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Nei panni di mia moglie

"Nei panni di mia moglie" pubblicato da Editrice Nuovi Autori

Imago mortis - un'esca per la regina nera

"IMMAGO MORTIS- un'esca per la regina nera" pubblicato da Il Filo


L'aiutino

di Andrea Saviano
menzione speciale al concorso "Penna d'autore" 2010
menzione speciale al concorso "Fili di parole" 2010


Michele si alzò sui pedali sbuffando peggio di un mantice, ma per quanto s'affannasse a pedalare la salita sembrava non finire mai.

La fatica era ormai tale che per Michele la speranza non consisteva più nel veder comparire all'orizzonte il tanto atteso punto dello scollinamento, quanto un tratto in falsopiano in cui rifiatare. Invece, da parecchi chilometri, a un tornante ne seguiva un altro e l'unico tratto in cui riusciva a riprendere un po' di respiro era il punto di gomito tra una salita e la successiva.

Quello che lo irritava e lo rendeva affranto era il fatto che come passista fosse passabile, come scalatore discreto, come velocista poco meno che buono. Per farla breve, non riusciva a eccellere in nulla. In tal modo era riuscito a costruire una carriera che lo aveva visto sempre tra i primi ma mai una volta vincente.

Questo, in altre parole, significava che il suo curriculum lo si poteva sintetizzare con: più assoluto anonimato. Non c'era stato mai un acuto che l'avesse posto almeno per un giorno all'attenzione del pubblico e della stampa.

Perfino i ciclisti che avevano dato scandalo per l'uso di sostanze dopanti erano più celebri di quanto lo fosse mai stato lui. Per quanto potesse sembrare assurdo, i media accendevano subito i riflettori su chi era additabile come oggetto di vergogna, non tanto per porli sotto accusa, piuttosto per soddisfare la curiosità morbosa della platea e lasciare a costoro la possibilità di snocciolare un elenco infinito di scuse poco credibili.

In fin dei conti non era una novità che i salotti delle televisioni fossero frequentati da esimi delinquenti, donne dalla moralità discutibile, faccendieri e quanto di peggio offrisse l'umanità. La normalità, la sana attività sportiva condotta con onestà non interessava a nessuno, a conti fatti non dando scandalo non destava nemmeno morboso interesse.

Michele lasciò da parte questi malinconici pensieri, per concentrarsi sullo sforzo.

Sul collo il sole batteva selvaggio. Alzò la testa per vedere dove avrebbe trovato un po' d'ombra.

La salita tagliava il costone sud della montagna, sfregiando la roccia a zigzag e aprendo in tal modo uno stupendo panorama su una valle fertile, protetta da alte montagne in grado di dissetarla anche durante la più torrida delle estati.

Salendo, ovunque aveva trovato ad accompagnarlo il rumore scrosciante d'acqua prodotto da ruscelli o piccoli torrenti che contribuivano ad alimentare il grande fiume che dava il nome alla vallata.

Da lì lo poteva ammirare nella sua maestosità: un interminabile, sinuoso e vasto nastro d'argento. Uno spettacolo bellissimo da guardare, solo che Michele non era lì per fare il ciclo-turista.

Lui era un ciclista professionista ed era lì per gareggiare in una delle tante tappe di montagna di quel 80-esimo giro attraverso l'italico stivale.

Il suo ansimare fu soffocato da un rumore fastidioso che proveniva da qualche metro più in basso. Si levava sempre più forte ed era il rumore di un motore.

Si trattava di una delle tante moto che scortavano il giro.

Accelerando nel tratto rettilineo lo oltrepassò agilmente, quindi scomparve dietro alla curva che fungeva da limite visivo a quella salita.

« Sarebbe così facile girare la bici e rendere questa interminabile salita una scorrevole e agevole discesa! » Fu la sua esclamazione “pulita”.

Non imprecava mai, neanche quando si sentiva affranto e sconfitto, nonostante fosse abituato a pedalare in mezzo a mandrie sussultanti di bestemmiatori che puzzavano di sudore e fatica.

Non era la salita che lo stava ammazzando ma il caldo, quella giornata di cielo limpido e di solleone lo stava inducendo a spingere la leva del cambio fino al “pignone del disonore”.

Lui, ogni volta che si presentava una tappa di montagna, conservava le corone da 34 e 50, ma faceva infilare come ultimo, tra i pignoni del pacco standard da undici velocità, quello da 29 denti sacrificando quello che ne aveva 18. Non era mai accaduto che lui avesse utilizzato quell'ultimo rapporto, ma psicologicamente gli era sempre stato d'aiuto sapere che – se e solo se ne avesse avuto bisogno – lì c'era.

Il fatto che non fosse mai stato utilizzato l'aveva fatto diventare il “pignone del disonore”, perché Michele aveva finito per considerare disonorevole il fatto d'utilizzarlo.

Estrasse dalla tasca posteriore la cartina dell'altimetria che solitamente consultava in questi casi, ma il sudore l'aveva sbiadita e il tratto del percorso che stava affrontando risultava essere solo una grossa macchia indistinta.

Quanto ancora sarebbe durata quell'ascesa? Dove avrebbe potuto trovare un rifornimento? Insomma, che fare?

Michele piegò il collo e abbassò la testa fino a poter intravvedere cosa c'era tra la forcella delle proprie gambe: il cambio della bicicletta. Era ancora sul pignone da 27 denti, in fin dei conti aveva saputo resistere alla tentazione. Afferrò la borraccia, con la poca acqua che conteneva, e se la versò sulla nuca nel tentativo di ritrovare la lucidità necessaria per decidere sul da farsi, quindi strinse i denti e proseguì nella salita imponendosi di non utilizzare un rapporto più corto.

Sudava così tanto che le gocce gli grondavano dalla fronte, oltrepassando la diga delle sopraciglia, tracimavano direttamente sulle palpebre, obnubilandogli la vista e facendogli pungere gli occhi.

Il ciclista per farsi coraggio afferrò il manubrio ancora più saldamente di quanto avesse fin qui fatto, imprimendo una leggera accelerazione alla bicicletta per evitare che la velocità scendesse oltre la soglia che induce a posare il piede sull'asfalto o a inserire un rapporto più agevole: il “pignone del disonore” per l'appunto.

Bastava pazientare e, passata la curva, avrebbe trovato un po' d'ombra, probabilmente lì dietro ci sarebbe stato anche del pubblico e l'incitamento di costoro lo avrebbe sostenuto incoraggiandolo a proseguire nonostante la fatica e il dolore dei crampi. Qualcuno di sicuro gli avrebbe anche fornito un po' d'acqua fresca da versarsi addosso. Sapeva bene, per esperienza diretta, che l'acqua da sola era meglio non berla altrimenti si sarebbe trasformata subito in sudore privandolo dei sali e, quindi, di ogni forza: acqua = crampi.

« Dai Michele, un ultimo sforzo! »

Gettò lo sguardo verso valle, era più confortante vedere quanta salita aveva già messo in fienile piuttosto di starsene a osservare quanta gliene rimanesse ancora da fare.

Fu volgendo lo sguardo verso il basso che colse la sagoma di un altro ciclista.

Indossava i suoi stessi colori e con impeto aggrediva la montagna guadagnando, pedalata dopo pedalata, parecchi metri su di lui.

Si trattava di un compagno di squadra che, quando era iniziata l'evasione dalla mandria sbuffante, non s'era aggregato al gruppetto di fuggitivi.

Se all'inizio era sembrato appartenere ai tanti che di fronte alla salita gettano le armi, adesso invece dava l'idea di qualcuno che la notte prima abbia pianificato a tavolino come e quando attaccare la salita.

È notorio che in bici è meglio stare "a ruota" che tirare, ma questa regola vale solo in pianura, dov'è necessario avere qualcuno che “tagli l'aria”. In salita no, questa regola non vale, perché in salita ognuno deve andare seguendo il proprio “passo”.

C'è un ritmo naturale che ognuno ha dentro di sé in base a com'è fatto. Da questa anatomia nasce un numero di pedalate al minuto che risulta particolarmente congeniale e che rende minore la fatica. Una cadenza di pedalate talmente connaturata che se viene abbassata, per assurdo, fa compiere un maggior sforzo.

In salita non si può andare forte o piano, si deve solo pedalare a quell'unico ritmo.

Eppure, per quanto fosse una “legge di natura”, quante volte gli era capitato di vedere dei colleghi partire piano per poi uscire dai più immediati inseguitori e imprimere ai pedali un ritmo più congeniale a un motorino che a un essere umano.

Ogni volta s'era chiesto: « Come fanno a non spaccare i muscoli delle gambe? »

La curva che delineava la fine di quella salita pareva ancora lontana e lui sembrava fermo rispetto al collega che lo incalzava.

Non bisognava essere particolarmente efferati in fisica o in matematica per capire che sarebbe stato sorpassato ben prima di raggiungere quel tornante.

L'orgoglio lo portò a fare ciò che sapeva bene non avrebbe dovuto fare: accelerare il ritmo della propria pedalata.

Gli bastò tenere quell'andatura per nemmeno una ventina di metri e il proprio corpo gli rispose con un'imprecazione.

Il polpaccio destro si contrasse in un crampo che assomigliò molto al morso di una belva.

Gli fu da subito impossibile rimanere sui pedali così, sconfitto dal suo stesso orgoglio, si sedette sulla sella e tentò d'allentare la stretta da parte del muscolo risentito spostando tutto lo sforzo della salita solo sulla gamba sinistra.

Non c'era null'altro da fare per rimediare a quell'errore che spingere la levetta del cambio e accettare l'umiliazione di inserire per la prima volta nella sua lunga carriera da ciclista l'ultimo pignone utile. A quel punto la fatica avrebbe avuto a disposizione solo il mozzo della ruota.

« Michele, come va? »

Gli chiese una voce che alla “emme” era poco dietro le sue spalle e alla “a” finale era quasi al suo fianco.

Il sudore che gli grondava sugli occhi gli aveva reso il collega simile a un'ombra indistinta, ma era sicuro d'aver riconosciuto l'accento veneto di Francesco Rusteghin.

Riempì i polmoni d'ossigeno e provò a non far trasparire dalla sua voce il dolore che gli attanagliava il gastrocnemio. « Come ti sembra che vada? Mi hai ripreso in poche pedalate, non ho più una goccia d'integratore salino e grondo sudore peggio d'una fontana. »

« Crampi? »

La voce non aveva fatto trasparire il dolore ma, arrivando da dietro, il collega aveva sicuramente notato l'asimmetria dell'azione sui pedali di Michele.

Tra professionisti era inutile mentire, era evidente che la sua non era più una pedalata “rotonda”, cioè una spinta sui pedali dove la forza viene esercitata anche durante il sollevamento della gamba.

« Sì, appena adesso. La gamba destra. Altrimenti non mi avresti preso così agevolmente, » mentì sapendo di mentire. « Hai una borraccia da darmi? Dopotutto puoi privartene, perché non dovremmo essere tanto distanti dal punto di rifornimento. » « No, non siamo distanti dal punto di rifornimento, » gli disse evasivo, mentre era sul punto di sopravanzarlo. « Mancano solo tre chilometri, in pratica è subito dietro a quella curva lì in fondo. »

Già, quel maledetto gomito là giù, pensò senza trovare il coraggio di dirlo.

Michele avrebbe voluto anche commentare la labilità del termine “solo” quando la fatica rende i chilometri una distanza enorme, ma doveva risparmiare il fiato per dire cose più importanti.

« Ma ce l'hai o no una borraccia piena da prestarmi? »

Chiese con un tono di voce tra il minaccioso e il disperato.

Un altro paio di pedalate e il collega non avrebbe più potuto allungarli nulla e, tra le due bici, ci sarebbe stata la luce di uno spazio vuoto che lui non sarebbe stato in alcun modo in grado di colmare.

« Ecco, il fatto è che dentro le mie borracce c'è un “aiutino” e tu sei contrario a queste cose, » gli rispose l'altro con evidente imbarazzo nella voce.

D'istinto Michele ritrasse il braccio che aveva allungato quasi volesse aggrapparsi alla curva lì in fondo per trascinare la bici verso l'ombra, il rifornimento e la discesa che questa celava.

C'era voluto qualche secondo per realizzare il concetto di "aiutino" e resistere alla tentazione, ma adesso la mano era tornata ad afferrare saldamente il manubrio.

« Grazie Roberto, » ribadì, « vedrò di stringere i denti e arrivare al rifornimento. Dopotutto sono “solo” tre chilometri e il crampo sta allentando la sua presa. »

Aveva scelto di mentire al compagno di squadra per essere onesto con se stesso, nonostante la scia di sudore che riversava sull'asfalto lo stesse facendo assomigliare a una lumaca che lascia come segno del proprio tragitto una traccia di bava.

« Se è questo quello che vuoi, » furono le ultime parole che riuscì a comprendere prima che la fatica e la distanza gli rendessero incomprensibile la voce del compagno di squadra.

La gamba destra tornò a dolere. Indubbiamente un aiutino gli sarebbe stato proprio utile in momenti come questo, almeno per superare quello stato di crisi.

Non un intruglio chimico, ma un sostegno sano e pulito che lo portasse in fondo a quella salita, appena più in là di quella maledetta curva che sembrava unire la strada al cielo.

Dietro quel costone di roccia si celava ormai un intero mondo da favola popolato di ogni delizia.

Fu quell'immagine tersa d'azzurro che lo ispirò, racimolò quanto fiato aveva in gola e cominciò a mormorare una preghiera.

« Padre nostro, che sei nei cieli, » la recitò tutta e, quando arrivò sulla maledetta e al tempo stesso benedetta curva, la stava terminando ribadendo un concetto importante: « non indurci in tentazione, ma liberaci dal male. »

Un'ultima sofferta pedalata e la salita era finita per lasciar spazio a un falsopiano ombreggiato. Qualche decina di metri più in là una persona lo incitava chiamandolo per nome e cognome, come fosse stato in testa alla corsa.

Sollevò il capo e vide in fondo al rettilineo uno spiazzo erboso in cui era stato organizzato il punto di rifornimento.

Il peggio era passato, tra poco avrebbe avuto di che bere e di che mangiare per superare la crisi, dopodiché c'era una lunga discesa da percorrere a freni sciolti.

Sarebbe bastato essere un po' pazzi, lasciare che l'orgoglio e il cuore lo spingessero a credere ciecamente in se stesso per recuperare il distacco sugli altri.

Prese al volo il sacchettino, bevve, s'alimentò e si preparò per il freddo della discesa invocando l'unico "aiutino" che lui ritenesse essere sano e pulito.

« Dammi coraggio, Signore. »

Raggiunse e sorpassò quasi subito Rusteghin, quindi uno dopo l'altro tutti gli altri concorrenti che lo avevano staccato in salita e infine, tra lui e il traguardo, solo asfalto e folla urlante che ripeteva a gran voce il suo nome, celebrando un gran cuore da campione: il suo.