Gisliberto e Goselmo

 Il mio sesto componimento è dedicato a Gisliberto e Goselmo, i due coraggiosi artefici della Traslazione delle reliquie di Sant’Agata da Costantinopoli a Catania, evento che viene celebrato nella nostra città ogni diciassette agosto. Quando il generale bizantino Giorgio Maniace venne in Sicilia per cercare di prenderne possesso e di cacciare da essa gli Arabi (1038), il suo progetto sortì un iniziale successo; in seguito, essendosi inimicata la corte imperiale, Maniace ricevette l’ordine di ritornare a Bisanzio. Pertanto egli, per mitigare le ire dell’imperatore, Michele Paflagonio, prima di rimpatriare fece incetta delle spoglie dei santi più venerati nell’isola: Sant’Agata, Santa Lucia, San Leone ed altri ancora. Era l’anno 1040 ed i Catanesi, radunati sulla spiaggia, assistettero disperati ed impotenti alla partenza della nave che portava via dalla propria città il corpo della Santa. Passarono ben ottantasei anni prima che la salma di Agata potesse rientrare a Catania. Nel 1126 la Chiesa catanese era presieduta dal vescovo Maurizio, il quale ha redatto una lettera che costituisce il resoconto primario delle vicende che saranno raccontate nel mio carme. Militavano in quel tempo nell’esercito bizantino, come ufficiali di corte, il francese Gisliberto (secondo altre grafie, Giliberto o Gilberto, probabilmente originario della Provenza, almeno a giudicare dal nome) ed il calabrese Goselmo (o Goselino; verosimilmente nella lettera di Maurizio calabrese sta per pugliese, secondo l’uso antico). Una notte Sant’Agata apparve in sogno a Gisliberto e gli comandò di andare nella chiesa dove erano custodite le sue spoglie (Santa Sofia [Reitano, p. 201] o il Monastero della Vergine [cfr. Amico, I, p. 352]) e ricondurle a Catania. La visione si ripeté altre due volte: allora Gisliberto, che nel frattempo si era confidato con Goselmo, decise di passare all’azione con l’aiuto del compagno. La notte del 20 Maggio i due s’introdussero nel tempio in cerca del corpo di Sant’Agata: quando lo trovarono, collocarono il busto in un cofano cosparso all’interno di rose profumate, la testa tra due scodelle e gli arti in due faretre; quindi, nascosero il tutto in casa di Goselmo. Il giorno seguente la notizia si sparse per la città e l’imperatore inviò uomini armati dappertutto alla ricerca degli autori del furto, proibendo a chiunque di lasciare Bisanzio per terra o per mare senza un permesso scritto. Gisliberto e Goselmo, non appena la calma si fu ristabilita, s’imbarcarono con le sacre spoglie. La prima tappa fu Smirne, dove rimasero quattro giorni: un terremoto li sorprese, mentre sistemavano meglio il contenuto delle faretre, provocando lo sconforto di Goselmo, al quale tuttavia un pronto e saggio discorso di Gisliberto restituì la perduta fede nel successo dell’impresa. Ripreso il viaggio, i due compagni sbarcarono a Corinto, dove restarono a lungo, perché non riuscivano a trovare un’imbarcazione su cui proseguire il tragitto verso la Sicilia. Sant’Agata riapparve in sogno a Gisliberto, rimproverandolo per il ritardo ed annunciandogli che l’indomani mattina sulla spiaggia una nave da carico sarebbe salpata: naturalmente, Gisliberto e Goselmo sarebbero dovuti salire a bordo. Essi obbedirono all’invito, verificando la veridicità della visione, ed arrivarono nella città greca di Metone. Qui, s’imbarcarono in compagnia di mercanti ed approdarono a Taranto. Nella città pugliese i due fecero celebrare una messa per la Santa, quindi, dopo un frugale pasto, tornarono sulla spiaggia per ricomporre le reliquie prima di continuare la navigazione: per errore, fu dimenticata una mammella, che in seguito stillò prodigiosamente latte dolcissimo e provocò lo sbalordimento dei Tarantini. Frattanto i due militi giunsero finalmente a Messina: Goselmo rimase in una chiesa a guardia delle spoglie, mentre Gisliberto si recò al Castello d’Aci, che allora faceva parte dei beni della Chiesa di Catania, dove si trovava il vescovo Maurizio. Gisliberto gli narrò ogni cosa e chiese al presule di inviare con lui due monaci di sua fiducia a Messina per appurare che si trattava effettivamente del corpo di Agata e per trasportarlo senza indugio ad Aci. Maurizio acconsentì alla sua richiesta e mandò Luca ed Oldomano, che portarono prontamente a termine l’incarico. Il vescovo accolse con grande giubilo i santi resti, inginocchiandosi per ringraziare Dio del felice evento, quindi estrasse le reliquie dalle faretre, da cui promanò un profumo di rose fresche. Maurizio, riposte diligentemente le spoglie in una cassa più degna di tale contenuto, si precipitò a Catania, dove chiamò a raccolta tutti i sacerdoti della propria diocesi e li mise al corrente di ciò che stava accadendo. Tra l’entusiasmo generale fu deciso di riportare il santo corpo a Catania e collocarlo nella Cattedrale che era stata edificata per volere di Ruggero I non molto dopo la liberazione della città dagli Arabi (la prima bolla pontificia relativa all’edificazione della nuova chiesa è datata 25 Aprile 1091). La notizia si diffuse ben presto fra il popolo catanese che si affrettò dal suo Pastore per avere conferma. Maurizio esortò gli astanti ad andare con vesti bianche insieme a lui incontro al fercolo proveniente da Aci, che frattanto si trovava già in cammino, accompagnato da una schiera di monaci e da Gisliberto e Goselmo. Maurizio procedeva scalzo in segno d’umiltà. Era il pomeriggio del 17 Agosto 1126. Ad Ognina i Catanesi riabbracciarono la loro Patrona e più volte si levò in quell’occasione il grido “Cittadini, viva Sant’Agata”, come ancora oggi è possibile udire in entrambe le feste dedicate alla Santa; solo a fatica la processione poté proseguire fino alla sua meta. Cominciarono a questo punto ad aver luogo diversi miracoli: il primo registrato ebbe per protagonisti due ragazzi, i cui ceri non si spensero per l’intero percorso, nonostante il soffiare del vento. Quando poi la Cattedrale accolse le sante spoglie, si verificarono prodigi ben più consistenti: ci furono ciechi dalla nascita che recuperarono la vista, muti che presero a parlare, paralitici che riacquistarono l’uso delle proprie gambe ed indemoniati che furono resi liberi dalla presenza maligna. Maurizio nella sua lettera non parla della sorte occorsa a Gisliberto e Goselmo, ma la tradizione vuole che siano rimasti a Catania, svolgendo l’ufficio di custodi delle reliquie nella Cattedrale, dove sono sepolti, in un punto imprecisabile della Cappella della Madonna (http://digilander.libero.it/assoragala/reliquie.htm). C’è da aggiungere che la Traslazione, ossia il passaggio da Est ad Ovest delle reliquie agatine, ha forse anche un significato simbolico, in quanto coincise con la totale emancipazione della Chiesa siciliana da quella d’Oriente, in ottemperanza alla politica normanna nell’Italia meridionale. Inoltre, il particolare dei piedi nudi e dei vestiti bianchi di Maurizio (e della folla) sembra fornire una spiegazione dell’origine degli analoghi rituali presenti nella celebrazione della festa di Sant’Agata, seppure in realtà non siano estranei influssi riconducibili ai culti isiaci del tardo paganesimo (E. Ciaceri, Culti e miti dell’antica Sicilia, Catania 1911, pp. 265-269). Per chi voglia saperne di più,

Vito Maria Amico, Catana illustrata sive sacra et civilis urbis Catanae historia, traduzione di Vincenzo di Maria, Catania 1989, pp. 375-382 (peraltro, è riportata gran parte del testo della lettera di Maurizio);  

Santi Correnti, La città semprerifiorente, Catania 1976, pp. 136-137;

Francesco Ferrara, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII, Catania 1829, pp. 38-39;

Tino Giuffrida, Catania, dalle origini alla dominazione normanna, Catania 1979, pp. 216-217;

Giovanni Battista Palma, Istoria di Sant’Agata, poema in lingua siciliana del secolo XV con illustrazioni, Milano 1940 (Palma è il curatore dell’edizione, l’autore del poema è Antonio d’Olivieri);

Silvia Reitano, Sant’Agata, Torino 1926, pp. 198-205.

  

 

Gisliberto e Goselmo

Giovane donna di beltà divina

apparve in sogno al franco Gisliberto,

prode soldato e di milizia esperto

di guardia nella corte bizantina;

portava indosso un abito disfatto

e due mozze mammelle sopra un piatto,

ma riluceva la sua vaga immagine

come ricinta d’immortalità.

 

«Fammi tornare, o Gisliberto, a casa -

disse la donna - dopo il lungo esilio,

seguendo il corso dei Penati d’Ilio,

quando fu Troia in fiamme al suolo rasa;

fa’ che m’accolga in patria il nuovo tempio

col quale rinnovato fu l’esempio

dei pii Giudei, da Babilonia reduci,

quando finì la rea cattività».

 

«Tu sei - le mani ardite a lei protese,

esclamò stupefatto Gisliberto -

non creatura di quaggiù, ma certo

un angelo di Dio che vi discese,

ché la tua voce supera l’umana

parola» ed afferrando l’ombra vana,

che disparve alla presa come l’aria

fra le dita serrate, si destò.

 

Subito allora si levò dal letto,

quindi calzati la corazza e l’elmo

se ne corse dal calabro Goselmo,

suo compagno fidato e prediletto,

e lo trovò sul pavimento chino,

intento alle preghiere del mattino:

attese Gisliberto il loro termine

e poi lo strano sogno raccontò.

 

L’altro gli disse: «Se fu solo un sogno,

deponi dalla mente ogni pensiero:

ma se ciò che ti fu svelato è vero,

d’una conferma, invece, hai tu bisogno.

Nel frattempo allontana ogni timore

e spera nell’aiuto del Signore

che sempre ci dispensa la Sua Grazia:

sia fatta la divina Volontà».

 

A Gisliberto, infatti, quella notte

durante il sonno rïapparve ancora

per due volte la giovane Signora

col piatto in mano e su le vesti rotte.

Ripeteva: «Per me non hai riguardi,

tu che l’ora del mio ritorno tardi?».

Corse il Francese, appena sveglio, subito

dal suo compagno a gran velocità.

 

«Sant’Agata, patrona catanese -

Goselmo gli spiegò con voce calma -

vuole che tu riporti la sua salma

da queste sponde al suo natio paese.

A ponente, lasciato l’Ellesponto,

la prua rivolgi: sotto l’Etna è pronto

il santüario che promise il provvido

Ruggero, quando i Mori cacciò via».

 

Sussultò sbigottito Gisliberto,

sentendosi chiamare al duro impegno,

del quale non credeva essere degno,

tra sì e no di primo acchito incerto;

appena il tempo di pensarci un poco

che lo pervase come un sacro fuoco,

forse la vampa del verace Spirito,

e disse volto al suo compagno: «Sia.

 

O miei nativi campi di Provenza,

un dì vi dissi addio senza paura,

preferendo alle messi l’avventura

ed al tetto paterno la partenza;

poi dell’Impero messomi al servizio,

meritai con la spada quest’uffizio,

ma se diserto la mia nuova patria,

un’altra dove mai ne troverò?

 

Eppure sento come per istinto

che rimettermi devo al mio destino

e dinanzi al disegno alto e divino

senza contrasto dichiararmi vinto;

di questo piano sono parte anch’io,

sicché bisogna confidare in Dio:

avrò dove abitare od il martirio»

e con tali parole terminò.

 

Intento era Goselmo al pio discorso

del compagno, ammirandone il coraggio,

e deciso trovandolo al vïaggio

non gli volle negare il suo soccorso.

«Amico» disse «non potrai da solo

entrare in chiesa e poi fuggire al molo

per imbarcarti con le sante spoglie:

perciò, ti prego, portami con te».

 

Gisliberto rispose a lui commosso:

«Amico mio nei casi lieti e tristi,

la tua bontà non oggi mi scopristi:

da qui partire senza te non posso.

Domani, quando poi mi cercheranno,

a te non voglio che ne venga il danno,

perché, per mio compagno conoscendoti,

a chiederti verrebbero di me.

 

Sapresti tu mentire alla bisogna,

deponendo l’usata cortesia,

tu che mai proferisti una bugia

ed ignori che voglia dir menzogna?

Se resterai, sarà per te la morte:

comune, quindi, sia la nostra sorte

e col soccorso della Santa Martire

al mio fianco in Sicilia sbarcherai».

 

Si cinsero l’un l’altro con fraterna

e vigorosa stretta delle braccia,

poi rimanendo faccia contro faccia

fecero voto d’amicizia eterna:

«Noi ti giuriamo di restare insieme

fino anche alle fatali ore supreme,

o celeste Tutrice: il sacro vincolo

da sorte avversa non sia sciolto mai!».

 

Finalmente si misero per via

nell’ora che Bisanzio era deserta

e col favore della notte incerta

Gisliberto varcò Santa Sofia

dalla finestra in cerca della spoglia;

Goselmo, intanto, a guardia sulla soglia

restò, l’orecchio teso nel silenzio,

lo sguardo immerso nell’oscurità.

 

Gisliberto qua e là cercò la cassa

in cui posava intatto il corpo santo

e, dopo aver provato in ogni canto,

trovandola esclamò con fronte bassa:

«Questa, o Beata, è la tua forma vera,

ma come fare a trasportarla intera?»

e da dentro, all’ingresso avvicinatosi,

pregò l’amico di venire là.

 

Montò Goselmo sulla scala a pioli

usata dal compagno per entrare

e giunto s’inchinò verso l’altare,

recitando tra sé: Domine, noli.

Compiuta ch’ebbe la sua pia preghiera,

con Gisliberto si recò dov’era

l’arca onorata con i resti d’Agata

e lì per un momento meditò.

 

L’altro, su suo consiglio, il torso monco

della testa in un cofano compose

e lo cosparse di fragranti rose,

tra due scodelle messo il capo tronco;

quindi ogni arto infilò dentro turcassi

e ritornando poi sui propri passi,

presso la casa del leale socio

senza indugiare il tutto trasportò.

 

Goselmo gli diceva: «O buon fratello,

non ci conviene subito salpare,

per poi farci sorprendere sul mare

a giorni con un simile fardello

dalle squadre mandate dal Sovrano

a controllare ogni battello strano,

se per caso nasconda le reliquie,

non appena del furto egli saprà.

 

E gireranno ronde in ogni strada:

perciò dovremo attendere al sicuro

che per la fuga il tempo sia maturo,

quando avverrà che l’interesse cada

e nuovamente domini la calma.

Soltanto allora la divina salma

al mare affideremo ed allo zefiro

per ricondurla nella sua città».

 

Come Bisanzio tutta si fu desta

l’indomani mattina e fu scoperto

il pio saccheggio, un sùbito sconcerto

si sparse intorno tra la gente mesta.

Appreso il fatto, il nobile Commeno

Imperatore, di sgomento pieno,

comandò: «Le frontiere si sorveglino:

nessuno dal pomerio uscire può».

 

In ogni parte fu mandato un messo

per trasmettere ai sudditi il decreto

del Principe con cui si pose il veto

d’andar fuori città senza permesso.

Cadde a vuoto il proposito regale:

consiglio umano contro Dio non vale,

il Cui volere non incontra ostacoli

e neppure in quel caso ne incontrò.

 

I due compagni, vari giorni dopo,

andarono sicuri fino al porto

a cercare una barca da trasporto

che fosse confacente al loro scopo;

e qui, senza ricevere nessuna

obiezione o domanda inopportuna,

le vele issate al vento dispiegarono

prendendo il largo con tranquillità.

 

Il loro primo sbarco s’ebbe a Smirne

dove per poco fecero soggiorno

e quando sopraggiunse il quarto giorno

ormai si disponevano a partirne,

ma nel rïordinare le faretre

videro all’orizzonte nubi tetre

ed una scossa intorno come un turbine

si scatenò con grande intensità.

 

Goselmo ne provò tale spavento

che sentì vacillare la sua fede:

così dubbioso il designato erede

di Cristo, mentre alla mercé del vento

era il suo scafo, come il buon Maestro,

sull’acqua camminò, ma fu maldestro

e quasi le sue gambe sprofondavano

quando accorse afferrandolo Gesù.

 

Per rincuorarlo e dare a lui conforto,

vedendo come il cuore avesse incerto,

tali parole disse Gisliberto:

«Fratello caro, tu fai grande torto

al cielo ed alla somma Provvidenza,

se fra noi non avverti la presenza

di Dio che prova i forti nel pericolo

e tempra col dolore la virtù.

 

Pertanto, s’abbandonino gli affanni:

se noi conduce Chi non ha magagna

ed Agata divina ci accompagna,

non ne potranno mai venire danni.

Altrimenti, perché la Santa stessa

avrebbe tale impresa a noi commessa?

Perché fosse compiuto, il grave incarico

ella, tre volte apparsa, m’affidò».

 

Goselmo pienamente fu d’accordo

con le ragioni esposte dal compagno,

dicendo: «Come un folle ora mi lagno,

se del favore di lassù mi scordo».

Volta la mente a Dio con abbandono,

della propria viltà chiese perdono

e, ripresa l’antica forza d’animo,

con Gisliberto ancora s’imbarcò.

 

In seguito approdarono a Corinto,

dove a lungo sospesero il vïaggio,

non trovando per mare alcun passaggio,

quando una notte, dal sopore avvinto,

Gisliberto rivide la sua Santa

che lo rimproverò con voce affranta

dell’indugio: «Una nave al porto l’ancora

domani - gli predisse - leverà.

 

Perciò dovete domattina presto

correre al molo per salirvi a bordo».

All’invito celeste non fu sordo

Gisliberto ed appena si fu desto,

come ordinò la volontà divina,

s’affrettò con Goselmo alla marina,

dove un vascello d’ogni merce carico

era pronto a partirsene di là.

 

I due senza pericolo di vita,

grazie all’ invitta e santa protezione,

pervennero alla spiaggia di Metone:

e qui, come dispose l’infinita

bontà di Dio, s’unirono a mercanti,

volendo fermamente andare avanti

fino alla meta, ed oltre il mare a Taranto

la loro nave l’ancora gettò.

 

Una messa fu fatta celebrare

in città per la Santa e, preso il pasto,

per custodirne meglio il corpo casto

tornarono di nuovo presso il mare:

le membra ricomposero di Quella

dentro i turcassi, tranne una mammella

che poco dopo stupì tutta Taranto

quando un latte dolcissimo stillò.

 

Dopo che della Vergine divina

la salma nella stiva fu riposta,

i due, volte le spalle a quella costa,

in breve tempo giunsero a Messina.

Gisliberto, lasciato alla difesa

delle spoglie Goselmo in una chiesa,

venne ad Aci dal vescovo Maurizio,

che d’Agata reggeva la città.

 

Avendolo trovato nel Castello

del vescovado etneo facente parte,

lo pregò di riceverlo in disparte.

Porse l’altro la mano con l’anello

assentendo all’insolita richiesta

e quindi con un cenno della testa

verso la porta dell’attigua camera

«Seguitemi - gli disse - per di qua».

 

Esordì faccia a faccia Gisliberto:

«Caro padre, ho da darvi una notizia

che vi ricolmerà d’ogni letizia,

seppure impegno costi a voi, ma certo

siete il mercante che trovò la perla

e vendette ogni bene per averla:

a Bisanzio rubai le spoglie d’Agata,

se dire furto la pietà si può».

 

«Su, non tenere l’animo sospeso

all’intera città, non a me solo. -

Maurizio l’interruppe - O buon figliolo,

perché le fosse finalmente reso

quel sacro, inestimabile Tesoro,

sarei pronto ad offrire tutto l’oro

che possiedo, bandita ogni avarizia:

tu fissa un prezzo ed io lo pagherò».

 

Rispose Gisliberto: «Un tempo brama

d’altro non ebbi che d’un nome chiaro,

pur non venni per fama o per denaro,

ma per Colei che di lassù mi chiama

al passo che la Grazia mi destina

e le cui spoglie serba ora a Messina

un mio compagno: due fidati monaci

al più presto mandate là con me».

 

Il presule, accettando la proposta,

mandò a Messina Luca ed Oldomano

ad accogliere d’Agata l’umano

per poi tornare senza farvi sosta;

la coppia, della scelta essendo degna,

eseguì prontamente la consegna

e venne loro incontro il buon Maurizio

per la felicità fuori di sé.

 

«O Signore cortese, io Ti ringrazio

d’avermi riservato a questo giorno

in cui m’è dato assistere al ritorno

della Santa: ora posso dirmi sazio».

Così pregava ed era genuflesso,

poi vuotò le faretre e nello stesso

momento per miracolo un effluvio

di rose intorno a lui si propagò.

 

Riposte le reliquie in una teca,

sentendo in cuore una divina smania,

fece ritorno subito a Catania,

come l’araldo che di corsa reca

notizie di cui l’animo si bea;

quando giunse, raccolse in assemblea

i sacerdoti della sua dïocesi

e quanto era successo raccontò.

 

Tutti, proteso al cielo il proprio viso,

somma lode innalzarono al Signore,

in Lui riconoscendo il primo autore

del magnifico evento, e fu deciso

in quel consesso di comune intesa

di tradurre la salma nella chiesa

che dedicò Ruggero al nume d’Agata

laddove il suo martirio si compì.

 

Per tutta la città rapidamente

di bocca in bocca la novella corse

e sparsa per le strade, ancora in forse,

dal suo pastore si recò la gente

fino all’interno della Cattedrale,

gridando fra la gioia generale

con fervida pietà: «Viva Sant’Agata

che da levante è ritornata qui».

 

«O miei fratelli cari, o pie sorelle,

vera è la voce che tra voi risuona:

tornò la nostra nobile Patrona,

cui furono mozzate le mammelle

perché non abiurò la propria fede

e le cui spoglie, come ambite prede

atte a placare i crucci del suo Cesare,

a Bisanzio Maniace trasportò».

 

Così parlò Maurizio e poi soggiunse:

«Ora Ella viene dal Castello d’Aci

in compagnia di due guerrieri audaci

a cui nel sonno Agata stessa ingiunse

di ricondurne in patria i sacri resti:

incontro andiamo insieme in bianche vesti

alla Beata ed al corteo di monaci»

e con tali parole terminò.

 

Da tutti fu lodato il suo consiglio:

ciascuno si vestì da pellegrino,

mettendosi poi subito in cammino

con cuore lieto e lacrimoso ciglio.

I cittadini, contrastando gli usi

comuni, procedevano confusi,

patrizi e popolani, ricchi e poveri,

uomini e donne di diversa età.

 

Per modestia Maurizio a piedi nudi

avanzava ed avvolti aveva i fianchi

dei suoi vestiti vescovili bianchi;

intanto incontenibili tripudi

d’ogni sorta echeggiavano dintorno

a salutare il prossimo ritorno

della Patrona, immacolata Martire,

dopo l’esilio nella sua città.

 

Quand’ecco apparve ad Ògnina la cassa,

in quel felice diciassette agosto,

e colma d’euforia dal verso opposto

accorse allora un’indistinta massa

a porgerle un festoso benvenuto,

mentre dovunque, unanime saluto,

«Cittadini, - s’udì - Viva Sant’Agata»

e più volte quel grido rintronò.

 

Il fercolo rimase a lungo fermo,

poiché frenò la folla il suo vïaggio,

ed a forza gli aprirono un passaggio,

di sé facendo alla sua marcia schermo,

i militi presenti per la scorta:

«Qui dov’è nata e giovinetta è morta

meritando la palma del martirio -

dicevano i devoti - Ella tornò».

 

Tra lunghi applausi alla città natale,

dopo una quasi secolare attesa,

finalmente la Reduce fu resa

e trovò posto nella Cattedrale;

suonavano solenni le campane

e nei dintorni guarigioni strane

avvennero frattanto ed una serie

di prodigi e miracoli ci fu.

 

Al seguito Goselmo e Gisliberto

entrarono a Catania come eroi:

«Per sempre qua restate insieme a noi

e troverete ogni cancello aperto».

Così dissero loro i cittadini;

restarono i due militi agatini,

additati ad esempio, finché vissero,

di pietà, d’amicizia e di virtù.

 

Marco Tullio Messina