Mario Luzi

Nacque a Firenze, 20 ottobre 1914. Mori 28 febbraio 2005 Firenze

Il tema dominante delle sue poesia  è quello della celebrazione drammatica della autobiografia

dove viene messo in risalto il drammatico conflitto tra un IO portato per le cose sublimi

 e le scene terrestri che gli vengono proposte.

Nel 2004 è stato nominato “Senatore a vita” dal Capo dello Stato Ciampi.

 

Alla Vita


Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.

Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.

Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.



 

Bureau

Lo vedo, appena oltre la soglia, in piedi al suo posto,
piegato sul suo banco, indifferente
alla febbre smorzata che agita
quella luce d'acquario e di falso tempio
e ne sono oscuramente respinto e attratto.
Intanto rialza sulla sua fatica il viso
e col viso uno sguardo di malato o d'ebete svuotato e bianco.
Ravvisarlo no, ma a una fitta improvvisa so che non è estraneo
al mio passato e mentre lui mi fissa
lo vo cercando non tra le amicizie,
tra i rancori sordi e inesplicabili dell'età più candida.
«Come mai qui?» mi chiede lui
calcando le parole più del giusto,
a meno non sia io già troppo amaro e ispido.
Forse non è che un vuoto intercalare d'uomo spremuto
d'ogni linfa e affranto
e mi basta a ravvivare
la ruggine impalpabile che fu tra noi in altro tempo poco
dopo l'infanzia.
Lo guardo senza rispondere in quel giro di scansie e di carte

e mi chiedo se quello è il suo reame
o il carcere che l'ha avvilito e spento.
«Come leggere un destino in un volto a tal punto
inespressivo»
mi dico, mentre cade di colpo il mio malanimo
e anzi desidero mi parli ancora, magari a lungo.
Così taccio davanti a lui che aspetta
aspettando a mia volta e intanto penso
se non ci sia in questo viso a viso
qualcosa non dovuto al caso soltanto
per un debito da estinguere con una età non morta
sia pur essa lontana o perché un oscuro fine s'adempia.
«La ragazza cadde in tuo potere, ma non ebbe a
gloriarsene
a quanto ne so io» grandina sul mio volto
la sua voce piagnucolosa e assente
non senza forza di nuocere, animando
d'un ghigno o d'un sorriso quella maschera assai peggio
del pianto.
«Oh non andò come tu credi» rispondo
e frattanto rivedo il dove e il quando
e in un preciso angolo il suo aspetto già allora di tarma.
Non penso a difendermi, penso al nodo
di quella sofferenza rimasto fermo
e serrato in un punto della sua vita, senza riscatto.
«Conosco i tipi come te. Sacrificano
se stessi e il loro prossimo, accecati da una presunzione di arte.
Nemmeno ti passa per la mente quel che si perde, alle volte.»
E dopo un po' riprende: «Era la mia salvezza e anche la sua»
e acuisce lo sguardo di quel tanto
che affiorano infine due pupille
fissate su di me da quel bianco.
«Chi può dirlo» ardisco non trovando altra parola
che ci accomuni nell'oscuro senso
del bene e del male ricevuti e fatti.
Ma non è uomo da venirmi incontro
su questo punto che dovrebbe unirci
come compagni esperti del dolore del mondo.
Lo vedo chiuso nella propria offesa serrare i denti
e non so se recrimina o se cova
così la forza di sfidare il suo inferno.
Il silenzio che segue nella stanza
dove non siamo soli, eppure deserta,
è un silenzio enorme, senza confini né tempo,
mentre l'elica del ventilatore ronza
e ruota con un fremito di carte smosse
e io penso alla lotta per la vita nei fondali marini e al plancton.

«Non sono ancora finito» esplode poi
con occhi stralunati
fiatandomi nel viso il suo respiro forte di tabacco e d'alcool.

«Non pià di me, non più di chiunque altro»
mormoro risucchiato dalla sua vampa
e guardo di là dai vetri la calca
in cui tra poco sarò scomparso.



 

L'Uno e l'Altro


«Rimanere fedeli, legare agli altri il suo destino,
questo conta pur qualcosa» insiste lui
torcendo in una smorfia dubbia il viso, il suo viso di uomo nel torto.
«Questo conta pur qualcosa» risponde lei
sopra pensiero e guarda fuori l'opera del vento
da un capo all'altro della valle lasciata a pascolo.
«Se la pensi così è una fortuna.
La virtù, di questi tempi, tenuta per uno straccio e irrisa...»
prende e sposta con solennit… la mano tra il volante e il cambio.
«Oh certo» trasale lei che guarda
venire incontro da lontano i monti
e serrarsi sul rettifilo di asfalto.
«Certo» e le sfugge dalle labbra un suono
tra il gemito e lo schiocco di dentiera smossa.

Segue un attimo di silenzio, lungo
per me più che per loro, mentre penso
quale degli elementi manca, il fuoco
o l'aria, in questa cellula morta.
E frattanto li osservo quali sono,
dissimili, ma uguali in questo, che si muovono inutilmente cauti
e si tengono al largo del vero scopo e del vero cruccio.
«E' l'amore, l'amore che manca
se ne aveste notizia
o se aveste coraggio a nominarlo»
mi volgo loro tra me e me, e il tempo, il luogo perde ogni contorno
e mi striscia davanti un'ombra o una coda di opossum.




Ménage

La rivedo ora non più sola, diversa,
nella stanza più interna della casa,
nella luce unita, senza colore né tempo, filtrata dalle tende,
con le gambe tirate sul divano, accoccolata
accanto al giradischi tenuto basso.
«Non in questa vita, in un'altra» folgora il suo sguardo gioioso
eppure più evasivo e come offeso
dalla presenza dell'uomo che la limita e la schiaccia.
«Non in questa vita, in un'altra» le leggo bene in fondo alle pupille.
E' donna non solo da pensarlo, da esserne fieramente certa.
E non è questa l'ultima sua grazia.
in un tempo come il nostro che pure non le è estraneo né avverso.
«Conosci mio marito, mi sembra» e lui sciorina un sorriso importunato,
pronto quanto fuggevole, quasi voglia scrollarsela di dosso
e ricacciarla indietro, di là da una parete di nebbia e d'anni;
e mentre mi s'accosta ha l'aria di chi viene
da solo a solo, tra uomini, al dunque.
«C'è qualcosa da cavare dai sogni?»
mi chiede fissando su di me i suoi occhi vuoti
e bianchi, non so se di seviziatore, in qualche "villa triste",
o di guru.
«Qualcosa di che genere?»
e guardo lei che raggia tenerezza
verso di me dal biondo del suo sguardo fluido e arguto
e un poco mi compiange, credo,
d'essere sotto quelle grinfie.
«I sogni di un'anima matura ad accogliere il divino
sono sogni che fanno luce; ma a un livello più basso
sono indegni, espressione dell'animale e basta» aggiunge
e punta i suoi occhi impenetrabili che non so se guardano e dove.
Ancora non intendo se m'interroga
o continua per conto suo un discorso senza origine né fine
e neppure se parla con orgoglio
o qualcosa buio e inconsolabile gli piange dentro.
«Ma perché parlare di sogni» penso
e cerco per la mia mente un nido
in lei che è qui, presente in questo attimo del mondo.
«E lei non sta facendo un sogno?»
riprende mentre sale dalla strada
un grido di bambini, vitreo, che agghiaccia il sangue.
«Forse, il confine tra il reale e il sogno...» mormoro
e ascolto la punta di zaffiro
negli ultimi solchi senza note e lo scatto.
«Non in questa vita, in un'altra» esulta più che mai
sgorgando una luce insostenibile
lo sguardo di lei fiera che ostenta altri pensieri
dall'uomo di cui porta, e forse li desidera, le carezze e il giogo.


 

D'Intesa

Il seguito d'esistenze umane non votato a morte ma al ritorno.
Le conosco bene questi pensieri
anche se ora tace e guarda sotto il ponte
il Tamigi grigio solcato da poche chiatte.
Non è molto che abbiamo alla luce bassa scorto
scolpiti nella stessa positura
che ebbero stesi al suolo sotto i colpi i cavalieri del Temple.
Ed è mente la sua da non restringere
a un caso senza legge occulta l'aspetto
di quella cruda fine d'iniziati
né la nostra visita al luogo tra le tombe a fior di terra in quel punto.
«Ti basti che io sia qui» immagino di dirle
per vincere il silenzio
spesso che solo un poco ci appartiene, non per sfida o vanto.
Ma non ha senso alcuno richiamarla
a una certezza così imperfetta ed angusta
mentre indaga e scruta segni almanaccando
ammirevole del resto
per come le parla da ogni pietra
o volto la religione del mondo.
Le anime di pochi, affinate, elette a conoscere il principio.
Indovino ora il suo tormento
mentre tace e mi guarda fine e intensa
non senza una luce arguta di sospetto
che io ne rida e la giudichi una testa piena di vento.
«Ah perché non mi credi fino in fondo»
continua senza parole
ritmata dallo sciacquio del fiume
quella disputa antica quanto la mente
e non tra me e lei,
in ciascuno di noi, tra l'una e l'altra sua parte.



 

In Due

"Aiutami" e si copre con le mani il viso
tirato, roso da una gelosia senile,
che non muove a pietà come vorrebbe ma a sgomento e a orrore.
«Solo tu puoi farlo» insistono di là da quello schermo
le sue labbra dure
e secche, compresse dalle palme, farfugliando.
Non trovo risposta, la guardo
offeso dalla mia freddezza vibrare a tratti
dai gomiti puntati sui ginocchi alla nuca scialba.
«L'amore snaturato, l'amore infedele al suo principio»
rifletto, e aduno le potenze della mente
in un punto solo tra desiderio e ricordo
e penso non a lei
ma al viaggio con lei tra cielo e terra
per una strada d'altipiano che taglia
la coltre d'erba brucata da pochi armenti.
«Vedi, non trovi in fondo a te una parola»
gemono quelle labbra tormentose
schiacciate contro i denti, mentre taccio
e cerco sopra la sua testa la centina di fuoco dei monti.
Lei aspetta e intanto non sfugge alle sue antenne
quanto le sia lontano in questo momento
che m'apre le sue piaghe e io la desidero e la penso
com'era in altri tempi, in altri versanti.
«Perché difendere un amore distorto dal suo fine,
quando non è più crescita
né moltiplicazione gioiosa d'ogni bene,
ma limite possessivo e basta» vorrei chiedere
ma non a lei che ora dietro le sue mani piange scossa da un brivido,
a me che forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo.
"Anche questo è amore, quando avrai imparato a ravvisarlo
in questa specie dimessa,
in questo aspetto avvilito" mi rispondono, e un poco ne ho paura
e un po' vergogna, quelle mani ossute
e tese da cui scende qualche lacrima tra dito e dito spicciando.


 

Ma Dove

"Non è più qui" insinua una voce di sorpresa
"il cuore della tua città" e si perde
nel dedalo già buio
se non fosse una luce
piovosa di primavera in erba
visibile al di sopra dei tetti alti.
Io non so che rispondere e osservo
le api di questo viridario antico,
i doratori d'angeli, di stipi,
i lavoranti di metalli e d'ebani
chiudere ad uno ad uno i vecchi antri
e spandersi un po' lieti e un po' spauriti nei vicoli attorno.
«Non è più qui, ma dove?» mi domando
mentre l'accidentale e il necessario
imbrogliano l'occhio della mente
e penso a me e ai miei compagni, al rotto
conversare con quelle anime in pena
di una vita che quaglia poco, al perdersi
del loro brulicame di pensieri in cerca di un polo.
Qualcuno cede, qualcuno resiste nella sua fede tenuta stretta.
 


 

Prima di Sera

«Credi, credi di conoscermi» recita lei quasi parlando al vento
e osserva contro sole la polvere
strisciare sullo stradone deserto.
«Appartieni troppo a te stesso» insiste ad accusarmi
prolungando la pena dell'indugio
quella parte di lei che ancora combatte
avvilita e altera nella macchina ferma.
Ma le suona falso l'argomento
e ne scorgo sul cristallo la larva
che spenge d'un sorriso
dimesso le parole appena dette.
"Oh di questo hai anche troppo sofferto" aggiunge poi
[quasi portando fiori
sul luogo, un'orticaia, dove mi ha crocifisso.
"Vanamente" mormoro più che dal rimorso
toccato da quel tono
di persistente, doloroso affetto;
e ora vorrei non le sembrasse indegno
cercare in altri la causa
del suo male, fosse pure il mio torto.
«Vanamente» e mi viene non so se dal ricordo
o dal sogno un'immagine di lei
gracile, impalata nella sua altezza, che guarda un fiume
dall'argine e, poco oltre la foce,
la lacca grigia del mare oscurarsi.
"Lascia perdere" dice lei con la voce di chi torna
dopo un'assenza di anni sul luogo stesso
e raduna le spoglie lasciate in altri tempi, dopo lo scacco.
"Perché non è in nostro potere richiamarci"
mi chiedo io sorpreso che sia lì, ferma, sul sedile accanto.
"Che intesa può darsi senza luce di speranza?
Perché la speranza è irreversibile" commenta
il suo silenzio rigido senza più lotta
mentre abbassa risoluta la maniglia
e getta un'occhiata di squincio al casamento, alto, che tra poco la inghiotte.

 


 

Terrazza

"Perché sono nato nell'umano"
mormora lui vedendola mentire
e non perdere nulla della sua grazia
di movenze felpate e caute
e intanto storna gli occhi da lei quasi a scrutare
la natura del suolo che accoglie
l'animale leggiadro e ambiguo che gli sta dinanzi svariando.
Lei scherza con gli altri, non so quanto inconsapevole
che lui davvero sanguina
dalla felicità d'appena ieri e dalla sua speranza recisa
viva dalla mente.
E' in età da accusare in pieno questo colpo - mi dico
e guardo con i suoi occhi quel brano
di campagna pulita sulle colline
infittirsi d'ombre nel vallone di fronte
e giù la parte bassa del borgo e il fiume.
"Credi che il mio animo sia in pace
per quel poco d'anni che ho in più e di arte"
mi rivolgo a lui nel mio silenzio
quasi importi questo confronto
e non la sua interezza di cristallo
mandata in frantumi tutta dal primo urto.
«Sì, perché sono nato nell'umano»
ripete lui senza fissarmi in viso il suo sguardo fermo
e io non trovo parole a consolarlo,
sento il morso del rimprovero soltanto
che mi viene da quel dolore giovane, senza schermo.
«Oh non mi fulminare in questo aspetto né in altro.
Non negarmi il mutamento e la vita» lampeggiano rapiti
e tristi gli occhi di lei
quasi scorga in basso lungo i tornanti
noi altri seminati dalla sua corsa e vinti.
"Spiriti di natura ancora spessa, chiusi alla rivelazione del segreto"
rifiorisce improvviso questo pensiero
appreso da lei e passato di mente
mentre lui stupisce volgendosi a quel fuoco inafferrabile
non so se come il cane
levato alto verso l'uva in qualche fregio di portale o
come a insidia di serpente.
Lei tace, lo fissa dal crocchio che le fa ressa e festa d'intorno
e tra ciglia e zigomi le cala un'ombra.

 


 

L'India

Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,
(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)
mentre mostra a lungo lo schermo
sul selciato una moltitudine
stecchita in una posa tra sonno e morte
levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell'alba.
Né forse la colpisce il primo aspetto
ma un altro più recondito, e vede
una giustizia di diverso stampo
in quella sofferenza di paria
orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.
«Avere o non avere la sua parte in questa vita»
riemerge in parole il suo pensiero - ma solo un lembo.
E io ne tiro a me quella frangia
ansioso mi confidi tutto l'altro,
attento non mi rubi niente
di lei, neppure l'amarezza, ed attendo.
S'interrompe invece. Seguono altre immagini dell'India
e nel loro riverbero le colgo
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba
quasi mi lasci quella grazia in pegno
di lei mentre si eclissa nella sua pena
e l'idea di se stessa le muore dentro.
«Perché porti quel giogo, perché non insorgi»
mi trattengo appena dal gridarle,
soffrendo perché soffre, certo,
ma più ancora perché lascia la presa
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo.
«Ascoltami» comincio a mormorarle
e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor
e a lei che sul punto di partire
mi guarda da dietro la lampada
della sua solitudine tenuta alzata di fronte.
«Mario» mi previene lei che indovina il resto. «Ancora
levi come una spada, buona a che?,
lo sdegno per le cose che ti resistono.
Uomo chiuso all'intelligenza del diverso,
negato all'amore: del mondo, intendo, di Dio dunque»
e indulge a una smorfia fine di scherno
per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.
«Davvero vorrei tu avessi vinto»
le dico con affetto incontenibile, più tardi,
mentre scorre in un brusio d'api, nel film senza commento, l'India.



 

Dopo la Festa

Siamo già ai commiati quando vengono alla ribalta per caso
i due ultimi sbucati non so da quale profondità del party,
maestro e discepolo forse, due insomma fermi al
sottinteso patto
che l'uno è uomo di poteri ampi, lungimirante, saggio,
l'altro il pivello fervoroso, tributario in tutto del vecchio.
Questi gli fa posto sul divano, accanto a sé,
si mostra un po' stanco, sì, ma non meno pronto a dargli udienza.
«Che uomo» dice, ma senza nominarlo,
la padrona di casa ai suoi ospiti
che sul punto di andarsene le si stringono attorno per gli addii
 e fanno ressa verso il vestibolo e la porta.
«Lei almeno rimanga ancora un po'»
mi fredda sul passaggio il suo sorriso
mentre s'anima tutta nella spola
tra il guardaroba e gli estremi convenevoli
fatti con la dovuta grazia sulla soglia.
Poco dopo si è soli nella stanza lei ed io
quasi tornati in noi a raccogliere insieme i magri frutti,
meditando sul vano della festa,
eletti a cose più alte e solo un po' indulgenti con le frivole,
 com'è giusto.
Lei ed io e quei due che ancora parlano
e lei adocchia di continuo come l'ultima speranza di [riscatto.
«Non creda non conosca i suoi pensieri. Per di più li condivido»
dice tirando in un guizzo altero il filo
delle labbra rugose e le corde del collo, dure e aride.
«Lei sa, basta qualcuno che mi ripaghi con la sua presenza»
aggiunge poi rotando gli occhi accesi
dove si rompe in tenerezza un grano
di follia, in un liquor
febbrile palpitando.
«E' là che batte il suo cuore inverosimile;
ne è fiera ed avvilita» penso
e mi volgo all'idolo, coperto di polvere e di brina, che le sta di fronte,
ma lontano, sicuro di sé, e frustrante.
«Coraggio» alza la voce il maestro
quanto l'altro aveva la sua smorzata e spenta. «Coraggio
occorre» insiste poi sincero suo malgrado
mentre guarda nell'altro il riverbero del fuoco che lo arse
ma non senza residui come ora vorrebbe,
con quel po' di cenere diaccia e grigia.
«Vada dritto allo scopo, osi» riprende e tace a lungo
dinanzi a lui interdetto dal silenzio più che acceso dal grido;
perché il vecchio, è chiaro, va oltre la sua parte
e rabbrividisce al vento del passato
non meno oscuro dell'altro che gli soffia in viso dall'opposto polo.
«Che uomo» saettano gli occhi di lei tornati vitrei
ma non senza dolcezza mentre cerca un consenso alla sua estasi
in me che la immagino e la penso
devota a un dio che non le dà negli anni risposta o cenno;
e guardo in quell'attimo i bicchieri
lasciati qua e là sulle mensole, e ascolto
la pendola di Sèvres battere molti colpi.


 

Tra Quattro Mura

«Oh il vostro cristianesimo» gli dico.
«O crepato trabocca in tutto l'altro, sia pure il deserto,
oppure è un fiumicello da nulla
che stagna fra gli orti sotto casa e li ammorba.»
Subito in un risucchio della mente
riascolto come da un disco
crudele quelle parole nette,
ancora mie eppure già lontane dall'intento,
là nella parte amorfa del pensiero che aspetta un'esca.
Non so se il mio disagio gli è visibile,
deglutisce un sorriso inespresso e si fa piccino
cercando fermezza di risposta
proprio lì nel suo aspetto di pretonzolo e di oscura formica.
Cedere, cedere all'infinito il campo,
non opporre niente - decifro bene il suo contegno,
sia l'antica tattica o il fardello
d'una pazienza senza luce, ma non senza calore per questo.
E penso al pane della salvezza tenuto in serbo,
gustato in quell'odore di canonica
e altro non desidero che il mare e il vento.
«Credi?» rompe infine quella pausa che solo a me è sembrata lunga
volgendomi di sotto
in su la cornata di uno sguardo
non tanto offensivo quanto aguzzo.
L'animale violato nella sua tana, penso,
e ne sento la forza insospettata
crescere, crescere fino a un'obbrobriosa sicurezza.
Ed ora è lì uomo diverso e fermo
come se aspetti il mio ritorno al passo
alla stalla dolorosa da cui ero partito in fuga springando.
«Gente che come voi si crogiola
nella certezza della buona norma ignorando il resto mi offende»
e ormai non è più l'amore storto
e riottoso che parla in me ma l'alterco.
Male, male, ma non c'è altro verso
di sapersi avvinti
a uno stesso dolore che questo diverbio,
mi dico mentre il viso gli si allenta
e così rilasciato sotto il colpo
si corona di un'imbronciata infanzia;
e solo allora osservo la stanza
e in essa, con un limìo dentro, una vita
penosa che mi parla di sé da qualche suo lacerto.
«Tu che forse sei uscito dalla casa
e solo per ciò la trovi angusta
t'inebri alla ventata
non perché avviva ma solo perché distrugge.
Puoi riconoscerti in molti ma non averne conforto»
mi dice poi mentre schivo la sua occhiata
guardando fuori la montagna che avvalla
e l'ultima ragazza in giù sfrecciante
e dietro a lei uno spolverio di neve
contro sole nella discesa deserta.


 

Accordo

"Il corso d'una vita deciso in nostra vece chi sa come e quando
ripara nel bene e nel male altre esistenze,
offre cause di gioia e di dolore alle future"
Lei che soffre ma pronunzia il suo credo
ben ferma nel suo aspetto di angelo o deva
m'accoglie nella parte viva della casa,
mi dà questo saluto o questo viatico.
Non per caso ero lì comparso dall'oscurità del bosco al suo cospetto
macinando pensieri senza costrutto
pel sentiero battuto dall'artiglieria da campo.
Né spero né desidero sorprenderle
questa volta il lampo che sprizza
sospetto della mia incredulità e insieme dolcezza.
In silenzio raccolgo sotto il fuoco delle sue pupille questo messaggio
ben deciso a credere contenga la sanzione e il crisma.
Che importa la materia della fede quando è così grande,
mi dico mentre scruta se m'arriva
la luce delle sue parole nel punto esatto;
e posso anche pensarle
come un canto di prigionia,
sia pure il canto udito
trillare nella voliera più alto di tutti e fermo.



 

Nel Caffé

Mentre la valle s'infittisce e pettina
con tutti i suoi cipressi il filo d'aria
tra pioggia e avvisi d'altra pioggia, qui
nel caffè fuori mano di vetri e fronde,
nido ai convegni di straforo, accorre
e si stipa una moltitudine sorda che esala fumo.

«Perché non parlare un po' tra noi»
mi dice uno forato nella gola
premendosi una garza sull'incavo
o poco sopra, e si siede al mio tavolo
nel posto dirimpetto rimasto vuoto.

Lo guardo e vedo che i suoi occhi grigi
vogliono dire assai più che non dica
quella bocca vizza e mi fissano ridendo.
«Sarà un modo di stare ancora l'uno
vicino all'altro, come un tempo, nello stesso banco»
aggiunge, e più con gli occhi che con quella voce rauca raspando.

A un tratto, prima di ravvisarlo, so chi è
da quella tenerezza d'uomo stretto al ricordo
che fu anche del ragazzo, il ragazzo un po' femmina che turba un niente.
«Mai non avrei pensato a te, mio caro;
scusami» e allunghiamo le mani sopra il tavolo
a stringerci le nuche lanose e opache.
E così ci facciamo un po' di festa
guardandoci negli occhi ancora vivi
e cercando d'indovinare il resto.
Di nuovo si comprime la garza sull'incavo
e riprende con quella voce afona,
dura: «Forse dovrei darti un ragguaglio
di tanti anni fino a questa croce.
Non ne vale la pena. Preferisco che tu immagini.
Certo, so bene quello che mi aspetta».
Lo guardo che abbassa le palpebre e mi appare calmo.

Io non so dire altro, penso a questo incontro
se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta
e sto senza parole qui davanti
a lui ch'è troppo mio compagno
perché possa consolarlo
o mentire. Né lui chiede conforto
ma un attimo di comunione piena
per sé quanto per me, ed offre questa pace in cambio.

«Ho seguito i tuoi successi» riprende quella voce quasi gorgogliando.
«Oh, non sono senza contrasti, ma ciò non ha importanza»
mi schermisco io ed avvampo sotto la sua occhiata bianca.
«Abbiamo avuto in sorte tempi duri
ma non fummo da meno anche se ne siamo usciti un tantino empi.»
«C'è stato poco tempo per pregare...»
«Poco tempo infatti. Ma ho fiducia che l'azione
sia preghiera anch'essa pel futuro
ed espiazione del passato» dice e arrossisce a sua volta
e in quel pudore lo rivedo meglio quale fu nell'infanzia.

A mano a mano che il colloquio avanza
e i silenzi si fanno più frequenti
e lunghi vediamo, lui
l'amenità d'oasi del luogo di là dai vetri
sparire dietro una coltre di pioggia, ed io
la sala invasa da una nube di fumo diventare ingombra.

Dicono a una radio di Eichmann.
Dove avrebbe qualcuno or non è molto
o versato o represso qualche lacrima,
danzano al fruscio basso di un disco
non però così basso da non soverchiare il transistor.

«So quel che pensi, eppure hai torto» dice
con un sorriso divenuto blando
mentre guarda fuori, mentre l'ora si fa tarda,
«non posso non sentire in questo scalpiccio un che di santo.»
E frattanto penso con un brivido
a noi quando saremo sull'uscita
sul punto di dirci addio sotto la pioggia
e sotto il pigolio degli uccelli tramato fitto.

 


 

Infrapensieri la Notte

Il sonno, il nero fiume -
v'immerge la sua tempra
per il fuoco dell'aurora
che lo avvamperà, lo spera,
l'indomani -
Sono oscuri
il turchese ed il carminio
nei vasi e nelle ciotole,
li prende
la notte nel suo grembo,
li accomuna a tutta la materia.
Saranno - il pensiero lo tortura
un attimo, lo allarma -
pronti alla chiamata
quando ai vetri si presenta
in avanscoperta l'alba e, dopo,
quando irrompe
e sfolgora sotto la navata
il pieno giorno -
hanno
incerta come lui la sorte
i colori o il risveglio
per loro non è in forse,
la luce non li inganna,
non li tradisce? E stanno
nella materia
o sono
nell'anima i colori? -
divaga
o entra nel vivo
la sua mente
nella pausa
della notte che comincia -
smarrisce
e ritrova i filamenti
dell'arte, della giornata...
Esce
insieme ai lapislazzuli
l'oro dal suo forziere, sì,
ma incerto
il miracolo ritarda,
la sua trasmutazione
in luce, in radiosità
gli sarà data piena? Avrà
lui grazia sufficiente
a quella spiritualissima alchimia?
Si addorme,
s'inabissa,
è sciocco,
lo sente,
quel pensiero, è perfida quell'ansia.
Chi è lui? Tutto gioca con tutto
nella universale danza.



 

Nell'Imminenza dei Quarant'Anni

Il pensiero m'insegue in questo borgo
cupo ove corre un vento d'altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.

Sono tra poco quarant'anni d'ansia,
d'uggia, d'ilarità improvvise, rapide
com'è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L'albero di dolore scuote i rami...

Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l'opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d'incontri effimeri e di perdite
o d'amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.

E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l'eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.



 

Padre dei Padri

Questi erano i patti,
altri
forse in allegria
per pura amicizia
ovvero
per un grano
ancora celeste
di celeste libertà
riposto nel cuore
li avevano
in un tempo
ancora indiviso
dall'eternità
quei patti
immemorabilmente stretti
noncuranti di nominarli
di dirli, di dettarli
ed essi come nuvole
nel mezzogiorno dei monti
riposavano in sé
così si trasmettevano
così operavano essi di età in età...

E ora che cosa non sanno, che cosa non ricordano
questi che
ripetono
nella loro oscurità di posteri
imprecando
la lunga traversata del loro esodo -
miglia e miglia,
afa
e quel nerore
su tutta l'affocata linea delle dune,
sparse ossa
raffioranti, semisepolti
rottami
rosi da sale e ruggine:
testimoni? - Sì, potrebbero
veramente esserlo
testimoni, e non solo morti segni
che qui furono tutti
fatti una sola polvere
i codici, i rescritti
e anche quei profondi
indicibili regolamenti
sconciato ogni decalogo
erisa
vecchia e nuova alleanza
e il sangue del loro preziosissimo sigillo.
Per libidine
di sangue ,li vorrei
consci di questo:
buio sangue
da scolatoio di macelli
dove tutto defluisse, tutto si disfacesse.
Per quella libidine.

Che cosa non ricordano, che cosa non sanno?
li stringe il tempo
fedifrago, li pesta nel mortaio
della sua
anguinosa nullità
ma ha
talvolta
ritorni procellosi
la mente a se medesima
rientri
atroci
dalla sua contumacia abominevole...
E sussultano essi,
che cosa li rimorde?
c'è oblio o c'è ignoranza
- e di cosa - in quella spina?
Si dibatte
contro un'oscura dimenticanza,
si aguzza e si tortura
la mente
per un'impossibile chiarezza
e intanto
li accusa un quid,
li incolpa
un'ignominia
occulta, un'infedeltà...

ai patti - quali erano quei numinosi patti?
Ne portano
essi solo l'ombra
e il cruccio di un tradimento...
Davvero nessuno parla?
Tace nel silenzio
delle sue lontane rocce
l'antica parleria -
o il silenzio
è nostro, e non più lacuna,
ora, di parola
ma annullamento
e cenere da cui tutto risorgerà?



 

Vita Fedele alla Vita

La città di domenica
sul tardi
quando c'è pace
ma una radio geme
tra le sue moli cieche
dalle sue viscere interite

e a chi va nel crepaccio di una via
tagliata netta tra le banche arriva
dolce fino allo spasimo l'umano
appiattato nelle sue chiaviche e nei suoi ammezzati,

tregua, sì, eppure
uno, la fronte sull'asfalto, muore
tra poca gente stranita
che indugia e si fa attorno all'infortunio,

e noi si è qui o per destino o casualmente insieme
tu ed io, mia compagna di poche ore,
in questa sfera impazzita
sotto la spada a doppio filo
del giudizio o della remissione,

vita fedele alla vita
tutto questo che le è cresciuto in seno
dove va, mi chiedo,
discende o sale a sbalzi verso il suo principio...
sebbene non importi, sebbene sia la nostra vita e basta.



 

A un Compagno

E la musica ansiosa che bruiva
nel biondo dell'estate
ora densa di ruggine risale
confusa col tuo nome alle colline

mentre un cielo violato dal ricordo
mesce nubi con la marea di biade
instancabile, rotta alle pendici
dei borghi di Toscana.

Voci rare feriscono il silenzio
eterno, ancora accese
qui dove indugio, anima sulla riva
del fiume inquieto ferma ad ascoltare.

Il passante ravviva
le croci di papaveri votivi
alle svolte della strada.

Ed ora che per te
morire sempre più profondamente,
per me essere è non dimenticare,

la forza di quel gesto ci conviene
usata a ritrovarci,
a difenderci l'un dall'altro quando
striscia un vento recondito di morte.



 

Fiume da Fiume

Si pasce di sè il fiume, bruca
serpeggiando
le sue
quasi essiccate sgorature,
visita
le sue
quasi aride pozzanghere,
si trascina ai suoi gi… putridi ristagni
finch‚ poco più oltre
un poco lo confortano
misteriosi trasudamenti,
lo irrorano frescure,
umori, vene
dal più profondo
del suo cuore sotterraneo
ed eccolo
rinasce esso dalle secche,
ora, si lascia dietro la sassaia
della sua quasi estinzione
per il suo nuovo cammino -
si muove verso se stesso il fiume,
si sposta dentro il suo cangiante bruco
ed entra, fiume nuovo
uscito dalle sue ceneri
nei luoghi dove opera
la primavera
e non c'è
fiore né gemma, non c'è ancora
ma c'è quella radiosa incandescenza
di luce e opacità nel bianco dell'aria,
c'è, ed ecco si diffonde, quella trepidante animula
e quel chiaro sopra la linea degli alberi,
quel già più festoso scintillamento delle acque.
C'è tutto "quello". E c'è
lui fiume,
ne vibra intimamente
il senso. C'è questo, c'è prodigiosamente.



 

Maturità

Che fu dietro quei vetri che straziano il silenzio
e irraggiano nel vuoto lo stupore
d'un viso che non sente più il suo rosa?
Attoniti si perdono gli occhi in banchi d'azzurro
e neppure il tuo pianto si ripete.
Ondeggia il sicomoro stranamente fedele.

Gelo, non più che gelo le tristi epifanie
per le strade stillanti di silenzio
e d'ambra e i riverberi lontani
delle pietre tra i bianchi lampi delle fontane.
Ombra, non più che un'ombra è la mia vita
per le strade che ingombra il mio ricordo impassibile.

Equoree primavere di conche abbandonate
al vento il cui riflesso è solitario
nel fondo col tuo viso scarduffato!
Schiava ai piedi di un'ombra, ombra d'un'ombra
disperdi nel tremore dell'acqua il tuo sorriso.
Una nuvola oscilla e un incerto paradiso.

Non più nostro il deserto che ci avvince e ci separa
nella bocca inarcata dall'oblio,
non più il dominio audace di pallore
delle tue braccia al vento dall'alte balaustrate.
Sguardi deserti, forme senza nome
nella notte pesante pendula sul tuo cuore.

 


 

L'Immensità dell'Attimo

Quando tra estreme ombre profonda
in aperti paesi l’estate
rapisce il canto agli armenti
e la memoria dei pastori e ovunque tace
la segreta alacrità delle specie,
i nascituri avallano
nella dolce volontà delle madri
e preme i rami dei colli e le pianure
aride il progressivo esser dei frutti.
Sulla terra accadono senza luogo
senza perché le indelebili
verità, in quel soffio ove affondan
leggere il peso le fronde
le navi inclinano il fianco
e l’ansia de' naviganti a strane coste,
il suono d’ogni voce
perde sé nel suo grembo, al mare al vento.

 


 

Da "Monologo"
I

Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d'essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte...

Era, donde scendesse, un salto d'acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d'astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l'angoscia d'esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.

Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.

Con lo sgomento d'una porta
che s'apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d'eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest'ora ti edifica e ti schianta.
L'uno ancora implacato, l'altro urgeva -
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n'ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza

 


 

Natura

La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare più giocondo
per la veloce fiamma dei passeri
e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l'amore.




Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s'esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d'aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
E' questa l'ora tua, è l'ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all'improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s'incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch'io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l'amore non può giungere
né la dimenticanza di se stessi.

 

Da "Poesie sparse"



 

Se musica è la donna amata

Ma tu continua e perditi, mia vita,
per le rosse città dei cani afosi
convessi sopra i fiumi arsi dal vento.
Le danzatrici scuotono l'oriente
appassionato, effondono i metalli
del sole le veementi baiadere.
Un passero profondo si dispiuma
sul golfo ov'io sognai la Georgia:
dal mare (una viola trafelata
nella memoria bianca di vestigia)
un vento desolato s'appoggiava
ai tuoi vetri con una piuma grigia
e se volevi accoglierlo una bruna
solitudine offesa la tua mano
premeva nei suoi limbi odorosi
d'inattuate rose di lontano.

 

Da *Avvento Notturno*



Avorio

Parla il cipresso equinoziale, oscuro
e montuoso esulta il capriolo,
dentro le fonti rosse le criniere
dai baci adagio lavan le cavalle.
Giù da foreste vaporose immensi
alle eccelse città battono i fiumi
lungamente, si muovono in un sogno
affettuose vele verso Olimpia.
Correranno le intense vie d'Oriente
ventilate fanciulle e dai mercati
salmastri guarderanno ilari il mondo.
Ma dove attingerò io la mia vita
ora che il tremebondo amore è morto?
Violavano le rose l'orizzonte,
esitanti città stavano in cielo
asperse di giardini tormentosi,
la sua voce nell'aria era una roccia
deserta e incolmabile di fiori.

 

Da *Avvento Notturno*

Volafarfalla

 

 

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