra allucinazione e realtà. Persone che vivevano sospese in un limbo e con un velo costantemente calato davanti i propri occhi e che rendeva a tutti loro indistinguibile il momento del risveglio, per questo: realtà, sogni, angosce e quant'altro divenivano un tutt'uno unico. Un perenne stato d'incubo allucinante caratterizzato dal medesimo stato depressivo di sottofondo, in cui lo stare meglio era rappresentato dal ritenere che il tutto fosse solo un brutto sogno.
Uno squillo sul cellulare. Una parola dolce e familiare, quasi una fune gettata in suo soccorso, sul display: casa.
«Ciao amore… sì, vado adesso al briefing… va bene, passo a prendere il latte. La piccola sta meglio? Bene! Mi raccomando, preparami lo zaino che domani devo partire… quello giallo e blu da alta montagna… sì, amore, ancora… amore non ho voglia di discutere su questa faccenda al telefono, quando ci siamo sposati sapevi bene quale fosse il mio lavoro e poi sai che è una cosa che sento dentro, quindi argomento chiuso! Non farmi litigare, come al solito, prima di partire, che dopo non possiamo neanche sentirci e mi fai stare male per un sacco di giorni… sì, ti amo anch'io… ci vediamo dopo. Ciao.»
* Silenzioso, entrò in una stanza dall'aspetto asettico: pareti bianche e mobili estremamente funzionali. All'interno c'erano già altri agenti in borghese della squadra speciale e, unico in divisa, un capitano. Dire che quel reparto fosse informale era abbastanza limitativo, i componenti erano tutti in abiti piuttosto ordinari e sgualciti, capelli spesso più lunghi dell'ordinanza e via discorrendo; insomma basandosi su un giudizio estetico, avevano un aspetto poco rassicurante, quello tipico della gente che, incontrata casualmente di sera, porta a cambiare lato della strada, se non addirittura a modificare completamente itinerario. Persone che, pur di non doverle solamente incrociare, si sarebbe volentieri preferito l'inferno, dopotutto il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge!
Il capitano cominciò a parlare, descrivendo i particolari della missione. L'operazione prendeva le mosse dal traffico di sostanze stupefacenti presso gli istituti scolastici di Roma e dell'hinterland. Erano stati già realizzati diversi agganci e, ad ognuno degli agenti, venne dato il curriculum relativo al proprio “pesce pilota”.
Qual era il suo contatto? Sfogliò il fascicolo. Una ragazzina. Passato travagliato e facile risposta in quanto di peggio ci sia per dare delle risposte; come il solito, storia pesante; ma c'erano mai state storie “leggere” per lui o gli altri? In realtà era ogni volta la stessa storiaccia di sempre, che cosa cambiava il nome e la foto, null'altro.
L'ultima volta a Roma non s'era sempre trattato di una ragazzina, passato travagliato, spaccio ed uso di droga, prostituzione, atti di delinquenza ordinaria e non. Anche quella volta: storia pesante! Come sempre d'altronde.
Alzò lo sguardo verso la finestra, quasi potesse volare via. Fuori brillava il sole, sembrava una serena giornata primaverile, anche se era ancora inverno. A volte odiava questo mestiere, doveva ancora iniziare quella missione e il suo cuore era già stretto dall'angoscia. Cos'era? La vicenda alla quale andava incontro o un'altra storia, creduta sepolta nel suo passato e ancora così viva e simile a questa?
Continuò a leggersi l'incartamento, quelli del settore informatico avevano fatto un buon lavoro. In pratica l'aveva sedotta via posta elettronica, facendole rivelare molti dettagli, come un padre confessore fa con il penitente. Quel bastardo che lavorava con Internet era veramente bravo, altro che il carabiniere, lo scrittore o il poeta doveva fare! Ora lui doveva essere quell'artista delle parole, quel pittore di sogni che aveva acceso una speranza in quell'essere umano. Questa volta sarebbe stato difficile reggere di persona la parte, gli sarebbe servito qualcuno per scrivergli i testi, un Cirano personale che gli potesse suggerire le battute. “Stasera si recita a soggetto”, pensò.
Purtroppo quello non era un mestiere in cui si assegnavano gli Oscar, ma medaglie al valore, al merito e alla memoria. Un errore, un'interpretazione troppo sopra le righe non ti costava una statuetta, ma la vita, tua o di altri. Allora, a ricordare il tuo fallimento, non qualche centimetro di placato oro, ma una fredda lapide e un'incisione con dedica alla memoria.
Il capitano riprese le redini della riunione, illustrando i tempi, i metodi e gli obiettivi; quindi, prima di concludere, fece le solite raccomandazioni e salutò tutti con un: «Mi raccomando ragazzi: attenti lì fuori!»
Solita frase di circostanza, che dava quasi l'aspetto di un banale telefilm a quelle riunioni, sempre uguali, nonostante fossero sempre differenti, ma mai banali.
Come al solito, alla fine di quelle riunioni, aprì il suo taccuino, scrisse rapidamente quattro appunti, riaccese il cellulare e annotò il numero di telefonino di quella ragazza, quindi emise un sospiro o forse uno sbuffo, fatto sta che mollemente dalla sua cassa toracica fuoriuscì dell'aria.
I capelli erano ancora corti dall'ultima operazione, s'era trattato di un'indagine a mezza via tra fanatismo sportivo e invasamento politico: una banda di skin-head nel bergamasco. C'erano voluti parecchi giorni per infiltrarsi tramite la tifoseria locale e raccogliere il maggior numero d'informazioni a riguardo di quel gruppo e del loro collegamento con ambienti eversivi che, sinceramente, poco avevano a vedere con la politica e molto con la demenza. Concetti fatti di slogan ripetuti senza realmente comprenderli e non profondi ideali compresi, vissuti e condivisi. I nomi dei pensatori dello filosofia etica e dell'organizzazione dello stato confusi con quelli dei centravanti stranieri in cima alla classifica cannonieri.
Con questo mestiere imparavi che c'era la destra, la sinistra e gli idioti... e quelli, purtroppo, erano tutti uguali, comunque la pensassero, erano idioti e basta! Gente priva di cervello, in cui bastava introdurre quattro idee, perché queste rimbalzassero all'infinito tra le pareti di quel vuoto cranio, senza mai chiedere alcuna spiegazione di sé.
Lo Stato come un organismo alieno. La proprietà pubblica, come bene di nessuno da distruggere tramite atti vandalici. Quando andava bene tante piccole verità che, messe insieme, però costruivano un'enorme bugia a scusante dei loro atti.
Dalle sue labbra partì, improvvisa, un'imprecazione che si spense lungo le spire delle rampe di scale, era rivolta genericamente alla mala gestione della pubblica amministrazione. Il riscaldamento a palla, gli aveva seccato la lingua e la gola o, forse, era quello che aveva letto che gli aveva fatto quell'effetto, comunque fosse e qualunque fosse la causa, inveire maledicendo tutto e tutti era stato un gesto liberatorio. Un'azione catartica che voleva essere la sua ribellione alla nemesi storica che lo riportava a Roma, quasi lì lui avesse ancora un conto in sospeso da saldare. Una finestra rimasta aperta che era ora e tempo di chiudere.
Per anni aveva tentato di corazzarsi, di diventare insensibile alle storie con cui entrava in contatto, ma alla fine era difficile non sentirle anche come qualcosa di proprio; specialmente se, in una di quelle storie, c'eri rimasto maledettamente impigliato come un pesce in una rete e da quella rete lui era fuggito, procurandosi delle lacerazioni che il tempo non aveva mai completamente guarito.
Quella volta s'era comportato come una maldestra vespa a caccia di ragni, finita goffamente prigioniera tra gli appiccicosi fili della tela; così era stato colpito di striscio dall'aculeo del ragno. Il ricordo non era solo una cicatrice, ma il proprio cuore avvelenato per sempre.
Si diresse in bagno, per darsi una rinfrescata. Accaldato e soffocato com'era dal suo stesso respiro, fu gradevole la sensazione dell'acqua gelida sulle guance, sulla fronte e quindi dietro al collo. Prese dei fazzolettini di carta dal dispenser e si tamponò il volto.
Riemerse a lavandino, ad aspettarlo nello specchio uno sguardo triste e malinconico.
“Possibile che oggi quei ricordi non la smettessero di riemergere? È solo storia passata, Ultimo!”, pensò nell'inutile intento di convincersi di ciò.

*

Riemerse per un attimo l'immagine della stanza asettica in cui s'era svolta la riunione, i fogli sparsi sul tavolo, i vari fascicoli predisposti davanti ad ogni posto a sedere. I vari diagrammi, gli schemi di nomi e collegamenti. Tutti particolari che non aveva notato mentre, al presente, aveva vissuto quell'ambiente.
Lo sguardo, passando per le linde piastrelle di ceramica del bagno, tornò allo specchio di fronte a lui.
Con quei capelli lunghi solo alcuni millimetri sembrava Bruce Willis in uno di quei film d'azione tra l'assurdo e il surreale. Provò a ripetersi quei due aggettivi: assurdo e surreale; cosa c'era di strano in quelle trame? Non era forse tra l'assurdo e il surreale anche la sua di vita, pensò. Anzi la vita era molto più assurda e surreale di qualsiasi film.
«Poi lo chiamano un lavoro. Queste sono cose che ti tiri dietro nelle ventiquattro ore di ogni tua giornata, che torni a casa, vai in ferie, sei con la famiglia... e ancora ti macinano dentro. Volti, voci, occhi. Per l'appunto sguardi che prima t'affettano il cuore e poi ti trapanano il cervello!»
Ecco, senza alcuna logica stava parlando con la sua immagine riflessa dallo specchio, qualcosa di molto assurdo e assai surreale.
Forse per questo erano obbligati ad essere costantemente “assistiti psicologicamente”, un termine delicato per dire “in terapia” da un “strizza-cervelli”. Questo perché era particolarmente facile sviluppare una personalità schizoide, conducendo una “doppia” vita di questo tipo.
Scese rapidamente le scale, anche queste caratterizzate dal colore asettico bianco e da una fredda luce di neon. Lo fece fissando l'orologio al polso, quasi la forza del suo pensiero potesse alterarne l'indicazione. Era in ritardo, ma comunque ce l'avrebbe fatta. Montò in macchina, partendo veloce e lasciando una vistosa sgommata nel piazzale della caserma, solo una tra le tante.
Conosceva bene la città e quali strade percorrere per evitare il traffico, a volte raddoppiava i chilometri, ma in compenso dimezzava i tempi. Una volta si girava tutti la città in bicicletta, andando ai venti chilometri all'ora e respirando aria pulita, adesso tutti in macchina a poco più di cinque chilometri all'ora, tra polveri sottili e stress, tutti sottoposti al pizzo della RCA auto, una vera elegia dell'idiozia.

CONTINUA...


vuoi sia questo il mio prossimo libro?
VOTALO!