La vita di Sant'Antonio

                   


 

  • Cenni storici

 

Da poco la bandiera dei mori era calata dalle torri del castello di Lisbona e da poco vi sventolava il labaro cristiano, quando vide la luce Ferdinando di Buglione, discendente del generalissimo della prima crociata.

Era il 25 agosto 1195, giorno dell’Assunzione.

La madre, piissima matrona di tempra e di fede, consacrò tosto quell'angioletto alla Vergine, quasi presaga che il lontano nipote del primo crociato sarebbe stato un prediletto di Maria, ne avrebbe sì ben predicate le glorie e col nome di Lei sulle labbra sarebbe spirato.

Poco sappiamo della sua vita infantile, sepolta ormai nelle tenebre di quel tempo lontano.

I cronisti del tempo ci hanno però tramandata qualche scena idillica, soavissima del più puro affetto materno.

Dalle finestre della casa, attraverso le quali irrompeva la profumata brezza del mare e alle aulenti primavere portoghesi, l’avventurata madre del piccolo Santo, additandogli i sublimi ogivi della gotica cattedrale, levante al cielo le cento aguglie, gli ripeteva spesso come colà egli aveva ricevuto sul capo l’onda battesimale, nel giorno sacro all'Assunzione di Maria; che per il gran dono ricevuto e per il giorno in cui era stato fatto cristiano, gran dovere gli incombeva di amare Gesù e Maria.

Onde è che nel fanciullo tosto nacque e si rinfocolò sempre più quel profondissimo culto a Dio, che doveva formare di lui l’ardentissimo apostolo del secolo XIII.

Tutto compreso della sublime poesia delle virtù cristiane, bambino ancora di cinque anni, il piccolo Ferdinando votò la sua castità a Dio.

Ben presto egli abbandonava completamente la famiglia per il Santuario.

L’istruzione era allora interamente impartita dalla Chiesa, che sola, fra il cozzare dei popoli ancor agitati dalle invasioni barbariche, aveva salvato il tesoro dell’antica civiltà, per trasmetterlo alla società nuova.

Aveva quattro anni il nostro Santo quando il decreto di un Concilio cattolico istituiva presso tutte le cattedrali il Maestro di chiesa, per l'educazione ed istruzione della gioventù.

I piccoli allievi delle cattedrali servivano anche, di naturale conseguenza; alle funzioni del culto.

Così a dieci anni il piccolo Ferdinando entrò fra i chierichetti della cattedrale di Lisbona.

Buono, affabile, intelligente, vivace, egli si conquistò in breve l’affetto e la stima dei piccoli compagni, fra i quali egli era l’angelo dei consigli e degli esempi.

Si rodeva il demonio della precoce santità del fanciullo e spesso lo tormentava con spaventose visioni.

Nè per questo atterivasi il Santo, sì coraggiosamente lo fugava: ed un giorno che più il demonio lo tormentava, con un dito fece il segno di croce sopra un gradino dove stava pregando e nel gradino restò miracolosamente impresso, come scolpito, quel santo segno; baciò egli quella croce ed il demonio restò confuso e vinto.

Invano a sé lo chiamava il mondo con le bugiarde promesse illusorie visioni di onori, di pompe e di gloria.

A quindici anni, fiorente di vita e di gioventù, egli dava al mondo l’addio supremo e si chiudeva nel chiostro di San Vincenzo di Fora.

 In quel convento, fondato da Alfonso con regale Splendore, i Canonici regolari di Sant’Agostino avevano avuto principio; là si conservava viva la memoria di Sant’Antonio, primo priore, e là, all’ombra della sua tomba e delle tombe dei re, il Santo veniva a cercare la pace e a provare la suprema vanità della gloria e del fasto.

 

 

     

  • * Il Novizio Francescano

 

Il convento però, dove Ferdinando si trovava, era troppo vicino alla casa paterna; cosicchè spesso i parenti e gli amici, attratti dall’amore e dalla venerazione che avevano per lui, vi si recavano per visitarlo.

 Riputando il Santo questo quale motivo di troppa distrazione al suo spirito, che tutto voleva essere di Dio, chiese ed ottenne di passare al Monastero di Santa Croce in Coimbra.

Ivi un giorno comparve la bigia sottana di un povero frate di San Francesco di Assisi.

L’umiltà e la povertà francescana, portata al grado supremo d’eroismo, colpirono Ferdinando, che ogni giorno più s’infervorava nella brama di seguirne l’esempio.

Si aggiunse un fatto strepitoso: le reliquie dei protomartiri francescani, caduti in nome di Cristo nel lontano Marocco, erano trasportate in patria nella città dove si trovava Ferdinando.

Un lungo corteo di clero e di popolo le precedeva, diretto alla cattedrale dove quei Martiri avrebbero riposato per sempre.

Arrivata la mula, che ne portava le ossa, dinanzi alla chiesa di Santa Croce, si arrestò, né fu più caso volesse proseguire.

Spalancata la porta, di per se entrò, né si lasciò smuovere di là.

Là dunque i Martiri furono deposti.

Da quel giorno il più ardente desiderio del martirio s’impadronì del nostro Santo, che, per meglio riuscirvi, decise di passare all’Ordine francescano, che già fin d’allora esercitava larghissime missioni.

In quel chiostro remoto, dove aveva passato tante notti tranquille nell’estasi notturna della preghiera, egli vestì il bigio saio di S. Francesco prendendo il nome di Antonio.

 Immenso fu il dolore dell’Ordine che abbandonava, il quale sentiva di perdere una delle gemme più fulgide e belle.

Un vecchio monaco, salutandolo per l'ultima volta, illuminato da un divino raggio profetico:

 -Va! gli disse, diverrai un santo!

Al che il Santo con ingenuo candore rispose:

 -Quando udirai ch’io lo sia davvero, ringraziane Iddio.

E col nome di Dio Sulle labbra il novizio di San Francesco partì per il nuovo Convento di Olivares.

 Il suo ardentissimo desiderio era il martirio.

Pochi mesi dopo, coi sandali ai piedi e con un frate per compagno, abbandonava l’Europa, passava il mare e si seppelliva nei deserti del Marocco, sitibondo di anime e di martirio.

 

                           

 

 

  • * In Africa e in Italia

Le barbare terre africane non dovevano essere il teatro dello zelo di Antonio.

Là approdato, felice di lanciarsi nel difficile e periglioso apostolato, si vide ad un tratto languire come un fiore reciso, e cadere spossato su un letticciuolo di dolori e la restarvi inchiodato per un mese.

Antonio non s’irritò, non si spaventò: pianse nel secreto del cuore lacrime di sangue; intese però la volontà di Dio che lo chiamava altrove e si imbarcò di nuovo.

Dal ponte della nave egli vedeva sparire sull’orizzonte la linea bruna e profonda del continente africano, dove Dio aveva voluto provare la sua pazienza e la sua eroica rassegnazione.

La nave già stava per approdare alle coste spagnole, quando un forte vento dall’Ovest, investendo le vele ammainate, la sospinse verso altre regioni e la costrinse a gettare l’ancora in Sicilia.

Quivi approdarono i due francescani; e saputo che presto ad Assisi San Francesco avrebbe convocato un capitolo generale, là si diressero.

Così Antonio giungeva per misteriosa disposizione della Provvidenza in Italia, nella terra avventurata, che gli doveva essere seconda patria, tanto da venir esso chiamato dal nome di una delle sue città, Sant’Antonio da Padova.

Da Assisi il nostro Santo passò in Romagna ove stette un anno nascosto e penitente nell’eremo di Montepaolo fino al capitolo di Forlì nel 1222, dove, invitato a tenere una conferenza spirituale, meravigliò tutti per la profondità della sua scienza e per la meravigliosa acutezza col la quale discorreva dei più sublimi misteri.

Fu allora ad unanimità di voti eletto predicatore.

Da quel giorno egli passò predicando ed operando miracoli in quasi tutte le città d’Italia e di Francia.

La folla accorreva al suo passaggio trascinata dalla potenza della sua parola, dal calore del suo gesto, dal fulgore della sua santità.

Da quel dì egli fu l’Apostolo dei popoli, attraverso i quali passava benedetto e acclamato, come un trionfatore.

Infuriavano allora, sovvertitrici e politicamente terribili, le eresie: pullulate qua e là nell’ombra e nel mistero, prorompevano poi con le armi, portando la guerra civile.

Contro di loro si eresse, come un immobile scoglio, Sant’Antonio di Padova e ne arrestò il dilagare, ritornando molti traviati all'unità della Chiesa.

Risparmiando fiumi di sangue.

Dietro la bigia tonaca dello scalzo fraticello si affollavano i fastosi castellani, confondendosi con le plebi affamate; si assopivano gli odi secolari e le guerre di razza e di famiglia; brillava su tutti l’iride della pace e della civiltà cristiana.

La fama del Santo arrivava fino a San Francesco che, esultante di santo orgoglio, gli mandava da lungi la benedizione che il vecchio Isacco aveva un dì pronunciata sul giovine capo di Giacobbe, e piacque a Dio dargliene segno anche nel miracolo seguente.

Il Santo si trovò un giorno a Puy-en-Velay, dove fu eletto guardiano, predicando ai suoi frati, una misteriosa onda di gaudio paradisiaco invase tutti gli uditori.

San Francesco d’Assisi, che fra poco doveva abbandonare la terra, eccolo apparire sulla porta della chiesa e tutto raggiante di gioia e di splendore far plauso al figlio suo spirituale e ringraziar Dio d'aver onorato l’ordine suo d’un tanto predicatore.

 

                          

 

 

  • *A Padova

 

Finalmente Antonio passava alla città che doveva essere tra tutte la sua prediletta: Padova!

La trovava libera, forte e ricca, superba della stupenda Università da poco sorta, sotto gli auspici dei Pontefici, che ne avevano appunto a quel tempo erette in quasi tutta l’Europa latina.

Ma le discordie non dovevano tardare a straziare anche quella città: i tranelli delle campagne, i vecchi feudatari, rialzavano il capo; e i partiti dei Guelfi e dei Ghibellini dovevano tra poco fare di Padova quasi un campo di battaglia.

Sant’Antonio veniva a lei araldo di pace: dietro i suoi passi accorrevano gli interi villaggi, i superbi castellani si confondevano colla plebe, affollandosi attorno al pergamo del Santo.

Ben presto le chiese furono piccole per quell’onda a umana sempre crescente; e Antonio dovette predicare per le piazze.

E la sua voce tuonava: tuonava su migliaia di teste curve dinanzi a lui, come sotto il soffio di Dio tuonava, voce di terrore nell’universale silenzio, voce di pace e di'perdono fra gli schianti di lacrime e gli scoppi di singhiozzi, che prorompevano a un tratto dalle turbe conquistate.

E quando quella esile figura di giovine frate, colla pupilla ancora avvampante del fuoco dello zelo, scendeva dal pergamo e scompariva fra la folla, era un sol grido di compunzione e di perdono: vecchi nemici, che si erano altre volte salutati incrociando le spade, si gettavano l’uno nelle braccia dell'altro piangendo: masnade di ladroni, che correvano le campagne predando deponevano ai piedi del povero francescano i coltelli e le daghe; ed egli accoglieva quei pentiti e quei dolori fra le sue braccia, per tutti aveva una parola, un conforto, un bacio di perdono.

Anzi, per soddisfare lo slancio ardente di pietà e di espiazione destatosi nei peccatori pentiti, istituì una Confraternita detta dei Colombini, nella quale si raccolsero quanti, stanchi dei traviamenti e dei delitti passati, desiderassero un rifugio di santità e di preghiera.

I francescani non avevano ancora convento in città, e un nobile signore di Padova aveva offerto a Sant’Antonio una piccola cella dove si potesse al quanto riposare dalle apostoliche fatiche, essendo troppo lontano il convento francescano dell’Arcella.

Un giorno, passando là vicino, vide uscire dalle fessure della porta raggi di luce: al misterioso spettacolo si accostò ad osservare: un fanciullino di sovrumana bellezza era fra le braccia di Antonio e tutto lo irradiava in un oceano di luce meravigliosa.

Era Gesù che mostrava un lembo di cielo all’avventurato Antonio.

 

 

                          

 

 

 

  • * Viaggi di Antonio

 

Non molto dopo, il Santo compì un lungo giro per l’Italia: fu a Ferrara, Bologna e Firenze; poi, per sottrarsi alle acclamazioni delle turbe applaudenti, si nascose all’Alvernia, l’eremo di San Francesco.

 Ma là pure lo accompagnava la gloria della sua santità, per cui i frati gli offrirono la grotta stessa, dove Francesco aveva ricevuto le stimmate.

S’adombrò l’umilissimo Antonio di tanto onore, e protestandosene indegno, si celò in un’altra grotta. Fu poi a Vercelli, Milano e Varese, sulle sponde del Garda, a Vicenza, a Mantova: viaggi lunghissimi e faticosi a quel tempo, che egli compiva a piedi d’uno in altro casolare, seminando il cammino di benedizioni e di miracoli.

Fu pure a Roma, e là rinnovava il miracolo della Pentecoste.

Roma, capitale dell’orbe, raccoglieva fra le sue mura uomini d’ogni lingua: fiamminghi, svizzeri, scozzesi, schiavoni, greci, francesi, tedeschi, spagnoli, tutti accorrevano alle sue prediche e tutti ne udivano risuonare la parola nella lingua, che ognuno aveva imparato sulle ginocchia materne.

Anche il Papa Gregorio IX lo volle udire, ed egli stesso stupito offerse al santo la porpora di cardinale; ma Antonio umilmente la rifiutò, sempre povero e modesto tornò alla sua Padova, dove, sentendosi mancare la vita, raddoppiò lo zelo ed il lavoro.

Infieriva a quei dì, terribile e rovinoso del benessere sociale, la piaga dell’usura esercitata su larga scala dagli ebrei, che resi potenti per immense ricchezze, si rendevano necessari persino ai principi, che li condannavano.

Prestavano ad un tasso elevatissimo, superiore ad ogni giustizia, non concedendo tregua agli infelici creditori che venivano in fine imprigionati.

Antonio levò la potenza della sua voce contro questa incancrenita piaga sociale ed ottenne l’immenso vantaggio per quel tempo, che il debitore dopo ceduti i suoi beni, potesse sfuggire alla prigione: così la voce di un santo riparava a una grande ingiustizia sociale.

Nel 1228, Ezzelino da Romano, signore del castello presso a Bassano, uomo ambizioso e crudele, s’avvicinava a Padova con le armi.

Ma Antonio, Pieno di zelo per l’onor di Dio, aspramente ripresolo della sua fierezza e dell’ambiziosa sete di conquista, lo avvertì che le violenze e le rapine dalle sue genti commesse, tutte sopra l’anima sua ricadevano: e lo ammonì essere ormai tempo di ritrarsi dalla via di perdizione minacciandolo, ove non lo ascoltasse, dell'esecrazione dei posteri e di una disperata morte.

Atterrito Ezzelino dalle aspre invettive del Santo, deposta l’antica alterigia e postasi al collo la sua cintura, si gettò ai di lui piedi, perché con le sue orazioni ottenesse da Dio che da lui si allontanassero i minacciati castighi.

 

 

 

                        

 

 

  • * Ultimi giorni

Ormai il vigore della sua fiorente gioventù l’abbandonava; e ogni giorno di più Antonio sentiva mancarsi la vita.

Fu allora che chiese al suo superiore un po’ di riposo: il riposo che chiedono gli atleti prima di gettarsi in un cimento supremo, il riposo del silenzio e della preghiera.

Preparata la lettera, con la quale egli chiedeva di ritirarsi qualche tempo, in solitudine, il Santo uscì per trovare chi la ricapitasse: cosa assai difficile a quel tempo, in cui poche e pericolose erano le comunicazioni.

Tornato alla cella non ritrovò più la lettera: questa era miracolosamente scomparsa, e poco dopo arrivata la risposta, favorevole ai desideri del Santo.

Spossato dalle lunghe marce attraverso a tutta l’Europa latina, vedendosi ormai vicina la quiete del sepolcro, Antonio chiese allora ad un nobile conte di Padova di passare nei suoi domini alcuni giorni di silenzio e pace.

Ed entrato nella foresta del conte e vedutovi giganteggiare un bellissimo noce, desiderò che lassù, fra il verde fogliame dell’albero, fossero costruite tre celle, una per sé e le altre per i due frati che lo accompagnavano.

Era la brama di staccarsi sempre più dalla terra, di elevarsi sempre meglio verso i sublimi orizzonti del cielo.

Le celle sorsero per incanto, costrutte dal conte stesso che le intrecciò coi rami e con le fronde.

Tuttavia, là pure le turbe lo traevano, affollandosi attorno al tronco gigantesco, sull’alto del quale, fra le foglie leggermente agitate, s’intravedevano le estasi e le visioni del Santo.

Antonio neppure allora seppe rifiutare il ministero di quella sua onnipotente parola, che sempre ed ovunque aveva scosse le turbe.

Era l’ultima volta che egli parlava; e la sua voce, forse presaga della prossima fine, aveva fremiti e vibrazioni più potenti.

Un giorno, fissando con insolita attenzione la città di Padova, adagiata nella valle, la benedisse con immenso sovrumano affetto, come già San Francesco aveva benedetto la sua Assisi.

Due settimane dopo, il Santo scese dalla sua cella: una debolezza estrema si impadronì di quel corpo, macerato dalle veglie e dal lavoro: onde il Santo dovette lasciarsi cadere su di un giaciglio di paglia: era il 13 Giugno 1231, Antonio intese che era finalmente venuto il giorno della ricompensa e volle fare ritorno a Padova.

Si fece tosto venire un carro, dove il morente fu accomodato col suo povero giaciglio; e il mesto convoglio prese la via della città.

Così, povero e moribondo, tornava alla sua città prediletta colui, la cui voce possente aveva scosso e trascinato dietro sé tutta l’Europa.

Il Santo, aggravatissimo, dovette fermarsi all’Arcella: qui, confessatosi, fu rapito in estasi con l’occhio fisso ad un oggetto invisibile.

Il frate che lo sosteneva, gli domandò cosa vedesse, ed egli rispose:

"Vedo il mio Signore".

Un gaudio santo irraggiava dall’anima, e per gli occhi e per la fronte, spirante ancora l’ingenuità di un fanciullo, pareva invadere quella cella avventurata, dove moriva uno dei più grandi eroi del secolo decimoterzo.

Assorto in una lontana e melodiosa visione, levando lo sguardo all’azzurro cielo, Antonio giacque assopito in un sogno di amore; e la bell’anima volava dall’estasi terrena a quella del Paradiso.

Tosto per Padova frotte di fanciulli, correndo nelle vie, gridarono:

 è morto il Santo, è morto il Santo!

Un’immensa costernazione s’impadronì della città: non s’udivano che pianti e gemiti echeggiare per le vie e: per le chiese, mentre la turba di popolo traeva immenso pellegrinaggio al vicino eremo dell'Arcella.

Lo zelo e la brama di possedere quel sacro prezioso corpo taumaturgo fecero persino nascere un conflitto fra gli abitatori dell’Arcella e i cittadini di Padova; ma infine, quasi per incanto rappacificati gli animi, il Santo, portato sulle spalle dai nobili, faceva l’ultimo solenne ingresso nella sua città prediletta.

Ma non era un funerale, bensì un trionfo: la folla irrompeva da tute le vie, acclamando al suo passaggio.

Suonavano a festa le campane da tutte le torri, ardevano i ceri in tal quantità che Padova sembrava in fiamme.

I1 Santo fu sepolto in Santa Maria, e 1à da quel giorno trassero centinaia di pellegrinaggi.

Venivano dalle città e dalle campagne, dall’Italia, dall’Austria, dall'Ungheria: era una gara ad offrire doni e preghiere: ceri immensi ed altissimi arrivavano, tanto che, per introdurli in chiesa, bisognava spezzarli: ne erano pieni il tempio e la piazza, onde, non essendovi più posto, dovettero essere collocati sui muri; così tutta la città rimase per quasi un anno completamente illuminata.

Vista di notte dalle alture vicine, Padova sembrava un perpetuo incendio.

I1 30 maggio I232, neppure un anno dopo la morte di Antonio, il Papa Gregorio IX lo dichiarava santo.

A Lisbona, dove Antonio era nato e dove vivevano ancora i suoi fratelli e forse anche sua madre, il grande avvenimento fu annunciato dalle campane, che tutte insieme suonarono a stormo, senza, che alcuno le toccasse.

Ed a Padova il popolo riconoscente cominciò subito sulla tomba del Santo la costruzione di quel tempio monumentale che forma ancor oggi, dopo tanti secoli, l’orgoglio della pietà e dell’arte italiana.

 

Pagina iniziale

Le foto della Festa Festa

Torna al sommario

 


Testi e immagini sono tratti da: "Il Santo di Padova, Tipografia e Libreria Antoniana, Padova, 1911