IL DUOMO QUATTROCENTESCO

Non si può parlare del Duomo di San Vito al Tagliamento se non si fa riferimento alla chiesa che lo precedette; di quella, infatti, il Duomo conserva quasi tutti i dipinti e certamente anche in parte l’altare maggiore. Merita dunque conoscere alcune notizie sulla chiesa, della stessa epoca del campanile, che per circa tre secoli fu il centro spirituale della comunità cristiana sanvitese. Nel 1437 l’antica chiesa dedicata ai Ss. Martiri Vito, Modesto e Crescenzia fu demolita perché cadente e vetusta e ormai insufficiente ai bisogni della popolazione. Essa fu ricostruita certamente nello stesso luogo della precedente, più o meno dove sorge l’attuale Duomo; nè avrebbe potuto essere diversamente poiché già da tempo, per lo meno dal 1331, la lottizzazione del castello era stata programmatae definita, così da diventare una formula rigida (Mor). Era allora cameraro, cioè sovraintendente ai beni della chiesa, ser Zuanne di Porcia, che fu zelantissimo nel seguire le varie fasi di costruzione della fabbrica. Il duomo sorse grazie alle munifiche oblazioni di Guidetto Cesarini, appartenente ad una delle famiglie più antiche e nobili di San Vito. I Cesarini godevano infatti, sin dal 1249, dello “jus perpetuo” di assistere il Gastaldo, rappresentante del Patriarca, sedendo in giudizio “ad judicandum tam in civili, quam in criminali” (Zotti). I lavori della fabbrica del duomo furono portati avanti con rapidità, se si considerano i mezzi tecnici del tempo, e fu così che nel 1455 il vescovo di Concordia, Mons. Antonio Feletto, veneziano, consacrò la nuova chiesa. Successivamente nel 1461, ancora sovraintendente Zuan di Porcia, gli abitanti di San Vito ampliarono il presbiterio della parrocchiale, che già allora era ornata di affreschi rappresentanti i profeti. Nel 1486 i nuovi lavori per la chiesa dovevano essere terminati, e così fu nuovamente chiamato il vescovo di Concordia a “consacrare, nei giorni 26, 27 e 28 dicembre, l’altar maggiore e quelli del Corpo di Cristo, della Madonna, dei Ss. Nicolò e Sebastiano, della Croce e di S. Gallo” (Metz). A questo punto la chiesa poteva dirsi, almeno sotto il profilo architettonico, ultimata. Questo duomo fu abbattuto dalle fondamenta nel 1746, per far posto all’attuale costruzione. Possiamo però farci un’idea, anche se imprecisa, di come fosse da alcune piante di San Vito, forse del sec. XVII, e da un dipinto che il Forniz ha attribuito al Moretto, nella cappella Tullio-Altan di San Vito al Tagliamento. Il duomo era allora di dimensioni assai ridotte rispetto all’attuale (De Rocco), a tre navate, delle quali la maggiore notevolmente più alta delle laterali, quindi con archi rampanti di stile gotico. Un rosone e una “bella porta di marmo bianco” (Cesarino 1771) ornavano la semplice facciata. Questo portale fu costruito grazie a una donazione di Caterina Savorgnan della Bandiera, sposa di Matteo Altan, il quale concorse grandemente con danaro alla costruzione della chiesa maggiore di San Vito. A ricordo della loro generosità, su quella porta furono posti i loro stemmi, racchiusi in una unica cornice e sostenuti da un cane ritto sulle gambe posteriori Tale stemma si trova ora sopra l’entrata laterale sinistra del duomo. Esso fu spostato, probabilmente, nel sec. XVIII quando si trasformò la chiesa. Il tempio, finito nel 1486, non subì più, a quanto ne sappiamo, rimaneggiamenti architettonici, finché non fu abbattuto dalle fondamenta nel 1746. Corse il rischio di essere distrutto nel 1546 quando il Grimani, patriarca di Aquileiae signore di San Vito, chiese insistentemente alla Comunità di distruggere la chiesa parrocchiale e di rifarla in “altra forma mazore e prestante”, secondo un progetto che ben si adattava ai piani di abbellimento edilizio e di riforma urbanistica, cari a lui come al suo predecessore. La Comunità di San Vito, eternamente in difficoltà economiche, però prese tempo e pregò il Patriarca di voler aspettare finché non fossero finite le mura che circondavano il castello. Alle mura infatti si continuò a lavorare, a rilento, per molti anni e della rifabbrica della chiesa non se ne parlò più. Vicino al duomo c’era il cimitero, documentato come esistente sino al 1797, e nel 1822 fu portato altrove. Nel 1486 la nuova chiesa era terminata, ma per potersi considerare proprio compiuta doveva essere decorata al suo interno. Essa aveva già un suo organo, abbellito dai dipinti che l’allora celeberrimo Bellunello vi aveva eseguito fra il 1464 e il 1481 (Metz); aveva anche degli affreschi, anteriori al 1461, forse di scuola umbro-toscana (Zotti), ma tutta la parte rifatta nel 1461 era spoglia. Provvide anche a questo il solerte Zuan di Porcia, divenuto ora Podestà, chiamando nel 1490 ad affrescare la chiesa celebri pittori (Altan 1822),fra i quali ancora Andrea Bellunello. Questi dipinse l’altare del Corpo di Cristo e quello, fatto fare “da nuovo”, della Madonna. Tutte queste opere non esistono più, ma un loro vago ricordo rimane nel capitello eretto davanti al duomo (Altan). La tradizione vuole fosse stato dipinto dal Bellunello e destinato ad essere la sua tomba. Di Andrea Bellunello si conserva in duomo un trittico, datato e firmato (1488), di cui diremo più avanti. Con i lavori eseguiti dal Bellunello nella seconda metà del sec. XV, il duomo poteva considerarsi finito; ora finalmente i sanvitesi avevano una chiesa che sopravanzava per vastità e ricchezze tutte le altre del loro paese e degna dell’importanza che San Vito andava via via assumendo. “Sotto le sue tre navate c’erano i posti distinti per il clero e i nobili locali, che in gara vicendevole andavano ricavando entro il tempio le loro tombe di famiglia, mentre le confraternite si affrettavano ad innalzare, in pittoresco disordine, i loro altari devozionali attorno cui radunare le schiere degli ascritti” (Metz). Non ci furono fino al 1533, stando a quanto sappiamo, cambiamenti o nuovi apporti all’abbellimento della chiesa, probabilmente perché i sanvitesi, per la situazione interna ed estera del tempo, avevano ben altro a cui pensare. San Vito si reggeva infatti, già prima della dominazione veneta, in Comune (Ciconi 1862): ogni anno nella festa di S. Giorgio tutti i capifamiglia si adunavano per eleggere il Podestà, che era il capo della Comunità, scelto non necessariamente fra i nobili, e che giudicava nelle cause civili in difesa delle vedove e dei pupilli. In occasione di tale elezione, essi davano anche il voto per la nomina dei Consiglieri, dei Giurati, dei Camerari e dei vari Deputati che avrebbero dovuto comparire nel Parlamento della Patria del Friuli, alle cui deliberazioni i sanvitesi partecipavano con due voti, in quanto San Vito era contemporaneamente libera Comunità e feudo patriarcale. I sanvitesi furono sempre gelosi delle loro libertà e dei loro privilegi, che Venezia riconfermò nel 1420.

 

 

Stemma del Patriarca

Daniele Delfino

(sagrestia del Duomo)

G. e G. Mattiussi:

Busto Marmoreo del Patriarca Daniele Delfino (sulla facciata interna del Duomo)

 

Dal 1445, però, quando San Vito tornò ai Patriarchi, questi ripetutamente modificarono la costituzione, limitando con nuovi statuti l’autorità dei nobili e più sovente del popolo; da qui il sorgere di diverse contese per tutto il sec. XVI, che culminarono nell’uccisione del gastaldo patriarcale nel 1580 (Zotti 1905). San Vito, inoltre, fu anche coinvolta nella guerra (1508-1511) fra Venezia e l’imperatore Massimiliano d’Austria (Menis): quando il Friuli fu interamente occupato dagli imperiali, San Vito accolse Daniele Mantica, commissario dell’Impero; un mese dopo il veneziano Francesco Bembo riusciva a riconquistarla e a renderla al Patriarca (Ciconi). Durante tutto il ‘500, poi, vi furono fermenti sociali e gravissime rivolte di contadini contro i nobili e le istituzioni in genere. Da entrambe le parti si commisero atroci crudeltà, che gli animi fecero fatica a dimenticare. A tutte queste calamità volute dall’uomo si aggiunsero in quegli anni quelle naturali: epidemie, scarsi raccolti e violenti terremoti (il più disastroso dei quali fu nel 1511). Stando così le cose in Friuli e in San Vito in particolare, è abbastanza logico che i sanvitesi non avessero modo di arricchire la loro chiesa maggiore. Solo con la metà del ‘500 vi fu un gran fermento per rinnovarla, affidando varie opere a PomponioAmalteo. Del 1533, infatti - ma si tratta di un dono - è la tela, firmata e datata, raffigurante i Ss. Rocco, Sebastiano, Apollonia, Cosma e Damiano che Pomponio Amalteo eseguì per la chiesa parrocchiale per sciogliere un voto. Molte altre opere, tutte a olio, del maggior pittore sanvitese sono conservate nel duomo di San Vito, ed esse coprono tutto l’arco della sua lunga attività pittorica; segno evidente che il pittore amò molto il suo paese di adozione. La vita del Seicento e del Settecento in Friuli trascorse in modo “meno fosco” (Menis) di quello dei secoli precedenti. Finita la guerra di Gradisca (1615/17), con cui Venezia tentò di riunificare il Friuli togliendolo alla Casa d’Austria, “la vita in Friuli prende l’andatura di una grigia e monotona uniformità” (Paschini 1935). Il continuo contrasto fra l’Impero e Venezia per la questione di Aquileia e del Patriarcato, non toccò la popolazione; come conseguenza si registra una ripresa economica e culturale, soprattutto nei centri maggiori. Questo benessere favorì il mecenatismo e stimolò l’attività artistica. Il Friuli vive di riflesso il momento magico di Venezia la cui splendente ripresa in tutte le arti fa dimenticare la grave decadenza politica e militare. Molto deve il Friuli ad alcune famiglie di nuova o antica nobiltà e alle attività delle comunità religiose, ma soprattutto al mecenatismo dei Patriarchi Delfino.

Dionisio Delfino (1699-1734) fu uno dei più zelanti Patriarchi di Aquileiae illuminato signore; a lui si devono, fra l’altro, l’ampliamento del Palazzo Patriarcale - ora Arcivescovile - di Udine, la creazione della ricchissima Biblioteca con i dipinti del Bambini e Dorigny, e la facciata in pietra di S. Antonio Abate di Udine, fatto costruire dal Massari. Il suo nome però è legato indissolubilmente al Tiepolo, che egli chiamò ad affrescare la Galleria del Palazzo patriarcale di Udine. Dionisio Delfino stabilì in San Vito la sua sede estiva e quando vi morì fu pianto da tutta la popolazione. Volle che il suo cuore fosse conservato nella chiesa del Monastero della Visitazione di San Vito. Gli successe il nipote Daniele Delfino (1735-1751), che continuò la tradizione familiare di illuminato mecenatismo. Si circondò di grandi artisti, fra cui Giambattista Tiepolo, chiamato con il figlio GianDomenico ad affrescare l’Oratorio della Purità di Udine, il Morlaiter, lo Zugno e altri. Daniele Dolfin (come più correttamente si dice e si scrive nella lingua della Serenissima Repubblica) nacque a Venezia nel 1688 da Daniele III (detto Zuane) e da Pisana Bembo. Dopo gli studi compiuti a Parma, a 21 anni entrò nel Maggior Consiglio. Ben presto rinunciò ad una promettente carriera politica e ricevette gli Ordini sacri. Papa Clemente XI nel 1714 lo nominava “coadiutore” (con diritto di successione) dello zio Dionisio, Patriarca di Aquileia, e prese il titolo episcopale di Aureopoli. Il giovane prelato nel 1715 si laureava all’Università di Padova e nel 1717 otteneva la “commenda” (affidamento in possesso) dell’abbazia di Moggio, nell’alto Friuli, e dell’abbazia di Corno di Rosazzo, nel Friuli orientale. Venuto a mancare il Patriarca Dionisio, prese possesso della Diocesi facendo l’ingresso ufficiale l’8 maggio 1735. Il Papa Benedetto XIV lo nominò Cardinale con il titolo di Santa Maria sopra Minerva e successivamente di San Marco. Daniele Delfino fu l’ultimo dei Patriarchi di Aquileia.
La bolla di Benedetto XIV in data 6 luglio 1751 soppresse “in perpetuo nella città di Aquileia, la cattedra, dignità, sede e titolo e denominazione patriarcale” (Paschini 1935). Al suo posto venivano erette le Arcidiocesi di Udine e di Gorizia. Il Card. Delfino conservava ad personam il nome, il titolo e le prerogative del soppresso Patriarcato. L’ultimo Patriarca di Aquileia divenne il primo Arcivescovo di Udine. Daniele Delfino morì a Udine il 13 marzo 1762. La Repubblica di Venezia, già tornata in possesso di San Vito, ordinò la cancellazione di tutte le insegne e memorie patriarcali, e fu demolito anche l’antico palazzo dei Patriarchi che si trovava lungo l’attuale via Marconi. Ma torniamo al rapporto preferenziale che il Delfino ebbe con la comunità sanvitese. A San Vito egli elargì beni a famiglie benemerite e a sue spese fece riedificare la chiesaparrocchiale, più grande della precedente, quasi a voler siglare con un atto di munificenza la fine dell’istituzione millenaria, di cui egli era stato l’ultimo e degno rappresentante.

 

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