EPISTOLA
DI ORAZIO FLACCO AI PISONI ossia LIBRO
INTORNO ALL’ARTE POETICA Se mai ad un Pittore venisse il capriccio di attaccare ad
una testa umana la cervice(1) di
un cavallo, e di penne di varj uccelli(2) adornare
le membra prestate da differenti animali, di maniera,(3) che il seno di
una vaga donna finisse in un nero, ed orroroso pesce; come potreste voi, o
amici, contenere il riso quando foste ammessi ad un simile spettacolo?
Fate conto, o Pisoni, che ad un quadro di questa fatta più che simile
diverrebbe quel libro, nel quale come tanti sogni d’infermi si vedessero
riunite, ed espresse delle idee così vane, e confuse, che né il capo, né
i piedi corrispondessero ad un medesimo oggetto. A’Pittori, ed a’Poeti
fu sempre egualmente permesso di osare quanto mai lor viene in
fantasia.(4) Lo sappiamo: e siccome domandiamo una tal licenza per noi,
così vicendevolmente l’accordiamo agli altri.(5) Ma non però in guisa,
che le fiere selvagge si uniscano cogli animali placidi, e mansueti, i
serpenti colle colombe, gli agnelli colle tigri. Sovente dopo gravi
cominciamenti, che ci mettono in grandi aspettazioni, si vede come
improntato uno, o un altro pezzo di porpora, che ampiamente risplenda;
siccome quando, a cagion di esempio, descrivonsi la boscaglia , e l’ara
di Diana; ed un ruscello di acqua, che frettoloso serpeggi per amena
campagna; o pure quando si descrive il fiume Reno, o(6) l’arco celeste.
Ma nell’occasione, in cui siamo, non avean luogo somiglianti
descrizioni: e per avventura tu saprai ben dipingere al naturale(7) un
cipresso: Ma questo a che ti giova, se colui, il quale te ne ha pagato il
prezzo, desiderava esser dipinto come uno, il quale dopo aver rotto in
mare disperando di sua salvezza,(8) ha finalmente la sorte di salvarsi a
nuoto? Si è incominciato una grande anfora, come poi col girar della
ruota n’è uscito un picciol orcio? Insomma siasi quel, che si voglia,
ciò, che tu fai, purché sia semplice, e serbi l’unità. Il più delle
volte, o Pisoni, e padre, e figli di un tal padre degni, c’inganniamo
sotto la specie, e sembianza di esser ben fatto ciò, che facciamo. Io
m’industrio di esser breve, e divengo oscuro: (9)volendo andare appresso
alle minuzie, ed a cose di poco momento, mi manca il nerbo, e lo spirito:
chi si professa di scriver grande, e sublime, diviene gonfio, ed
ampolloso; e chi teme la tempesta, per schivarla rade la terra.(10) Chi
brama mutare prodigiosamente una cosa,(11) mostrandola in varj aspetti,
dipinge il Delfino tra le selve, e tra le onde il Cignale. In somma il
fuggire il vizio ci fa nel vizio cadere, se non si ha l’arte di saperlo
fare. Intorno alla sala, e scuola di esercizi gladiatorj di Emilio vi sarà
un fabbro degl’infimi, capace di finire le unghie delle sue statue
meravigliosamente al naturale, e di fare in esse anche vedere la
morbidezza, e pieghevolezza dei capelli;(12) ma riesce poi infelice tutta
l’opera, perché non fa bene accozzare insieme, e formare
proporzionatamente tutte le sue parti.(13) Ora se io avessi in pensiero di
comporre qualche cosa, non vorrei esser più tosto come costui, che esser
degno di somma ammirazione per li miei neri occhi, e capelli, ed aver poi
un naso assai deforme, e spropositato. Eleggetevi voi, che scrivete una
materia proporzionata alle vostre forze;(14) e per lungo tempo considerate
che cosa possano gli vostri omeri sostenere, e qual cosa no. A chi si averà
scelto un soggetto proporzionato alle sue proprie forze, non potrà
mancare né la facondia, né un chiaro metodo di bene ordinarlo.(15) La
virtù, e forza dell’ordine, e la sua grazia, e venustà consiste in ciò,
se pur non m’inganno, che ora si dicano quelle cose, che là per là
debbon dirsi, e molte altre si tralascino di presente, e si differiscano a
tempo più opportuno.(16) Chi si prefigge di scrivere
un Poema(17) deve avere il senno di ammettere, o rigettare taluni
incidenti; e deve anche esser parco, e giudizioso in foggiar nuovi
vocaboli. El tuo stile sarà singolare, se un giudizioso concatenamento
farà sembrar nuove quelle parole, che son già note, e in uso. Se per
sorte fosse necessario additare cose occulte, ed ignote con voci nuove, e
recenti, e portasse anche il caso di formarne di quelle, che non furono
mai udite dagli antichi grembiulati Ceteghi, ti si accorderà una tale
libertà fino a quando da te se ne faccia un uso moderato, e conveniente.
E tali parole nuove, e di recente formate avranno credito, e stima se per
poco mutate si faccino dai Greci fonti derivare(18). Or per qual ragione
toglieranno a Virgilio, e Vario quel dritto, che accordarono a Cecilio, e
Plauto? Perché se io posso far nuova incetta, ed acquisto di poche voci,
ne sono invidiato, e mal veduto, quando la lingua di Catone, e di Ennio
adornò il linguaggio della loro padria, e produsse alla luce nuove
denominazioni delle cose? Fu sempre lecito, e sempre lo sarà, di foggiare
un nuovo nome, che abbia i caratteri, e le insegne dell’uso presente.
Siccome le selve negli scorrevoli anni mutano le loro fronde, producendo
le nuove, e gittando a terra le vecchie, così finisce l’età delle
parole antiche, e le novelle a guisa de’giovanetti fioriscono, ed
acquistano grazia, e vigore. Non solo le cose nostre tutte, ma noi
medesimi siamo soggetti alla morte, o sia, che il mare rinchiuso tra la
terra ricoveri,(19) e difenda le armate navali dalle tempeste; opera
veramente reale; o che la palude sterile da lungo tempo, ed atta ai remi,
siasi disseccata, e ridotta alla stato di ammettere il pesante aratro, ed
alimentare le città vicine; o che il fiume distolto dall’antico suo
corso tanto nocivo alle campagne, ed a’prodotti, ne avesse preso un
altro migliore(20). In somma morranno, e periranno tutte le opere dei
mortali, non che starà sempre in piedi la medesima stima, e la medesima
grazia, e vivacità delle lingue(21). Molte voci già spente, e che ora
sono fuori dell’uso, rinasceranno; e caderanno in disuso quelle, che ora
sono in voga, se così vorrà l’uso, presso del quale si è
l’arbitrio, il diritto, e la norma del parlare. Con qual sorta di versi
possan descriversi le gesta dei Re, dei gran comandanti, e le funeste
guerre, ce lo ha insegnato Omero. L’Elegia co’suoi versi inegualmente
uniti servì da principio per trattare le cose tristi, e luttuose; e
poscia abbracciò facilmente le cose piacevoli, e di felice successo(22).
(23) Chi però sia stato l’autore dei versi Elegiaci, i Grammatici tra
di loro ne disputano; né ancora se n’è decisa la lite. Archiloco si
armò de’suoi giambi per sfogare la propria rabbia: de’quali poscia
servironsi egualmente nella Commedia, che nella Tragedia, come quelli, che
sono meglio adattati per li Dialoghi, e che superano gli strepiti del
popolo, e quasi fatti a posta per trattare, e rappresentare le cose.(24)
La musa insegnò a cantare al suono della lira le lodi degli Dei, e degli
Eroi delli Dei figliuoli(25); a celebrare le vittorie degli Atleti, e dei
Cavalli vittoriosi alla corsa; (26) a dire le amorose sollecitudini
de’giovani, e comporre le canzoni di Bacco. Or se io non sappia, e non
possa mantenere si fatti caratteri, ed usar come si deve di quei colori,
che tali opere richieggono, come potrò chiamarmi poeta? Perché per un
vergognoso rossore contentarmi anzi ignorargli, che apprendergli?
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Note
di Carlo Paolino: Questa, che porta il titolo di arte Poetica di Orazio non costa se così fosse stata presentata a Pisone, in grazia de’figli del quale pare assolutamente, che fosse stata scritta. I paragoni, e gli esempi addotti, e soprattutto nell’incominciamento con un quadro di una figura così strana, e goffa, non avrebbero luogo, né sarebbero da tollerarsi se non ne’Dialoghi con fanciulli, i cui talenti non sono ancora sviluppati a sufficienza, né capaci di comprendere da loro stessi la semplice verità delle cose, senza soccorso di esempi, e paragoni facili, e grossolani. Per la qual cosa essa è da considerarsi come una Lettera in forma di Dialogo tra l’Autore, ed i figli di Pisone, come anche facilmente si potrà rilevare dal proseguimento della medesima. Ciò nonostante avendo anche l’autore avuto facilmente in mira di dare a’Romani una Poetica da servire come un perpetuo, ed inalterabile modello, ha qui riunito, e raccolto quanto forsi vi era di più preciso, e singolare tra gl’insegnamenti di Aristotile, di Critone, Zenone, Democrito, e soprattutto di Neoptolemo da Paro; tanto è vero, che Porfirione scrisse a questo proposito: in quem librum conjecit praecepta Neoptolemi de arte Poetica non quidam omnia, sed eminentiora. Non vi è persona, la quale oggi non confessa, che tra l’antichità non si trovi un’altr’opera di critica né più eccellente, né più proficua, e necessaria di questa. Essa non lascia cosa veruna a desiderare. Tutt’i giudizi, che contiene sono ricavati dalla natura medesima delle cose; talmente che sono meritevolmente passati a precetti: e sono così necessari, ed importanti, che tutto giorno il successo delle grandi opere si vede dipendere dall’esatta, e precisa osservanza delle sue regole. Egli è molto difficile di assegnare la data certa del tempo, in cui questa lettera sia stata scritta; è da supporsi però, che fosse una delle ultime opere di Orazio, quando era diventato più consumato nell’arte. 1- Humano capiti cervicem ecc. Se si lascia libero il campo alla sana riflessione, si dovrà necessariamente conghietturare, che questo quadro presentasse il volto, e l’anteriore del busto di una bella donna. L’aver detto Cervicem è certo, che con più precisione si abbia voluto denotare la parte posteriore del collo, e non già il collo intiero. Or quando si volesse attaccare all’intiero collo di un Cavallo un petto quanto si voglia bello di una donna, non solamente è sicuro, che si deturperebbero le qualità di una bella donna, ma sono a dire ancora, che si toglierebbero affatto le idee, ed apparenze di qualsivoglia donna. E poi non sarebbe questo un soggetto da provocare il riso; ma da far concepire piuttosto schifo, ed orrore. 2- Et varias inducere plumas. Si accresce sempre più il motivo del riso coll’apposizione di varie penne di differenti uccelli: e pare, che questa similitudine sia stata tolta ad imprestito dalla famosa Cornacchia della Favola. 3- Ut turpiter atrum . A Sanadon invece di ut è piaciuto leggere aut, persuaso che Orazio avesse voluta dare l’alternativa di due figure bizzarre, di cui l’una avesse la testa di uomo, e l’altra presentasse il busto di una donna dalla cintura in su. Io però non trovo una fondata necessità di ricorrere a questa tale alternativa; né le parole sono tali, che conducono alla disunione del filo del soggetto. Qui l’ut come spesso succede, è per ita ut, come se volesse dire ita ut mulier formosa superne desinat in piscem. Oltre di ciò superne, ed inferne sono correlativi in maniera, che l’idea di uno fa nascere quella dell’altro, il quale o trovasi espressamente, o è divisato con altri termini, che conducono allo stesso, come qui fa il desinat. Qui dunque il superne divide il mostro in parte superiore, che è una bella donna, e in parte inferiore rappresentante un nero, ed orroroso pesce. 4- Scimus, et hanc veniam ecc. Mr. Dacier crede, che solamente scimus dovesse mettersi in bocca di Orazio, e tutto il resto considerarsi come una sollecita risposta de’cattivi Poeti, che l’interrompono col dire: Et hanc veniam petimus damusque vicissim. Appoggia il suo sentimento su di ciò, che Orazio non potea cercare il permesso di far’uso di questa licenza, quando egli non dovea riguardarsi come poeta, giacchè non componeva poesie né Epiche, né Drammatiche. Questo sentimento è con ragione contraddetto da Sanadon, il quale dice, che non vede una positiva ragione, che ci obbliga a mettere questo passo in Dialogo simile; e che al contrario tutte siano parole di Orazio, il quale sebbene non facesse componimenti Epici, né Drammatici, pure non lascia di esser Poeta; e qui parla in nome de’suoi confratelli, o sian poeti del suo partito. E poi se non fosse per questa ragione non avrebbe detto scimus, damus, petimus servendosi del numero del più. Orazio dunque in nome di tutti dandosi carico della libertà, che avevano i Pittori egualmente, che i Poeti dice scimus; e colle parole seguenti: et hanc veniam petimus fa vedere che passa subito ad approvarla in modo, che vicendevolmente la pretende, quando egli non è restio ad accordarla, però con una certa moderazione, come si nota nelle seguenti parole: sed non ut ecc. 5- Sed non ut placidis coeant immitia ecc. Subito che Orazio ha detto, che si servissero pure di quei privilegi vantati da’Pittori, e Poeti, gli avverte, che non ne abusassero, e fossero ben cauti a non riunire cose ripugnanti, e contro natura, come succederebbe coll’esempi, che adduce. 6- Pluvius L’Iride, o arco baleno in latino si dice pluvius non già perché il medesimo sia cagione della pioggia; ma per lo contrario è dalla pioggia cagionato. Perché il medesimo potesse comparire, tre cose si ricercano, cioè l’occhio dello spettatore nel mezzo, la nebbia pioviticcia da una banda, e dall’opposta il sole, i cui raggi incidenti nelle gocciole della nebbia col riflettersi che fanno giungono all’occhio dello spettatore divisi ne’colori primitivi. 7- Et fortasse cupressum scis ecc. Io non saprei come si possa dire, che i Cipressi servivano di soggetto allo studio, ed alle prove di quei, che cominciavano a scarabocchiare col pennello. Però, se si considera esattamente quanto si è detto, e quanto colle parole seguenti viene espresso, si vedrà, che non senza motivo si è preferito il cipresso a qualunque altro albero, che poteva benissimo servire all’istesso oggetto. Perché, siccome Orazio vitupera, e deloda quel poeta, il quale essendo per cagion di esempio incombenzato di cantare le Vittorie di Augusto riportate lungo la riva del Reno, si mette a tessere una lunga, e ristucchevole descrizione del detto fiume per cui meritevolmente gli si può dire Sed non erat his locus, che dovendo egli avere le sue principali mire alle vittorie di Augusto, le avea rivolte al Reno fuor di proposito; così farebbe lo stesso per un Pittore, il quale per paga anticipatamente avuta fosse nell’obbligo di esprimere, e colorire su d’una tela un povero disgraziato, il quale avendo rotto in mare, e disperando di sua salvezza cerca nuotando scampar la vita, volesse invece sostituirvi un bel formato Cipresso adottato nei lugubri apparati come un simbolo del lutto, e del duolo. Non sarebbe egli degno di essere schernito, e deriso? E pure sarebbe senza forsi minor male per un vasaio, il quale avesse in pensiero di formare un’anfora, e poi col girar della ruota si lasciasse uscire di mano un’orciuolo. Qui è da notarsi ancora, che et sta in luogo di etiam, come se dicesse: ancora tu sai (parlando del Pittore) dipingere.. 8- Enatat expes. Enatat significa salvarsi nuotando, uscire a nuoto dalle onde. Si dice poi expes senza speranza di salvarsi, e di recuperare quanto di mercanzia, o di altro teneva ne’bastimenti ingoiati dal mare. 9-
Sectantem levia nervi deficiunt ecc. Siccome chi scrive
con troppa brevità il più delle volte corre rischio di non essere
inteso, non essendo le idee sviluppate a segno d’apportare la
necessaria, e la debita chiarezza; così coll’incorrere nel vizio
opposto, volendo esser troppo minuto, e brigarsi di tutte le inezie, manca
di spirito, e di forza. Dei due vizi, però,
è più biasimevole la brevità, quando uscisse dalla lodevole
concisione, e togliesse l’opportuna, e necessaria chiarezza.
All’incontro 10- Serpit humi tutus nimium. Allo stile alto, e grande si oppone il basso, e tenue. Or siccome chi agogna al grande, e molto di sé si compromette, non fa conto delle minime cose; anzi cerca, dirò così, di adattare al fringuello le ali della grù; così al contrario chi è troppo timoroso nel concedere alle idee la giusta, e dovuta estenzione, si rannicchia talmente, che rade la terra. Quindi lo stile basso, e tenue diventerà più che umile, ed esile. Questa espressione di Serpit humi ecc. al credere di Dacier, pare che Orazio presa l’avesse dagli uccelli, i quali volteggiano sulla terra quando il timore del vento, e della tempesta impedisce loro d’innalzare il volo. 11- Qui variare cupit rem prodigialiter unam. In questo, e nel verso seguente è fuori dubbio, che vi si racchiude un altro precetto, il quale tocca positivamente la verità della cosa, di cui si tratta. Chiunque abbia la mira e la facoltà di trattare l’istesso soggetto con delle diverse tinte, modificate però in guisa, che ne vantaggino la condizione, e ne faccino risplendere le grazie, e le bellezze, si apre certamente la strada alla lode meritata dalla sua virtù. Al contrario variare un soggetto, dare al medesimo de’prodigiosi colori, i quali non dico, che ne alterino, ma ne cambiano affatto la natura, è l’istesso dire, che non si marcia più per la verità del medesimo. Un Pittore, che dipinto avesse un topo colle ali, avrebbe egli fatto una pittura vera, e naturale? Sarebbe egualmente deriso, come quell’altro, che volesse situare il cinghiale nel mare, e ne’boschi il delfino. Tutte quelle cose, le quali non si veggono sotto il vero, e naturale aspetto, e si allontanano dall’ordine consueto, sono da riporsi tra le classi de’prodigi, e de’portenti. Per questa ragione l’autore si è espresso prodigialiter . All’incontro chi fosse troppo parco, o per timore di non alterare la cosa non volesse discostarsi dalla naturale semplicità, e precisione, inciamperebbe nello stesso difetto ogni qualvolta non venga assistito dalla maestria la più sopraffina. In vitium ducit culpae fuga, si caret arte. Questa massima è presa intieramente dalla pittura. In fatti un soggetto stesso può alterarsi o colla varietà, e superfluità, o colla diminuzione, e mancanza di alcuni colori necessari; ed egualmente ci discostiamo dal vero in quello, che in questo caso. E siccome nel primo alcune volte una certa illusione non ci fa dispiacere il verosimile, così nel secondo non si ammette via di mezzo. Di quindi sempre si è creduto, e detto, che il più semplice fosse il più difficile. 12- Ponere totus. Ponere qui significa lo stesso, che componere, , comporre, mettere insieme, situare, o accozzare le parti di un tutto in maniera, che risorge quel soggetto, che noi vogliamo; e si dice in generale di tutte le opere eseguibili di qualsivoglia genere, che risultano dalla connessione delle varie parti, che loro competono. Non basta ad un’artista che sappia ben formare una, o un’altra cosa: e quando tutte le parti separatamente fossero ben’eseguite, riuscirà sempre infelice la somma, o sia l’unione di esse, quando non concordano né tra loro, né col tutto, vale a dire quando non serbano la dovuta proporzione. Chi sapesse bene i tuoni musicali, e nell’esecuzione di qualche pezzo non serbasse a dovere il tempo necessario, potrebbe ottenere ragionevolmente, che felice, o sia armoniosa si dicesse quella musica? 13- Hunc ego me, si quid componete curem. Orazio in questa occasione dice, che non vorrebbe esser paragonato allo stesso Fabro nelle sue composizioni, non altrimenti come non amerebbe avere un deforme naso sul proprio viso ammirabile d’altra parte per gli occhi, per la capellatura ecc. Una persona gelosa del suo onore non è così facile a contentarsi di tutto indifferentemente; ma cerca sempre sfuggire qualunque neo ancorché minimo. 14- Et versate diu, quid ferre recusent …Queste parole a prima vista si potrebbero prendere per superflue, ed inutili, come quelle, che in certo modo ripetono l’istesse idee del verso precedente. Però è molto diverso da sumite materiam vestris viribus aequam il dire Versate diu ecc imperciocchè taluno facilmente potrebbe credersi essere nello stato di farsi uscir di mano qualche eccellente composizione, e forsi il suo credere sarebbe vano, e un solenne inganno; il quale però in una maniera solamente potrebbe evitare qual è quella di versare diu cioè di far un lungo, e rigoroso esame sulle sue forze, considerarle per quanto si estendono, e fin dove possono resistere in rapporto al peso, che si voglia addossare; giacchè non a tutti è conceduto di avere i medesimi gradi di potenza, e di resistenza. Quando questo si faccia cui lecta potenter erit res, vale a dire quando si scelga un soggetto proporzionato, ed analogo alla sua possanza, ne avverrà per sicura, e legittima conseguenza, che nec facundia deferet hunc , nec lucidus ordo, non altrimenti, ch’ei dicesse, che senz’aiuto dell’arte viene da sé la facondia ad informare il petto del Poeta, accompagnata da un’ordine chiaro, e spedito. 15- Ordinis haec virus erit, et venus, aut ego fallor Qui la disposizione , e l’ordine delle parole, e delle idee è molto differente dal naturale e dall’istorico, per cui vi bisogna non piccola finezza, e discernimento. Orazio apporta quale, ed in che modo dev,essere; e pare, che di questo insegnamento ne voglia dare una certa sicurezza coll’aggiungere l’espressione aut ego fallor, appunto come volesse dire: aut ordinis haec virus erit , et Venus, aut ego fallor. Ed è questa una maniera di parlare usitata, e familiare. 16- Promissi carminis Colla comune va qui parimenti Dacier nella spiega di Promissi carminis; e lo chiama poema promesso, come quello, che si attenda da lungo tempo, e sul quale si è accesa la curiosità del pubblico; perché tutto quello, che si attende da lungo tempo dev’essere necessariamente più perfetto, figurandosi, che Orazio avesse avuto sotto gli occhi l’Eneide di Virgilio, che si aspettò buona pezza da che se n’era parlato. Io però confesso di non vedervi connessione alcuna; non posso immaginare, che Orazio avesse avute in mente queste idee, le quali sarebbero molto aliene in un momento, che parla di quel, che deve concorrere nell’attuale formazione di un componimento. Quindi son di parere, che promissi carminis non riguarda un poema desiderato da lungo tempo a tenore della promessa, ma bensì quello, che attualmente uno lavora, e che senza ch’altri lo sappiano, può benissimo dirlo promissi, non altrimenti che volesse esprimersi sibi ipsi promissi , per darne una spiega triviale, la quale neppure è necessaria, potendo molto bene reggere da sé, ed esser facilmente compresa da chi voglia entrare nel fondo di questa riflessione. Oltre di ciò vi sarebbe parimenti un’altra considerazione, che potrebbe aver luogo; ma la lascio indecisa per timore, che non sembrasse strana, perché posta in campo la prima volta per quanto è a mia notizia. Essa è appunto di potere attribuire a promissi carminis il significato di un poema lungo; non altrimenti, che la barba lunga dicesi promissa barba, promissae comae, promisso ventre arietes ecc. Perché solo, generalmente parlando, in un lungo Poema, qual è l’Epico, e il Drammatico, è necessario che l’autore jam nunc dicat ecc. pleraque differat ecc. hoc amet, hoc spernat ecc. 17- In verbis etiam ecc.Sembra non molto alieno dal vero, che possa aver luogo il sentimento di Bentlei sostenuto da Sanadon, che questo verso dovesse trasferirsi nel luogo del precedente. Alle ragiono addotte si aggiunge, che Orazio cotanto accorto se così non avesse stimato, non avrebbe adoperato hoc, e hoc, che si riferisce a Verbum; ma senza costargli cosa avrebbe piuttosto detto haec servendosi del numero del più egualmente , che poco sopra. 18- Parce detorta. Fa mestieri, che queste voci semplici novelle discendano dal Greco, ma che l’origine ne sia parimenti ben marcata, che l’analogia sia giusta, ed intiera, e che non sia né ardita, né stiracchiata da lontano: ed ecco, che significa qui parce deporta. 19- Sive receptus terra Neptunus classes ecc. Neptunus Dio del mare è talvolta preso per lo stesso mare in generale, o in particolare, come in questo luogo, dove vien designato quel tanto di acqua, che dicesi receptus terra, quella porzione cioè, che rinchiusa viene ne’porti per la sicurezza de’Bastimenti. Or qui Orazio deve parlare sicuramente del Porto Giulio opera magnifica, e grandiosa dovuta ad Augusto. E che voglia intender questo, si può dedurre dal considerare, che Orazio godendo il favore, e tutti gli effetti della beneficenza di quel gran Principe, per non cessar mai di mostrare la dovuta riconoscenza, non lasciava sfuggire qualunque minima occasione di decantare le glorie del medesimo, e mettere in veduta le sue opere più grandiose. Infatti oltre di questa, ne rapporta in seguito altre due eseguite ben’anche dall’istesso Augusto, una cioè dell’essiccazione delle Palude Pontine, e l’altra degli argini fatti al Tevere, che colle inondazioni rovinava le sottoposte campagne. Questo porto, di cui si è fatta menzione, per disposizione di Augusto fu portato al grado di magnificenza da esser decantato per un’opera la più illustre, e la più rinomata. Si servì dell’assistenza, e dell’impegno di Agrippa, il quale fece rompere lo spazio di terra interposto tra il lago Lucrino e il lago di Averno per farne la totale riunione, e così conciliare al porto la dovuta estenzione; ed oppose al lago Lucrino argini grandi o smisurate moli da rifrangere l’empito, e l’orgoglio delle onde. Si vegga Virgilio II. Georg. Ver. 161. Opera veramente da Re: Regis Opus. Augusto poi permise che si chiamasse porto Giulio, o perché volle consacrarlo al nome di Giulio Cesare per un certo rispetto, e venerazione, o perché veramente questa intrapresa fu mossa, e cominciata dallo stesso Giulio Cesare, come da Svetonio: Portum Julium apud Bajas immesso in lucrinum, et avernum lacum mari, effecit. Ecc. Oggi però di quest’opera appena compariscono pochi vestigi. E pare che Orazio ne avesse fatta la profezia con dire poco dopo; mortalia facta peribunt. Il tempo, e le rivoluzioni della natura ne sono i più possenti distruttori. In fatti quel sito, che serviva all’ingresso di detto porto è occupato dal monte Nuovo, che sorse a 29 Settembre dell’anno 1538. 20- Doctus iter melius. Apparentemente per meliori itinere. Plauto disse ancora: Curatio hanc rem invece di hujus rei. I Grammatici han detta Antiptosi questa Costruzione. 21- Nedum sermonum stet honos ecc.Dopo che Orazio ha rapportato varj esempi di cose, che nonostante la loro grandezza, e necessità grande di doversi mantenere, sono finalmente coll’andar del tempo rimaste estinte, con tuono preciso conchiude: Mortalia facta peribunt, quasi volendo significare si mortalia ecc. con soggiungere immediatamente nedum sermonum stet honos, ove stet non può, né deve spiegarsi, che potenzialmente, cioè molto meno, o ne anche può restar saldo ecc. 22- Voti sententia compos. Orazio siccome ha poco sopra annunziato, che le grandi azioni de’Re, e de’distinti Capitani erano il soggetto della poesia Epica, così in questa occasione ci vuol designare in quali materie deve impiegarsi l’Elegia: e dice, che siccome prima era destinata per le cose funebri, così coll’andar del tempo servì ancora per esprimere il contento, e l’allegrezza per qualche cosa ottenuta a seconda del desiderio. Gli amori in generale presentano il soggetto più ampio, che mai per questa specie di composizione, come si può scorgere presso di Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio, ed altri, che l’hanno adoperata. 23- Quis tamen exiguos elegos. Da Elegos si è fatto Elegia. L’origine primitiva poi voglion farla derivare da άπό τέ έλέγε ( a luctu) come una composizione, che si adoperava nelle cose lugubri, e lamentevoli. Non per altra ragione Ovidio la chiamò flebilis. Ella cammina con versi due a due impariter junctis, cioè con un esametro, ed un pentametro in maniera, che sembra zoppicare:
Venit adoratos elegia
nexa capillos,
Et put opes illi longior alter erat (Ovidio) Ed il suo giro è tale, che la rinchiude in certi limiti, onde par che non abbia la conveniente facoltà di potersi liberamente spaziare di molto. Da questi motivi, dunque, e dalla materia non è meraviglia, che Orazio dica exiguos, come quella che non si adatta agli argomenti gravi: tanto vero, che Ovidio avendo voluto tentare il contrario, ne dimostra il pentimento dicendo:
Quid volui infelix elegis imponete tantum Ponderis? Heroi res erat ista pedis. 24- Fidibus. Nella sua origine Fides corrispondeva χορδη chorda, intestinum, denotando
gl’intestini disseccati, e preparati a guisa di fili, che oggi
diconsi minugge, o Corde
di budella. Erano impiegate nella Lira, ed in altri simili strumenti, per cui Fides passò a significare la stessa Lira: Di quindi si è fatta Fidicen, e Fidicina. Si son serviti poscia della parola diversamente in materia di Religione, di Etica, Politica ecc. 25- Divos, puerosque deorum. Tra i soggetti della poesia lirica erano i Dei, ed i Figliuoli de’Dei, che sono i Re, gli Eroi ecc. Così li chiama ancora nell’oda II del lib, IV. Deorum sanguinem, dicendo nel verso 13: Seu Deos, regesque canit, Deorum sanguinem. 26- Et juvenum curas, et libera vina ecc. Il Foco che si accende nello sviluppo della prima età fa si, che i Giovani precipitosamente si lasciano cadere nella crapula, e nelle passioni amorose: e queste sono, e non altre le loro particolari cure. Chiama poi libera i vini della licenziosità, e sfrenatezza, che ne apporta l’uso smoderato. 27- Singola quaeque locum teneant sortita decenter. Quintiliano ha similmente detto nel lib. X: Sua cuique proposita lex, suus decor est; nec Comaedia in cothurnos assurgit, nec contra Tragaedia socco ingreditur. E’ da notarsi, che sortita è in luogo di sortitum accordabile con locum. Maniera molto familiare ai Latini. Sanadon con l’autorità de’manoscritti, e di più critici legge decentem invece di decenter. Non se ne vede la ragione sufficiente. Anche Dacier lo disapprova. 28- Male si mandata loqueris. Dacier dice, che spiegano mandata quasi partes sibi a fortuna datas; o veramente partes personae a poeta commissas , e l’una e l’altra di questa spiega gli sembrano da non potersi sostenere; e vuole, che Orazio alluda alle arringhe, che facevano Teleso, e Peleo ai Greci per obbligargli a dar loro qualche soccorso. Comunque si voglia, Orazio parla qui della tragedia; e portando per esempio quella di Teleso, e Peleo dice, che se la parte, che deve stare in bocca di chi rappresenta Teleso, e Peleo non è bene appropriata, e descritta in guisa, che malamente si adatta al caso, che si vuol rappresentare con successo, non solo, che non muove gli affetti, ma per lo contrario apporta sonno, o riso. 29- Format enim natura prius nos intus ad omnem fortunarum habitus. Quasi la stessa è la descrizione, che Cicerone ne dà nel lib. II del suo Oratore, ove dice: omnes animi motus suum quondam habent a natura vultum, sonum, gestum; totumque corpus hominis, et ejus omnis vultus, omnesque voces, ut nervi in fidibus ita sonant, ut a quoque animi motu sunt pulsae. Oggi non v’è chi non sappia quanto possa sullo spirito l’influenza del Corpo, la quale variando secondo i temperamenti, non può fare, che varie non ne riescano le emozioni. E siccome naturalmente lo spirito è capace di percepire i varj cambiamenti, così il corpo ave la forza rendergli sensibili, ed esprimergli sotto il loro aspetto mediante i propri strumenti, post effert animi motus interpetre lingua ecc. 30- Juvat, aut impellit. Qui bisogna fare una riflessione necessaria, per meglio capire il senso di juvat, e di impellit. Tra gli uomini i dotati di temperamento sanguigno, o colerico hanno una naturale facilità, e propensione allo sdegno. I flemmatici al contrario, ed i malanconici non sono di questa portata. Non è però, che talvolta non possono montare in furia; anzi siccome non sono così facili, perciò quando vi sono provocati sogliono essere i più tenaci. Nel primo caso vi è la semplice mano, o sia l’aiuto della natura, juvat: nel secondo vi è la forza, o sia l’impulso della medesima, impellit. 31- An matrona potens. Non so perché si debba ricorrere alla suddetta supposizione, quando più naturalmente Sedula nutrix si può prendere in senso cattivo, una nutrice cioè di diligenza assettata per espiscare sempre più alla sua ricca padrona, potens. 32-
Honoratum. Questa lezione è stata cambiata in Homereum
da Mr. Bentlei, il quale dice, che si deve rigettare l’ordinaria Honoratum per varie ragioni, le quali sono ricevute, e rapportate da
Sanadon. Primieramente perché gli Antichi Scoliasti non ne danno alcuna
spiega, né dicono cosa, che ci abbia rapporto, ciò che non avrebbero
mancato di fare se ne’loro manoscritti si fosse ritrovata questa parola.
In secondo luogo, che Orazio non ha dovuto servirsi di simile epiteto,
perché, siccome egli vuole, che gli Eroi si distinguano coi caratteri
conosciuti per Fama, questa non ha data mai di lui quell’idea, che
presenta l’epiteto honoratus; e quando fosse vero, il Poeta si sarebbe contraddetto.
Per terzo, che negli altri esempi rapportati non attacca ai nomi veruno
epiteto; così dice: Medea sit ferox;
Ino sit flebilis ecc. Egli
dunque o non dovea darne affatto al nome di Achille, o potea usarne uno
vago, ed indeterminato. Finalmente, che vi è molto apparenza, che i
Scoliasti avessero letto Homereum
ne’manoscritti, come si può giudicare dalla spiega, che hanno data di
questo verso. Si ad imitationem
Homeri describis, si Achillem, de quo semel Homerus scripsit, velis
scribere, talem debes scribere , qualem Homerus ostendit. Io per me
non saprei indovinare di quanto peso fossero le suddette riflessioni di
questo Savio. Solo dico, che i Scoliasti intanto non avranno interloquito
su questo punto, perché non hanno avuto la sorte di presentarsi loro un
sogno simile. Poi Orazio non ha inteso, o almeno si deve giustamente
supporre, che non abbia potuto intendere di chiamare Achille honoratum
per unirlo ad impiger , inexorabilis,
acer ecc. che sono i veri caratteri, che seguono Giunto Alessandro alla famosa tomba Del fiero Achille sospirando disse: O Fortunato, che sì chiara tromba Trovasti, e chi di te sì alto scrisse. Si vede che abbia egli avuto l’aggiunto di Fortunato; non perché tale fosse stato intrinsecamente, ma bensì per la già conosciuta estrinseca cagione, d’onde il medesimo riconosce l’immortalità del suo nome. 33- Non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem. Nel mentre da una parte loda Omero, il quale da un principio umile, semplice, e proprio va gradatamente sviluppando la materia del suo poema per dargli la più bella, e la più luminosa forma, vitupera dall’altra quei Poeti, che da lucidi, e sfolgoranti cominciamenti, da grandi, e molteplici promesse, e da un fare attivo, e borioso vanno dopo poco a cadere in dense caligini, in vane piccolezze, e vergognose abiezioni. 34- Semper ad eventum festinat. Con queste parole non vuole Orazio sicuramente intendere altra cosa, che l’arte del Poeta dev’essere tale, che faccia sempre sembianza di andar frettoloso verso il caso principale, che vorrebbe svelare, con attirare l’animo dell’uditore in mezzo del fatto medesimo non altrimenti, che le circostanze tutte, che vi concorrono fossero state a pieno anteriormente conosciute. Gli esempi su questo proposito si possono facilmente ricavare dalla lettura di Omero, e di Virgilio. Quegli cominciò l’Iliade dall’ira di Achille, che precedè di poco all’eccidio di Troia: e questi l’Eneide dal settimo anno de’viaggi di Enea. Tutto e quanto si è notato non dev’essere così alla rinfusa eseguito, ma con ogni esattezza, e giudizio, in maniera, che se tra questi aggiunti vi fossero cose, che non potessero là per là essere a sufficienza comprese, o che il luogo, e l’occasione non permettesse dar loro la debita chiarezza, o che finalmente in vece di accrescere, scemassero piuttosto la grazia, e lo splendore al soggetto, è della prudenza del Poeta, che si lascino da parte. 35- Mobilibusque decor ecc. Per li due versi suddetti non mi pare , che sin qui si fosse fatta una spiega conveniente; e quando non fosse così, Orazio avrebbe detto l’istessa cosa in due differenti maniere. Io dunque son di parere, che egli voglia inculcare al poeta di fare un esame particolare, ed esatte osservazioni, e riflessioni sopra i costumi di ogni età cioè a dire sugl’andamenti, azioni, ed inclinazioni di ciascuna età, per così poi avere il vantaggio di esprimere i soggetti col proprio decoro, vale a dire con quei caratteri, che sono convenienti, e che possono far distinguere questo da quell’altro temperamento. Quindi notandi sunt tibi mores è un avvertimento, che fa semplicemente al Poeta per la buona condotta; e decor qui non deve altro significare, che quod decet , cioè quel carattere, che conviene. La natura dell’uomo è mobile, e soggetta a cambiamenti, come cambiano gli anni, i quali si rapportano rinchiusi in quattro differenti epoche, per avere quanto è possibile un quadro generale de’diversi andamenti. 36- Et apertis otia portis. Otia la tranquillità, e la pace in conseguenza della quale si applicano le porte delle case, e della città, che per le guerre si eran tenute chiuse, a differenza delle porte del tempio di Giano, che si chiudevano dopo fatta la pace. 37- Liberque laborum. Sciolto dalla fatica, libero dal travaglio ecc. E si esprime così non altrimenti, che si dice ancora lassus viarum. 38-
Silvis deducti caveant me judice fauni. Qui Orazio dà il suo
sentimento sulla qualità del carattere, che conveniva ai Satiri, e
Silvani. Degli abitatori delle selve. E quel me
judice altro non significa, che a
quel che stimo, secondo il mio giudizio. 39-
Hic e tacci ecc. Vossio ha spiegato hic
per hic loci, ma mi pare che vada lontano dalle cento miglia. E’ da
dirsi piuttosto relativo spiegabile per hic
versus contextus ecc.d’onde dipende apparet,
e poi potrebbe reggere premit quattro
versi appresso. 40-
Non quivis videt immodulata ecc. Qui Orazio accorda, che
non tutti sono nello stato di conoscere la bella, o cattiva modulazione
de’versi; ma non per questo il Poeta deve scrivere alla rinfusa (vager),
e senza regola (licenter). 41-
Pallaeque. Si diceva Palla
quasi pallii genus una veste lunga fino ai piedi, che sulla stola usavano
le sole donne in preferenza degli uomini, che non potevano adoperarla
senza grande ignominia. Presso i Galli appena giungeva al ginocchio. Gli
attori delle Tragedie erano coverti di Palla, o del Syrma, per cui syrma si è adoperato a
significare ancora l’istessa Tragedia, ed in generale le cose tragiche. 42-
Pulpita. Si chiama pulpitum nel Teatro il luogo più elevato del proscenio, in cui
stavano, e rappresentavano gli Attori. Questo nome pulpitum si usurpa qualche volta per gli stessi giochi scenici. 43-
Pompilius sangue. Si è di sopra annunziato, che i
Pisoni traevano l’origine da Numa Pompilio, e da Calpo di lui figlio,
onde furon detti anche Calpurnj. 44-
Ore rotundo. Il suono si dice perfetto, ed Armonioso
quando esce libero, franco, e senza intoppo veruno. Ciò succede solamente
quando l’istrumento è cilindrico, o sia rotondo. Ecco perché Orazio
volendo lodare la lingua de’Greci come una lingua armoniosa, e perfetta,
dice, che per dono delle Muse parlavano colla bocca rotonda. E’
veramente poi da ammirare, che i Greci non finivano mai parola alcuna
colla bocca chiusa, o sia coll’M,
cosa che per lo contrario spesso si ravvisa nella lingua Latina. 45-
Romani pueri ecc. Ecco qui una Satira ai Romani, i quali
perché attaccati all’interesse facilmente posponevano a questo
l’amore di tutte le lodi possibili contro il costume de’Greci. Perciò
dice, che imparavano con lunghi calcoli a dividere l’asse in cento
parti. 46-
Si de quincunce ecc. L’asse si divide in dodici once: uncia si è detta dall’unità: due si dicono Sextans: la sesta parte dell’asse: tre quadrans la quarta parte: quattro triens la terza parte: cinque quicunx
: sei semis la metà: sette Septunx
: otto Bes, ed anticamente Des:
nove Dodrans: dieci Dextans:
undici Deunx. Ecco qui un Dialogo di un Maestro collo Scolaro, il quale
indugiando a rispondere, ed essendo sgridato con poteras dixisse, finalmente dice triens, che mostra più profondità, mentre si dà carico del tutto,
o sia dell’asse: perciò ne riporta dal maestro la lode rem poteris servare tuam. 47-
Linienda cedro. Per conservare i libri, ed altre cose
soggette al guasto si ungevano dagli antichi col sugo di cedro.
L’attesta anche Plinio nel lib. 16 cap. 39 Cedri
oleo peruncta licevasi
materies nec tineam, nec cariem sentit. Qui Orazio allude ad
un’opera stimabile, e per conseguenza degna d’esser conservata. 48-
Et levi serranda cipresso. All’istesso fine
adoperavano le casse di cipresso, il quale ha l’istessa virtù di
conservare le cose intatte dalla tignola. Plinio lib. 16 cap. 40, e 42
Cypressus cariem, et
vetustatem non sentit…adversus cariem, timeasque firmissima. 49-
Austera poemata. Siccome si dice austero il sapore di
quelle frutta, che sono acerbe, e che non ancora hanno acquistato il dolce
della maturazione, così erano chiamati austeri quei poemi, che nulla
contenevano di dolce, e di piacevole, e che perciò venivano vilipesi dai
Cavalieri 50-
Invita Minerva. Come le dicesse ributtando
Minerva, Divinità, che presiede alle arti, ed alle scienze, senza il
soccorso della quale niuno può riuscir felice in qualunque suo lavoro.
Questo proverbio è adattabile a coloro, i quali vogliono tentare quello,
a cui non sono adattati dalla
Natura, e che per conseguenza non possono mai ben eseguire.
51-
Cuncubitu prohibere vago, dare jura maritis.
Come se si dicesse prohibere
maritos, o anche maritis a
concubitu vago. Questa è la più savia Legge per togliere i
sconcerti, che insorgono tra le famiglie presso i popoli attaccati alla
gelosia, ed all’onore. 52-
Ligno. Le
prime leggi furono scritte in versi sopra tavole di Legno. I Romani le
incisero su quelle di Rame, e le affissero nei luoghi pubblici. 53-
Metam. Porta l’esempio di que’giovani, che si
avvezzano all’esercizio della Corsa. Il luogo destinato per principiarla
licevasi Carcer, e quello dove
finiva Meta. 54-
Occupet extremum scabies. Era questo un detto familiare
a’Ragazzi ne’loro giochi particolari, massimamente quando vi era in
campo qualche partita di corsa. Essi volendo l’un l’altro stimolarsi,
dicevano occupet extremum scabies. 55-
Relinqui. Segue l’istesso esempio della corsa, nella
quale si riputava a vergogna l’esser lasciato in dietro. In modo
figurato poi significa sorpassare. 56-
Iracunda Diana. Con queste parole sembra più che sicuro, che Orazio voglia
denotare l’epilessia. Questa malattia volgarmente è stata , ed è
tuttavia detta Morbus lunaris,
nome analogo, e uniforma a Diana, giacchè così anche chiamavasi 57-
Ardentem frigidus Aetnam. La parola frigidus
si è qui diversamente intesa, tanto che taluni l’hanno spiegata stolto,
ed altri di sangue freddo. A
Dacier non piace né l’una, né l’altra spiega: la prima come fredda,
ed insostenibile; e l’altra, che sembra più lodevole, che non valga
niente di meglio. Quindi egli crede, che Orazio con frigidus
avesse voluto esprimere la stravaganza di un pazzo, che per acquistare
reputazione, e passare per un Dio, cerca una morte, la quale egli non
lascia di temere, e che coll’avvicinarsi agghiaccia tutti i suoi
spiriti. Io poi non so a che tante giravolte; quando si può semplicemente
dire, che sia un contrapposto di ardentem:
giacchè nell’atto, che un sì gran monte ignifero è nella sua piena
conflagrazione, volersi trovare persona, che se gli voglia approssimare,
senza distinguere, o pure sprezzando gli evidenti pericoli, questi è da
dirsi, o che abbia un gran sangue freddo, o per parlare più sanamente,
che sia nel più alto grado di mattìa. Ond’è, che le due spieghe si
possono benissimo conciliare. |