ISBN 88-7568-298-4
EDITRICE NUOVI AUTORI
via G. Ferrari, 14
20123 Milano (MI)
di Andrea Saviano
SOMMARIO
00 - Scenda il silenzio, si alzi il sipario! Breve, si fa per dire, preambolo [G] |
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La storia inizia con un corto preambolo, quasi una presentazione di una commedia del teatro shakespeariano, nel quale Giammarco Bondi, introduce la vicenda e si presenta al pubblico. Altrettanto faranno Margherita Delprato e Jasmine Perhãria-Svolatzho, le altre due protagoniste della vicenda.
Giammarco è un marito modello, ma si lascia persuadere dall'idea di realizzare una liaison-dangereuse a tre (lui, lei e l'altra) per aggiungere alla vita un qualcosa di particolari che renda il semplice termine tradire qualcosa di più forte dal punto emotivo come: tra-sgre-dire.
Un incidente d'auto e la conseguente botta alla testa porterà il protagonista a vivere in uno stato di continua allucinazione, con tanto di visioni oniriche, che renderanno il confine tra realtà e fantasia del tutto inconsistente.
Compaiono così altri stravaganti personaggi che il lettore ha difficoltà a capire se sono effettivamente reali o creazione della percezione alterata della realtà del protagonista.
In particolare spicca la figura di un amico del periodo dell'adolescenza Adone Kastïg che è diventato uno strano santone: Fra' Stornato. Un frate che letteralmente perseguiterà il protagonista, fungendo da coscienza o, meglio, da “grillo parlante” di questo moderno Pinocchio.
I continui colpi di scena caratterizzano la narrazione, sempre mantenuta scorrevole e interattiva dagli improvvisi dialoghi tra Giammarco e il lettore, perché (come asserisce il protagonista nella premessa) lui si propone come il trovatore che racconta delle scene dipinte su una lunga staccionata.
Il lettore così ha appena il tempo di divertirsi ed illudersi, per rimanere deluso dagli eventi che volgono in modo completamente diverso dalle attese ed essere sorpreso del colpo di scena che riporta, per così dire in carreggiata, le altalenanti vicende.
Quando il racconto sembra volgere alla fine (la differenza tra ciò che sembra e ciò che è, risulta essere la caratteristica dominante in questa storia), una nuova virata realizza il vero gran finale, che tuttavia, come una terza di copertina che si sollevi rivelando altre pagine nascoste, lascia il sospetto che il libro continui dietro quella piega, lascia al lettore una serie di dubbi su come in realtà si sia svolta la vicenda.
La tecnica di scrittura è quella che rende lo stile dell'autore quasi unico, con un uso delle note a piè di pagina per interagire con il lettore.
Non rammento l'istante preciso in cui la cosa ebbe inizio, so solo che ormai da parecchi giorni mi ritrovavo a sostare per ore e ore davanti a quello che per voi sarebbe solo un negozio e che invece per me è stato per molto tempo il negozio.
Il nome di quell'esercizio commerciale era il “The thousand nights and a night”, per chi non conoscesse l'inglese “Le mille e una notte”.
Per parecchi giorni chiunque transitava da quelle parti assisteva alla seguente penosa scena: io con il naso appiccicato alla vetrina di quel negozio, lo sguardo smarrito in un punto imprecisato dell'interno e la mente persa altrove.
Il fatto che mi trattenessi a lungo e in quello sconveniente modo dinnanzi ad un negozio chiuso era già di per sé inquietante. Se aggiungiamo che si trattava di un'esposizione di manichini femminili con “sparso qua e là” poco tessuto intimo per così dire “provocante”, non deponeva certo a mio favore.
Cos'altro potevo essere agli occhi di un ignaro passante se non uno dei tanti tipici esempi di depravazione dovuta a questi “tempi moderni”.
Sappiate che le madri, vedendomi, tiravano bruscamente a sé i figli. Le signore di una certa età si limitavano a giudicare la cosa semplicemente con un insulto diretto alla mia persona, mentre i mariti si limitavano ad annuire all'insulto proferito dalle loro mogli.
A dire il vero, i medesimi coniugi – quando li incontravo da soli – mi dimostravano invece solidarietà seppur frammista a commiserazione.
Non credo si trattasse di pietà “religiosa”, piuttosto ritengo che li angosciasse il quesito di come un uomo piacente e ancora nel fiore dell'età potesse ridursi in quello stato.
Già, visto da fuori sembravo questo: un caso umano pietoso.
Tuttavia, le vicende che vi andrò a raccontare spiegheranno meglio come stavano le cose.
In quella fase del giorno in cui si è già consumato un modesto pranzo, ma è troppo presto per riprendere il lavoro cosa può fare un uomo “insano” di mente se non recarsi davanti alla succitata bottega e posare inizialmente gli occhi sui più seducenti tra i manichini, badate bene: dissimulando un ambiguo interesse per la merce esposta in vetrina. Ebbene sì, lo devo confessare, il mio sguardo in realtà proseguiva oltre, volando ben più in là degli scaffali. Le mie curiose pupille dribblavano con grande indifferenza i più seducenti reggiseno e superavano brillantemente anche i più disinibiti perizoma, perché la mia meta era un'altra ed era posta ben più in là.
Come Annibale davanti alle Alpi probabilmente sognava Roma in fiamme, così il mio sguardo valicava il virtuale confine tra sogno e realtà, quando arrivava alla liscia superficie del bancone.
Una piccola discrepanza rendeva il condottiero cartaginese diverso da me. Lui voleva appiccare fuoco a Roma, mentre io a quella vista avvampavo.
Siccome so già che sarete sconvolti dal fatto che ardessi alla vista di un bancone e non della biancheria intima femminile, vi spiego meglio come stavano le cose.
Dietro quel bancone, nel normale orario di lavoro, spesso c'era una commessa, una donna di quelle con la D maiuscola che per me era ben più di una commessa: per me lei era una scommessa.
Questa ridicola e un po' patetica “messa in scena” che allestivo in repliche sempre uguali tutti i santi giorni, s'era ormai trasformata in un vero e proprio rito quotidiano. La pantomima procedeva lungo questo semplice canovaccio: subito dopo il panino c'era questo pellegrinaggio di fronte a quella rivendita di abbigliamento intimo.
Tutto ciò al solo scopo di adorare la dea che alimentava la mia fantasia con una sottile aura di perversione trasgressiva.
Non pensiate che tradire e trasgredire siano due termini che si possano fondere in un solo nome e cognome: il mio. Io sono il tipico padre di famiglia, tutto casa e lavoro e, pensate un po', a pasqua e natale persino chiesa!
Le mie fantasie, come tante vestali, alimentavano il sacro fuoco che albergava nel tempio di quella dea.
Simile a una piccola ameba, una strana idea mi si era inoculata nel cervello qualche mese addietro e ora ne divorava le meningi neurone dopo neurone. Una sorta di “malattia”.
Il motivo apparente dello scandalo, cioè dell'immoralità pruriginosa che vi ha indotto a proseguire la lettura, era probabilmente insito nel fatto che quel luogo trasudava sensualità femminile. Ciò nondimeno, l'osservatore ben pensante che proseguendo la lettura intendesse “grattarsi” sarebbe forviato da queste considerazioni, è dunque mio compito riportare la narrazione sulla retta via, perché gli avvenimenti non stanno affatto così.
Fingendomi un bravo cronista della vecchia scuola faccio il punto.
Conosciuto il dove e il quando, sarete di sicuro incuriositi dal perché o dal come ma, forse e sopratutto, state letteralmente andando fuori di testa per conoscere il chi di tutta questa “losca” faccenda.
Affrontiamo queste questioni una alla volta.
In quanto a perché io scandissi come un tic o un tac (questo a vostra discrezione) le fasi della mia giornata di lavoro con quel “pellegrinaggio”, mi spiace deludervi, ma non accadeva affatto per una mia insana perversione (quale può essere il feticismo, ad esempio), ma per qualcosa di moralmente più turpe e, al tempo stesso, banale: l'idea del... tra(sgre)dire.
Insomma, io posavo il mio grosso, grasso naso su quella vetrina al solo scopo di permettere alla vista di posarsi poco oltre quell'inconsistente muro di vetro e poter immaginare qualcosa di fittizio e al tempo stesso perverso.
Già, restavo immobile ad osservare qualcosa, anzi qualcuno, che pur non essendoci, rappresentava – « Pape Satàn, pape Satàn aleppe! » – il mio personale demone della perdizione.
Muovendo un passo alla volta, il mio sguardo evitava i manichini, scavalcava i manifesti riproducenti giovani e avvenenti ragazze dallo sguardo languido e in “abbigliamento” lascivo, quindi proseguiva (a volte sicuro a volte incerto) fino a quella che io solevo definire la linea dell'orizzonte che custodisce ormai il mio incerto avvenire.
Un bancone, direste voi. Un altare, direi io. Un'ara pagana che in quei giorni era in grado di disegnare di volta in volta nuove curve spazio-temporali per descrivere un'infinità di possibili avvenimenti futuri tutti virtuali e tutti tra loro differenti.
Concedendomi una licenza poetica: un “colle” che tanta parte del mio sguardo escludeva dalla realtà e al di là del quale m'era dolce naufragare tra una moltitudine di differenti e possibili domani che vi si potevano celare.
Orbene, dietro quell'invisibile piega del destino, la mia fantasia era affrancata dalla morale e libera di spiccare il suo lascivo volo. A questo punto direi che anche il come è stato chiarito. Lo ammetto, per quanto abbia tentato di spiegarlo, resta piuttosto confuso il perché e di certo non s'intravede ancora fisicamente il chi di tutto questo ambaradan.
Senza che la fervida fantasia di qualche lettore corra oltre il dovuto, devo subito porre i primi paletti della lunga palizzata sulla quale vedrò:
« Signor giudice, signori della corte. Mai e poi mai avrei potuto immaginare che quando ho estratto il mio Piripillo questa signora, che io affermo di non conoscere, sarebbe potuta scivolarci maldestramente sopra. In quanto al fatto che mi trovassi nel letto della signora in questione, c'è una spiegazione che voi tutti troverete logica. La domanda che vi rivolgo è questa: “Può mai un uomo colto da improvvisa stanchezza rendersi conto d'aver sbagliato casa, stanza e letto?” La risposta, a mio modesto avviso, è sì! »
Cari lettori vi sarà ora chiaro che le mie fantasie non erano legate ai capi esposti, ma a colei che tali capi esponeva e vendeva.
In sostanza, non erano gli indumenti a stimolare pensieri peccaminosi nel mio virtuoso animo di buon padre di famiglia. C'era molto di più.
La causa scatenante della mia eccitazione – insomma l'agente patogeno – non risiedeva né nel tipo di negozio, né nella merce esposta, ma molto più semplicemente e trivialmente nella proprietaria.
Il nome?
Jasmine!
Bel nome vero?
Ovviamente una donna. No, di più. Una femmina, e quando dico femmina io intendo fino al midollo.
Ora Jasmine è un esemplare del gentil sesso di poco meno di trent'anni. Verosimilmente ventisei, sparando una cifra a caso.
Una signorina senza alcuna prerogativa particolare eccezion fatta per essere – a mio modesto avviso – “carnale” in un modo inverosimile e, per quel che riguarda le mie vicende, addirittura devastante.
Mi sembra di percepire nei lettori una lieve perplessità...
Forse, è meglio se spiego senza ricorrere alla semantica il senso dell'aggettivo carnale che ho utilizzato per descrivere la signora in questione.
Ora, nel mio personale vocabolario al termine carnale si può leggere la seguente definizione: generosa nelle “giuste” forme da essere più callipigia che giunonica.
Per chi non conoscesse il significato del termine callipigia (lo era Venere per intenderci) la locuzione “curve ottime ed abbondati” sarà forse di più facile comprensione. Tuttavia, se il lettore avesse l'accortezza di ricorrere a un buon dizionario, permetterebbe al proprio intelletto di progredire ben oltre la consueta mediocrità.
A dirla tutta, Jasmine non si presentav ai miei occhi solo come questo.
Circondata com'era da tutto quell'intimo femminile di varie fogge e di differenti tessuti, lei rappresentava per me l'idea stessa del... lo so, adesso scandalizzerò i più bigotti tra i lettori: sesso.
Riallacciandomi al trovatore di cui sopra: ella era il tormento e l'estasi che straziavano e deliziavano le mie quotidiane fantasie contraddistinguendo ogni mio immorale sogno ad occhi aperti.
Oh, croce e delizia!
I sintomi della malattia c'erano tutti:
Il tempo di parcheggiare l'auto e dirigermi verso il cantiere quando eccomi davanti alla vetrina maledetta e, oltre il vetro, oltre i manichini, oltre il bancone: lei!
« Gianmarco, non ti fermare. Tira dritto! » fu l'imperativo categorico che mi diedi.
Un attimo dopo, la stavo fissando tutto eccitato, conscio di quanto fossi ridicolo. Per quanto tentassi d'impormelo, ero incapace d'assumere un aspetto più dignitoso di quello di un cane affamato e scodinzolante di fronte ad un grosso e polposo osso.
Lei era al bancone, sorridente come sempre.
Nonostante la cosa andasse avanti da giorni, non credo che lei avesse mai preso atto di quel mio “bizzarro” comportamento.
L'avevo notata il giorno stesso in cui avevamo iniziato quel lavoro di ristrutturazione all'edificio che ospitava, tra le altre, anche la sua attività commerciale: un piccolo negozietto su due piani di biancheria maschile e di lingerie femminile.
Dapprima l'avevo adocchiata, poi attentamente osservata ed infine radiografata.
Ne conoscevo alla perfezione i gesti e le espressioni del volto.
Ripensandoci, non riuscivo a ricordare un solo giorno – fosse stato anche di nebbia o pioggia – in cui lei avesse una faccia triste o anche solamente velata di malinconia. Non era una questione della piega della bocca, perché persino gli occhi di quella donna sorridevano!
A dire il vero all'anulare della sua mano sinistra risaltava il bagliore (un po' opaco però) di una fede nuziale, ma io non ero mai riuscito né a vedere né tanto meno a intravedere questo fantomatico marito.
Tornando ai fatti, la quotidianità dei nostri incontri ci aveva condotto, giorno dopo giorno, dai freddi e asettici “buongiorno”, ai meno formali “salve”, sino alla consuetudine insita in un “ciao”. Un ciao che ultimamente aveva aperto la via a qualche informale “tutto bene?”.
La vera svolta era avvenuta solo un paio di settimane fa, quando il peccato era andato a trovare l'eremita dando il via ad una vera e propria tradizione.
Alle ore 10:00, lei aveva preso la pessima – per me – abitudine di fermarsi sotto l'impalcatura, picchiettare sui tubi innocenti per richiamare la mia attenzione e attendere il mio trafelato arrivo per scambiare quattro chiacchiere prima di andare al bar a prendersi un caffè.
Chissà perché, ma le donne amano particolarmente la compagnia degli adulatori.
A onor del vero, la settimana scorsa è capitato l'irreparabile. No, non ho avuto il coraggio di fare io delle avance, c'è che lei m'ha invitato ad andare insieme a prendere un caffè.
Ora, la tazza con il caffè al suo interno è chiaramente un simbolo sessuale femminile. Fatta eccezione per le zitelle e le racchie, che acide come sono lo bevono amaro, le donne vere bevono il caffè mettendoci qualcosa dentro... per poi mescolare il tutto con il cucchiaino che è chiaramente un simbolo fallico!
Insomma, se una donna vi invita a prendere un caffè e siete un uomo, in realtà vi ha proposto ben altro.
Pertanto, a raccontarla proprio tutta, da qualche giorno, anche quando lei decideva di concedersi una semplice pausa, picchiettava sull'impalcatura. Quello in codice era il messaggio che lei desiderava avere un po' di compagnia al bar, perché – come tutti sanno – il caffè deve essere bevuto: da sedente, bollente, per niente ma anche in buona compagnia.
Solo che da qualche giorno lei preferiva ad una compagnia generica – chiunque – una compagnia specifica – qualcuno.
Insomma, nel giro di una settimana la mia giornata di lavoro s'era riempita di così tanti happy-hour che potevo tranquillamente parlare più sinteticamente di un happy-day.
Qualcuno dalla buona memoria a questo punto si starà ancora chiedendo cosa stessi facendo impalato davanti a quella vetrina, invece di essere al lavoro.
Ecco, ero prima salito e poi sceso dall'impalcatura per ispezionare lo stato d'avanzamento dei lavori.
Che cosa c'entra tutto questo con il soffermarsi a squadrare da capo ai piedi la negoziante?
Orbene, quello era il gesto con cui iniziavo e concludevo abitualmente ogni mia giornata di lavoro!
Fermarmi davanti a quella vetrina ad osservarla, era come timbrare il cartellino. Ecco perché questo era diventato il gesto con cui iniziavo e ultimavo ogni mia giornata di “lavoro”.
Lì la routine quotidiana si spegneva e s'accendeva un fantastico mondo fatto di sogno. Un universo parallelo in cui io, marito fedele, diventavo il più trasgressivo tra gli uomini.
Un peccatuccio veniale che consisteva nel nutrire la mia affamata fantasia. Lì lo spirito e solo a casa il corpo.
Lasciando da parte il passato e venendo al presente, stavo per tornare al focolare domestico. Impegni urgenti e improrogabili!
Fin qui nulla di diverso dal solito, cioè dal passato, sennonché quella sera, probabilmente, avrei messo in atto il mio folle progetto.
In un modo o nell'altro mi sarei dimostrato il più fedele tra i mariti, anche se mi sarei sentito definire da mia moglie in vari modi, da "allupato" a “zoticone” passando per tutto l'alfabeto.
Ebbe sì, era mia intenzione confidarle la “pazza idea” che lentamente era maturata dentro di me in tutti quei giorni.
Rimasi lontano fino a sera da quel luogo di tentazione, preferendo una lunga passeggiata nel parco cittadino. Poi, ricolmo d'ansia, montai sul furgone.
S'accese con difficoltà, quasi mi suggerisse che per questa sera sarebbe stato meglio non rincasare o perlomeno soprasedere su certe strane idee, ma alla fine il motore s'avviò.
« Alea jacta est! » dissi a gran voce nell'abitacolo.
Lungo tutto il tragitto non feci altro che grattarmi la testa, quasi la previsione di cosa sarebbe accaduto una volta rivelate a mia moglie le mie intenzioni mi pizzicasse il cuoio capelluto peggio di mille pulci.
Provai a riflettere convincendomi dei due punti chiave della mia decisione:
Avete presente un'altalena? Che c'azzecca l'altalena? Mi si consenta di spiegarvelo.
Innanzitutto Jasmine.
“Ritrovarsi e dirsi ciao” o un “venga a prendere il caffè... da noi” non avevano alcun legame con il fatto che lei fosse disponibile ad iniziare una relazione o ad avere una semplice avventura con me.
Poi c'era Margherita.
Proporle qualcosa così di botto, senza aver perlomeno sondato il terreno era un'idea a dir poco folle.
Quindi il fulcro della questione: Gianmarco, cioè io.
Già, come intendevo portare avanti la cosa?
Perbacco, vi sto confondendo le idee, me ne rendo conto perché mi sto mandando in confusione da solo
Innanzitutto vi devo "spifferare" in cosa consisterebbe la mia "impudica fissazione".
Ecco, da parecchi giorni ormai, il mio chiodo fisso era un rapporto a tre. Di conseguenza, quello che dovevo riuscire a organizzare era una tresca che si basasse su un particolare senso di complicità tra Margherita e la sorgente stessa dell'idea insana: Jasmine.
Quella negoziante mi stimolava il folle proposito di sperimentare qualcosa di "nuovo": la lussuria più sfrenata. Nel mezzo del cammin di nostra vita, volevo inspiegabilmente provare il sesso inteso e vissuto come piacere assoluto a prescindere dal numero e dal genere dei partner – anche se quest'ultima ipotesi (il genere) era tutta da verificare.
Il mio cervello matematico elaborò d'istinto un paio d'equazioni:
(+€)+=C
(+€)+€=D
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