PRESBITERIO parete destra e sinistra

 

Tele: POMPONIO AMALTEO Cena in casa di Simone fariseo
(o La Maddalena ai piedi del Cristo); La Samaritana al pozzo;
(firmata e datata: AMALTHEI. ANNORUM LVI. MDLXVI).
Restauri: GianCarlo Magri 1984-85

 

 

 

 

 

 


Nel 1547/48 (Metz) veniva dato l’incarico all’Amalteo di dipingere le portelle e i riquadri ornanti il prospetto della cantoria del nuovo organo. Non sappiamo quando fosse stato costruito questo strumento, che aveva sostituito quello più antico ornato dalle pitture del Bellunello e di cui ora non abbiamo che il ricordo. Il Cesarino ci dice che il nuovo “bonissimo” organo era stato costruito da un certo Vincenzo Colombo organaro. Esso era stato intagliato da un artista rimastoci sconosciuto, e nell’agostodel 1548 era stato incaricato di seguire la doratura del cassone e della cantoria Vincenzo Mioni, udinese stabilitosi da poco a San Vito. Egli compì la sua opera poco più di due anni dopo, nel novembre del 1550. Abbiamo un’ampia documentazione sulle difficoltà avute dall’Amalteo per iniziare e portare avanti i lavori per l’organo, anche perché dovevano essere “di gran spesa e di gran tempo”. Nel 1558, benché se ne fosse già molto parlato e l’Amalteo avesse ricevuto un anticipo di pagamento, egli non aveva ancora incominciato i lavori per l’organo. Evidentemente non per causa sua, dal momento che chiede in una seduta del Consiglio che, qualora gli “accoresse qualche caso humano”, tanto lui che i suoi eredi non siano tenuti alla restituzione  della caparra. Finalmente nel 1559 ha inizio l’opera, che viene portata a termine nel 1565, con generale sollievo, anche se le rateazioni di pagamento andranno sino al 1575. Questo perché nel frattempo l’Amalteo aveva eseguito, sempre per il duomo, un gonfalone (perduto) e degli stucchi “stuchis positis et affixis pro ornamento” (Metz e Goi), di cui però non sappiamo altro. A chiudere il prospetto delle canne del nuovo organo furono poste le portelle decorate dai dipinti a olio
dell’Amalteo raffiguranti la Lavanda dei piedi e, all’interno delle stesse, la Samaritana al pozzo e la Maddalena ai piedi di Cristo. Nella cantoria furono allogati i cinque pannelli ad olio di piccole proporzioni, che narrano la storia dei santi protettori della chiesa. Quando nella metà del Settecento il duomo fu rifatto radicalmente, l’antico strumento musicale fu demolito e le decorazioni superstiti, secondo il gusto antiquario del Settecento, furono poste sulle pareti laterali del presbiterio della ricostruita chiesa parrocchiale (Altan 1753). La Lavanda dei piedi, “rinettata indiscriminatamente”, fu appesa divisa “vandalicamente” in due parti (Maniago 1819). Infatti ancora all’inizio di questo secolo il quadro appariva diviso in due (Barnaba 1901) per rispetto dei supporti, ma non della composizione pittorica. In tutta la letteratura artistica dell’Ottocento e del Novecento, riguardante queste opere, si ha notizia di ripetuti e cattivi restauri non meglio precisati, i primi dei quali furono eseguiti forse nella metà del ‘700 (Metz e Goi). La lettura dei dipinti era peggiorata per i deleteri effetti del restauro eseguito da T. Donadon nel 1927, i cui guasti non erano stati rimediati dalla sommaria ripulitura delle portelle nel 1952. Negli anni 1984-85, tutto il complesso delle opere del presbiterio è stato restaurato da Giancarlo Magri a spese della comunità parrocchiale. Sul lato basso del quadro, a destra, della Lavanda dei piedi si legge l’iscrizione POMPONII AMALTHEI / ANNORUM LXI MDLXVI.
In un ampio vano del duplice colonnato si ammassano le figure del Cristo, degli Apostoli e degli Angeli, lungo diagonali di una prospettiva di visione dal basso, che intende tener conto della collocazione dello strumento. “Il proposito è lodevole, ma il risultato poco felice, tanto che l’impressione dominante è di una regia affannata e affaticata. Stanchezze e ripieghi, imputabili soprattutto alla bottega, si notano... nella delineazione di alcune figure” (Goi-Metz).

 

Tavole:
POMPONIO AMALTEO
Scene della Passione dei Ss. Vito, Modesto e Crescenzia. Restauri: GianCarlo Magri 1984-85.


 

 

 

 

 

La medesima prospettiva è presente anche nella Samaritana al pozzo e nella Maddalena ai piedi del Cristo. Dal fondo bituminoso del primo, in cui si intravvedono alcuni personaggi, un paese ed un albero, emergono le monumentali figure di Gesù seduto sulla elaborata vera del pozzo e della Samaritana, che sembrano chiacchierare in un momento di sereno riposo. Seguendo le diagonali del corpo della donna e la gamba destra del Cristo, l’occhio è condotto verso il volto di Gesù e la sua mano benedicente che costituiscono il centro della composizione. Nel secondo, la Maddalena ai piedi del Cristo, sono raffigurate alcune persone, tra le quali, in primo piano, emergono il Cristo seduto in atto benedicente e la Maddalena dai capelli color del rame prostrata ai suoi piedi, inserite in un vano colonnato visto di scorcio. Dallo sfondo fanno capolino due personaggi con copricapo turcheschi; è probabile che ad ispirare l’Amalteo nella scelta di queste due figure, fosse il gran parlare che si faceva allora in San Vito di una possibile invasione turca. Proprio per questo (1562) il Patriarca Giovanni Grimani aveva dato ordine di scavare
attorno alla città una larga fossa e di erigere mura e bastioni. La Repubblica di Venezia, che pure temeva l’arrivo dei turchi, aveva fatto pervenire al Patriarca fucili e cannoni (Zotti 1905). I dipinti provenienti dal parapetto della cantoria furono appesi alle pareti del presbiterio subito sotto le portelle dell’organo, di cui abbiamo parlato, senza rispettare l’ordine degli episodi (Altan 1753), bensì una presunta simmetria. In queste tavole l’Amalteo raccontò la vita dei martiri protettori di San Vito. La leggenda narra che S. Vito, vissuto all’epoca dell’imperatore Diocleziano (240-313 d.C.), era figlio di un nobile pagano della Sicilia occidentale e divenne cristiano all’insaputa del padre per opera di Modesto e Crescenzia. Fu denunciato dal padre al prefetto Valeriano che lo fece fustigare. Riuscì a fuggire con Modesto e Crescenzia, ma fu fatto catturare da Diocleziano che lo fece buttare nella pece bollente. Egli ne uscì illeso, anzi divenne più forte. Fu gettato allora fra i leoni, ma questi non lo toccarono e mansueti gli si accovacciarono ai piedi. In quell’occasione il Santo cacciò il demonio dal corpo del figlio dell’Imperatore. Morì sul patibolo assieme ai suoi amici qualche anno dopo. Nelle nostre tavole, le vicende dei Santi protagonisti sono narrate secondo un procedimento arcaico, dato che essi sono più volte inseriti in una stessa scenetta, senza rispetto della cronologia degli avvenimenti. Il Cesarino stimò moltissimo queste opere dell’Amalteo e congetturò che queste, insieme alle altre del duomo, avrebbero reso immortale il maestro. Il Maniago definisce il colore “alquanto terreo e freddo”, opinione non condivisa oggi da Metz e Goi (1977) i quali affermano che, almeno per “quello che si riesce a vedere del croma, là dove meno crudele è stato l’intervento di restauro... pare trattarsi - ma se ne riparlerà a pulitura avvenuta - di una tavolozza di impasto succoso ravvivata da momenti di più alta intensità coloristica - rossi, gialli, verdi marci, violetti”. A restauro avvenuto (Magri 1984-85), dobbiamo dire che tutto ciò si mostra con bella evidenza. Un alone fiabesco traspare dunque da questa simpatica pittura che viene ad interpretare e nello spirito e nella lettera la leggendaria “passio”.

 

 

 

In presbiterio, a sinistra, con le opere dell'Amalteo, è conservata una
Tela: P. LIBERI? (Scuola veneta del '600?) Estasi di S. Francesco.
Misure: cm 108x88. Ripulitura: GianCarlo Magri 1986.

In una recente pubblicazione (Ce faust? LXXI, 1995, 1),
Stefano Aloisi propone l'attribuzione del dipinto
a Bernardo Strozzi (Genova 1581 - Venezia 1664)

I citati autori affermano inoltre che in queste opere di piccola dimensionel’Amalteo si muove con fare “agile e fresco” e che, superate certe affermazioni in proposito del Maniago e dello Zotti eccessivamente
laudative, “in linea generale si dovrà parlare per il momento di un fondamentale pordenonismo e di plurimi echi del manierismo veneto, senza ovviamente trascurare precedenti esperienze e soluzioni dello stesso Pomponio”. Merita leggere quanto V. Tramontin scrive su queste opere: Il primo pannello ci mostra l’intervento del Santo Patrono il quale libera il figlio dell’imperatore Diocleziano dallo spirito maligno. Nel fondo le mura e le case di una città con astanti affacciati a un balcone, motivo già dipinto dal Pordenone (ma forse dall’Amalteo) nella chiesa di Santa Croce a Casarsa nel 1536 e che ripeterà altrove. Da notare non tanto i monumenti che arieggiano una città d’altri tempi, quanto la presenza fra le case di una via, una parete col tetto a capanna: motivo che ricorda l’attuale configurazione della via Marconi della San Vito di oggi, quella via che per i sanvitesi è sempre stata la via Castello. Nel secondo pannello, presso una porta di città sul mare, il Santo si rifiuta di sacrificare agli idoli. Nel terzo riquadro (a destra del coro) la bastonatura dei Santi mentre si scatena sulla città un temporale. Nel successivo pannello, più ampio degli altri, tre scene distinte: a sinistra i Santi gettati in un bacile di acqua bollente ne escono illesi per protezione divina; a destra, l’imperatore con il seguito meravigliato del come il Santo ammansisce il leone; mentre nel fondo si vedono i Santi legati e portati a un nuovo martirio. Infine nell’ultima composizione un albero divide la deposizione dei corpi dei tre Santi dall’apparizione dell’Angelo con la palma del martirio.
(Virgilio Tramontin, in San Vito Comunità, dicembre 1982).

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