Chi scrive lo ha sempre visto e pensato come
il prete buono, cui piaceva perdonare non
solo né tanto perché quella
era la sua missione, ma perché lì
lo portavano l'animo, l'educazione, il carattere.
Succeduto nel governo della Chiesa palesina
a don Coletto Maiorano, del quale si diceva
che talvolta si pulisse il grosso sedere
con... i soldi, vissuto in tempi in cui il
rancore e la rabbia littoria limitavano l'influenza
ecclesiastica nella borghesia delle grandi
città e tra il volgo di piccole borgate,
don Demetrio seppe ben adeguarsi alla violenza
del momento, senza urtare la scontrosa suscettibilità
dei gerarchi locali, con i quali mantenne
amichevoli e onesti rapporti. Erano tempi
in cui l'Azione Cattolica veniva sottoposta
a pressione di vario genere, con manovre
oscure, raramente scoperte; il nostro parroco,
che aveva costituito folti e vivaci circoli
giovanili, evitò scontri pericolosi,
esortando alla prudenza, alla calma, alla
comprensione.
Adempì al suo ufficio con scrupolo
e rettitudine, con gioia intima e soddisfatta,
sorridendo sempre. Non di rado amava distrarsi
in chiassose partite a carte, cui partecipava
un'allegra brigata di uomini importanti:
al centro c'era l'altro prete di Palese,
don Minguccio, più giovane di don
Demetrio, più imponente, più
rubicondo; assieme formavano un binomio caratteristico
e inscindibile.
Sedevano all'imbrunire, d'estate, davanti
all'ex Parco della Rimembranza: don Demetrio
pizzicava il tabacco della sua tabacchiera,
accompagnando il tutto con generose soffiate
di naso; don Minguccio sbuffava robusto dal
suo inseparabile toscano, che fumava felicemente
tutto beato e perduto in mezzo ad una nuvolaglia
azzurrognola.
Vitino De Stefano, giovane di acuta intelligenza,
chi scrive e qualche altro tenevano loro
compagnia: si discuteva, si programmava,
si sbirciava titoli di giornali; De Stefano
fischiettava e Ciccio Sivo sorrideva tra
l'ammiccare birichino di Nicola Minervino.
La sera, ogni tanto in settimana, la domenica
sempre, anche di mattina dopo le messe, da
don Demetrio c'era il " mauser ",
il gioco allora di moda in cui si mandava
" in bestia " l'avversario che
capitava. Noi eravamo giovincelli e non si
era agevolmente ammessi in quella i specie
di sacrario, ove troneggiava in uno stanzone,
un grosso tavolo con un gentile piattino
al centro, ma si capitava così ogni
tanto lì, alla girata di via Macchie,
nella casa parrocchiale, tra dolcetti e ciambelle
e taralli che erano sempre pronti per la
delizia dei piccoli e dei grandi.
Ci si accostava timidamente al gran tavolo
e ci si beava di assistere e dire, di frasi
scultoree e di piatti ricolmi di soldi e
soldini, mentre don Minguccio ripeteva e
gridava: "Asso e re, non aver pietà
". Don Demetrio sorrideva.
Francesco Maiorano
(Tratto dal periodico L'Erta n. 2/3 Aprile-Maggio
1980)
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