FILOSOFIA DELLA TECNICA E FILOSOFIA DEL COMPIMENTO*
(HEIDEGGER E L'ESSENZA DELLA TECNICA)


§ 1.- Il mio interesse per il pensiero di Heidegger, in generale, io ritengo di doverlo attribuire tanto al modo come l'essere e l'umano sono stati posti nel suo pensiero, quanto (forse soprattutto) al fatto: che Heidegger, come altri filosofi tedeschi, ma con la sua sensibilità - anche per quello che è stato in essa l'influsso del secondo conflitto mondiale -, ha preso sul serio il mondo della tecnica, dell'industria, ed il messaggio insito nelle scienze.
Egli lo ha preso sul serio, e proprio per il fatto di averlo pensato lo ha in qualche modo accettato - si può supporre -, per un fatto di cultura, e di attitudine, in ciò, a pensare.
E non significa molto, a questo riguardo - anzi ciò si presta a sviluppare proprio questo medesimo senso qui attribuito alla cosa -, il fatto che alcuni concetti, forse tutti i concetti, o i convincimenti del filosofo, siano caratterizzati da un'ambivalenza di fronte al mondo della tecnica, come è stato fatto notare: "ambivalenza", e "misteriosa dialettica", per la quale l'uomo in quanto contrapposto sia lo strumento per indagare sulla tecnica [1].
Coltivando in sé, forse, questa ambivalenza, Heidegger non ha mai opposto sic et simpliciter l'umano a ciò che è tecnica, la metafisica a ciò che è èra elettrica o èra atomica, ciò che è filosofia e ciò che è cibernetica: tutt'altro; e questo a causa, presumibilmente, di quel singolare senso storico per il quale egli non ha mai risparmiato a sé la paura [2], o la convinzione inquietante, che ciò che secondo l'immediato è allontanato dal sé, in qualche modo nasconde l'essenza, oppure il destino di un compimento.
Egli così ha scritto ad esempio: "All'uomo l'origine principale (die aufängliche Frühe) si mostra solo da ultimo" [3] e ancora, parlando della tecnica nel suo rapporto con la scienza moderna: "[…] quello che è posteriore per l'osservazione storiografica […] è in realtà, rispetto all'essenza che in essa vige, ciò che viene storicamente (geschichtlich) prima" [4], ovvero: "L'inizio [autentico] include già, nascosta, la fine" [5].

§ 2.- Negli scritti e discorsi del Filosofo spicca l'attitudine - ciò in cui si è voluta vedere una nuova esperienza del Religioso [6] - a cogliere il momento della coappartenenza, e meglio del raccogliersi in uno, dell'essere e della tecnica, della tecnica e della metafisica "compiuta" [7]; ovvero: quell'unità che è nel tempo, il quale, "prima di ogni calcolo […] e indipendentemente da esso, riposa nel recarsi e arrecarsi l'uno all'altro di avvenire, essere-stato e presente dispiegantesi nel diradarsi dell'Aperto" [8].
Heidegger ha cercato di cogliere la profonda unità là dove la cultura (ovvero il senso comune, l'umanismo, la stessa filosofia) spesso è andata, e va, a cogliere semplicemente i termini della esteriorità e di una opposizione irriducibile. Il che del resto può non sorprendere, se si commisura ciò alla sua volontà di sfondare i limiti, contrappositivi o finalistici, dettati dalla struttura della "coscienza".
Tutte queste impressioni possono ricollegarsi al fatto che, con riguardo ad Heidegger, si possa essere sempre ricondotti - nonostante il suo antiumanismo sia dichiarato e per certi versi indiscutibile - a porre il problema, e meglio sarebbe dire: il dilemma, del suo umanismo o antiumanismo; antiumanismo che significa considerazione non per l'uomo in sé ma per ciò che lo concerne, dal punto di vista dell'esser-ci (Da-sein) e dell'Ek-sintenz, o lo minaccia; umanismo che si è voluto riconoscere invece nel valore da lui attribuito ai poeti, e nella idea della vicinanza del dio all'uomo, ovvero nel magnetismo, cosiddetto, del "proprio dell'uomo" [9]. E se questo modo d'impostare la questione significa che non si è saltato ancora, nell'indole stessa degl'interpreti, il fosso di ogni possibile pregiudizio umanistico, che non si è ancora entrati nell'ordine d'idee di una coesistenza piena fra l'uomo e le risorse, che si traggono dalla natura; l'uomo e la macchina organizzata; l'uomo e l'essenza della produzione, e parimenti se il filosofo ha parlato, nel quadro dell'accettazione della tecnica nei fatti, della necessità per l'uomo di salvarsi, tutto ciò, nei confronti anche di una filosofia (heideggeriana) guardata magari non senza scetticismo, funziona sempre come un rilancio d'interesse [10].

§ 3.- Prendere sul serio il mondo della tecnica significa che questa chiede (anche) di essere spiegata mediante i concetti cosiddetti fondamentali (Grundbegriffe). Sia sotto il profilo del pensiero del fondamento, del ritorno cioè all'iniziale del pensiero (: che cosa sia ad esempio t¡xknh presso i Greci), per cui si debba costituire ora il legame col fondamento nel pensiero della tecnica; sia sotto quello del (meditare l'essenziale come) presentire; sia sotto quello delle rappresentazioni più generali, con cui attraverso la filosofia si familiarizza: l'essere, l'ente, l'essenza, l'uomo, ecc.
Sotto il profilo delle rappresentazioni più generali, l'essenza della tecnica è detta "l'essere" [11]; la tecnica moderna altro non è che uno stadio della storia dell'essere [12] (essa quanto meno è sempre inscrivibile in questa storia, a causa della sua natura); essa è "disvelamento", come lo fu la verità, quale "non-ascosità", presso gli antichi Greci. E ancora: nella tecnica, che ai più appare remota rispetto all'essere, si può supporre proprio per questo come più "inavvertito" quel dimorare dell'uomo nella differenza tra l'essere e l'ente del quale Heidegger parla in modo importante.
Prendere sul serio il mondo della tecnica significa, allo stesso modo - e lo dimostra anche la definizione del secondo conflitto mondiale come "confronto dell'umanità europea con la tecnologia globale" [13] - che quel mondo lo si considera, spontaneamente, come facente capo al sentimento di un destino dell'umanità tutta, secondo l'eredità venuta già anche da Nietzsche, dai suoi pensieri su un nuovo "ecumenismo" e sul rischio di una infinita "catastrofe" insito nella possibilità di un infinito progresso; oppure comunque di un misterioso profondo indirizzarsi della storia.

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§ 4.- La premessa generale, per comprendere in che senso Heidegger abbia preso sul serio il mondo della tecnica, può essere individuata nella critica della metafisica umanistica, ovvero nella opposizione, esperita dal filosofo, alla millenaria prospettiva dell'uomo come fine [14] - a ciò per cui il moderno soggetto è in quanto (cartesianamente, kantianamente, …) si auto-fondi [15].
La premessa, meglio, è nella critica del pensiero oggettivante, per il quale è il (moderno) soggetto a determinare (ad avere determinato), per cui è in questo modo che l'oggetto si costituisce nel pensare. Il quale pensiero lo è, oggettivante, in quanto localizzi la verità nel fatto che pensando o dicendo qualcosa quel qualcosa si costituisca come l'oggetto, al quale la conoscenza debba solo attenersi [16]; oppure in quanto semplicemente trasponga, sul piano filosofico, il modello dell'approccio conoscitivo caratteristico delle scienze naturali. Dunque, in generale, la premessa è nella critica dell'approccio all'obietto come ciò che è riducibile a un "di fronte" [17].
In questo, già nella prospettiva iniziale dell'"esser-ci", l'attenzione del filosofo è rivolta a ciò che riguarda concretamente l'esistenza umana, ciò che in generale, dal punto di vista dell'Ek-sistenz, concerne l'uomo nel senso che in qualche modo sempre e comunque lo riguarda e lo minaccia, lo mette nel pericolo - relativamente all'accadimento ed in quanto alla sua fisicità [18].
La premessa, così, è nell'accettazione di un principio d'inquietudine tale, per cui ciò che ci riguarda, che viene a noi nella presenza, per una sorta di destino della comprensione, proprio dal momento che ci riguarda non è da noi che procede.
Tutto questo avviene nei termini in cui si rovescia (o meglio forse viene posto su un terreno di "co-appartenenza") nella rappresentazione il rapporto fra l'essere e l'uomo, e ci si pone nel luogo dove l'essere (in qualsiasi cosa, o fatto) si manifesta e si dona; nello spazio che corrisponde, dal punto di vista del pensiero, con l'Apertura, per la quale ogni esperienza è l'esperienza, ed in ciò la conoscenza, che sola ci è data.
La premessa, in relazione a tali critiche, lo è della nascita, in grembo al, o in armonia col, principio della Cura (nella quale è ravvisabile la costituzione fondamentale dell'essere dell'esserci [19]) ed all'immagine dell'"esser-per-la-morte", di una filosofia che può esser detta della finitudine, nella quale si può riconoscere, grosso modo, il principio per cui ciò che è è tale a causa di un poter essere concretamente, al quale è affidato ogni divenire.

§ 5.- Nel pensiero che possiamo dire della "finitudine" vengono in rilievo due aspetti significativi.
In primo luogo si ha (a) il recupero di una dimensione insita nella visività della cultura greca del t¡loû; concetto di t¡loû - mettiamo - in Aristotele, nel senso che il moto, la motilità della natura, lo si coglie con lo sguardo perché lo si ha, raccolto, nella fine, nell'essere finito, dell'oggetto finito, in quella che in questo è la sua quiete (apparente): nel compimento ("¡n t¡lei ¡xei"; entel¡xeia) [20].
Ovvero si ha il porsi della cultura dell'opera finita, per ciò che in essa alla fine viene a raccogliersi, nei termini di una concreta verità, e nel senso - appunto - della concreta finitudine, prima ancora che della (astratta, esteriore) finalità o dello scopo; in cui nell'essere finito si ha la disvelatività della essenza. Ciò per cui si ha, nel t¡loû (che non è "fine", non è "scopo"), in un modo non-antropologico, non-antropocentrico, ma attinente ad un essere, il manifestarsi di qualcosa come t¡xnh [21].
In secondo luogo, secondo il suggerimento di Gadamer, si ha, in quel pensiero della finitudine, (b) la sensibilità e tensione in positivo per l'esser mezzo del mezzo - (il mezzo) che si pone a metà fra la cosa e l'opera - quale viene a maturazione ne L'origine dell'opera d'arte [22].
"Il mezzo - scrive Heidegger a proposito di un paio di scarpe da contadino ritratte in un quadro di Van Gogh - […], una volta approntato, riposa in se stesso come la mera cosa; ma non possiede, come il blocco di granito, il carattere dell'esser sorto da sé. Infatti il mezzo ha in comune con l'opera d'arte il fatto d'esser frutto di un'attività umana. […] il mezzo è per metà cosa, perché determinato dalla cosità, con qualcosa in più; nel contempo è per metà opera d'arte, con qualcosa in meno, mancando dell'autosufficienza dell'opera d'arte" [23].
Da una parte in quelle scarpe della contadina l'esser mezzo del mezzo viene posto in opera poiché (meglio: così come) nel quadro di Van Gogh viene posta in opera la verità. Dall'altra la natura del mezzo ha in sé, raccolta, la t¡xnh, nel suo essere la natura di ciò che non èfései, ovvero di ciò che non è così in natura. Avendosi in ciò, come si vedrà in séguito, una importante chiave interpretativa della tecnica moderna per ciò: che essa è "disvelamento".
Tutto questo significa che l'attenzione filosofica si è spostata sul "mezzo", sullo strumento, sull'"utilizzabile" di Sein und Zeit; che si ha, con riferimento a ciò che è cosa ed a ciò che è opera (dell'arte, di un'arte), un nuovo concetto di essenza come "essere del mezzo" [24]: "solo nell'opera e attraverso di essa […] viene alla luce l'esser mezzo del mezzo", essendo (venendo) in opera, nell'opera, "l'evento (Geschehen) della verità" [25], ed anche in ciò però, unitamente, potendosi considerare la mano dell'uomo.
Nel "mezzo", che non è il mero mezzo, che non è fései (non è ciò che ha in sé di naturale; non è a causa di ciò), si pone sia un principio di produzione, sia un recupero della umanità dell'uomo, essendo, ciò che è mezzo, oltre che prodotto, caratterizzato dalla Cura, da "usabilità" e "fidatezza" (Verlässigkeit) [26]; infatti in esso vi è qualcosa per cui, dileguando la fidatezza (ovvero l'umano condividere la capacità del mezzo di riposare in sé), "lo stesso esser mezzo si corrompe e decade a mero mezzo" [27].

§ 6.- Forse questo è interlocutorio, ma forse - per ciò che può significare per un filosofo prendere sul serio il mondo della tecnica - non vanno trascurate le pagine dedicate da Heidegger all'orologio. Che è immagine significativa: del mezzo e dell'opera tecnica, colta in certa sua vicinanza all'uomo e nella quotidianità (l'orologio è ciò che il mezzo è per l'uomo: la profonda riducibilità è quasi la manifestazione di un'essenza); colta direttamente non nella sua tecnicità ma nei suoi risvolti filosofici, non propriamente oggettivi, riguardanti il tempo e l'esserci: "La quotidianità vive con l'orologio, ossia il prendersi cura ritorna incessantemente all'"ora"; dice "ora", d'"ora" in poi, fino al prossimo "ora"" [28].
Heidegger parla dell'orologio non come si parla di un qualcosa che è "di fronte", di un mero oggetto o strumento o meccanismo; ma volendo significare lo storicizzarsi riguardante l'esserci [29], collegando l'orologio alla fondazione della temporalità nella esistenza dell'uomo. Egli così si riferisce all'ora del modo ordinario di sentire e di parlare, l'ora dell'orologio [30]; i "punti-ora" che scorrono [31]; nel senso che "Quando dobbiamo caratterizzare il tempo a partire dal presente, noi intendiamo il presente come l'ora in relazione al non-più-ora del passato e al non-ancora-ora del futuro" [32].
In Sein und Zeit egli parla dell'orologio "naturale" (il sole), degli orologi di campagna, della meridiana [33]; egli sottintende evidentemente in ciò i nostri comuni orologi. In Tempo ed essere l'argomento viene ripreso, forse con un interesse maggiore per quello che è qui il nostro discorso sulla tecnica, perché vi si fa questione, direttamente, dell'essere [34].
In tale contesto la considerazione dello strumento per la misurazione del tempo volge alla critica della concezione volgare o comune del tempo, per cui in nessun elemento del mezzo per misurarlo noi troviamo il tempo: "Noi diciamo "ora" e abbiamo in mente il tempo ma da nessuna parte sull'orologio che ci dà il tempo noi troviamo il tempo, né sul quadrante, né nel meccanismo dell'orologio. Altrettanto poco troviamo il tempo sui moderni cronometri tecnici. Una considerazione si impone: più tecnici, cioè più esatti e utili nell'effettuare la misurazione sono i cronometri, e meno si ha occasione di meditare su ciò che è proprio del tempo./ Ma dov'è il tempo? "È" esso, in generale, ed ha un luogo?" [35].
La considerazione di ciò che può dirsi strumento quindi è importante, perché essa dimostra che la questione del tempo non si risolve nella sua calcolabilità; ma l'argomento ha rilevanza proprio per ciò: che sembra sia colta una quasi-assimilazione tra il costituirsi della temporalità dell'esserci e lo strumento tecnico ad hoc.
Ovvero: lo strumento per la misurazione del tempo non dice che cosa è o dov'è il tempo ma, nonostante tutto, dice del tempo - dice in un modo tutt'altro che trascurabile della Cura ed in questo di ciò che l'uomo è in quanto ente. Tutto questo va riconosciuto, appunto, ad uno strumento fornito dalla tecnica, sia pure esso diverso da altri strumenti.

§ 7.- Il fatto, che Heidegger abbia preso sul serio il mondo della tecnica, può essere colto subito, in quanto all'oggetto in generale ed al sentimento, nella considerazione della tecnica quale presenza inquietante.
Inquieta pensare la tecnica perché il pensiero della tecnica è apertura al mistero (das Geheimnis) [36].
In questo senso inquieta pensare la tecnica, nella sua essenza, come disvelamento - e cioè sapere che con essa viene ad essere la verità (per cui l'uomo nel suo rapporto con la tecnica è chiamato incessantemente a rispondere ad una domanda di prestazione, come accade di fare ad un servo; e per cui a ciò che si determina nel mondo della tecnica, passando attraverso questo prestarsi, non si sfugge) - anziché (semplicemente) come il complesso degli strumenti che si debbono approntare, utilizzare, oppure come "procedimento da seguire per raggiungere uno scopo", o come mera fruizione.

L'"inquietante", in generale, è quanto si racchiude in quel sottrarsi del "si dà sottraendosi", caratteristico dell'essere, al quale si assiste nel mondo della tecnica, in un modo tale per cui: "il senso del mondo della tecnica si cela" [37]. Ed è, a causa del medesimo, l'"enormità inquietante", che domina nel senso del rapporto che s'istituisce - mettiamo - fra la centrale elettrica impiantata nel Reno (la più nota, forse, tra le immagini tecnologiche di Heidegger) e quello che - fermo nella sua immagine - il fiume Reno era nella poesia di Hölderlin. Laddove l'inquietante, l'uso - meglio - di questa parola, allude ad una forte misteriosa capacità trasformativa, risolutiva, ed è il non saperla.
O anche: l'inquietudine deriva al pensiero della tecnica dal fatto che esso mediti sul come proprio della natura, ovvero su come la natura, provocata, si dia all'uomo della scienza moderna, quasi "destinandosi a"; ma illudendo prima di tutto sulla possibilità di essere governata; dandosi cioè senza concedersi, a causa di una sua proprietà fondamentale: "La rappresentazione scientifica - si legge in Scienza e meditazione - non può mai racchiudere l'essenza della natura, perché l'oggettità della natura è fin da principio solo uno dei modi in cui la natura si prospetta. La natura rimane così, per la scienza fisica, l'inaggirabile (das Unumgängliche)" [38]. Ed ancora, altrove: "La tecnica, la cui essenza è l'essere, non si lascia mai sopraffare dagli uomini. Altrimenti l'uomo sarebbe il signore dell'essere" [39].
Inquieta, nella curiosità, la tecnica, per le domande che essa alla fine pone, ma non propriamente come domande, lasciando intravedere non un sapere ma un (arresto di fronte al) credere di sapere, non un decidere ma un accettare; ovvero per lo stile che si legge in certi suoi paradossi: oggi, ad esempio, con la televisione ed il film (ciò che è parte significativa della rivoluzione nel mondo della comunicazione) l'assenza di distanza "domina", ma ciò nonostante "ogni cosa presente è ugualmente vicina e ugualmente lontana" [40]; e anche: "[...] proprio se la bomba H non esplode e l'uomo non si estingue dalla terra, si appresta un'inquietante trasformazione del mondo" [41]. Laddove esplosione ed estinzione, come fatti, si pongono nella loro singolare non-necessità, ma prima di tutto, per questo, proprio in una certa quale loro necessità.
In tutto ciò l'inquietudine deriva al pensiero, ad esempio dal poter pensare, o sospettare, che ciò che si profila nell'oggi, che si profila come l'odierna potenza e come minaccia, in fondo è come fosse presente da tempo [42]; che quella "trasformazione" tecnica non è sic et simpliciter tecnica, non è in ciò: che essa appare; ma è trasformazione tale che di essa (per dire, in senso generale, dell'essere) sfugga la vera conoscenza.
L'"inquietante", essendo la possibilità d'individuare ciò che è tale, riguarda quindi essenzialmente il pensiero; rilancia l'importanza del compito del pensiero, costituendone la nuova tensione che ad esso dà il senso, costituendosi in "da-pensare" (das Zu-denkende); ed indica l'apertura, in una direzione problematica e contemplativa, alla questione della tecnica, prima ancora che la sua risoluzione.
Non solo perché a quel punto vi sarebbe come un fermarsi al sentimento; ma anche perché va rispettata la libertà del pensiero di non ritenersi soddisfatto dalle definizioni antropologiche della tecnica (dalle definizioni umanistiche, antropocentriche, in generale, che non sono vere definizioni) e di dare risalto al fatto che la natura di cui la fisica viene sempre a parlare, provocata, provochi, sia esigente; che in essa (nel rapporto cosiddetto di "pro-vocazione") qualcosa trascenda sempre l'uomo; che in quel provocare vi sia un destino e, infine, che la tecnica sia entrata, entri, nella destinazione dell'essere e nel destino, prima ancora di aggiungersi alla sua storia o di essere volta ai suoi bisogni o desideri (il che significa appunto essere messa semplicemente al servizio dell'uomo).
Ma a questo punto viene alla mente dell'altro: forse l'inquietante della tecnica è proprio ciò che si ottiene criticando certe rappresentazioni o definizioni (essenzialmente quella strumentale), per cui si ha come il sentore che una interpretazione alla fine valga l'altra. Ovvero l'inquietante è in ciò stesso: che sia scoperto il limite e l'inadeguatezza di ciò che interpretativamente è rassicurante.
Inquietante, così, è anche l'idea di un "fondo", o di un'accumulazione, che non sono tali veramente (che non hanno un senso lineare), e parimenti di una intima fragilità, che non è tale se non minacciosamente, della natura - almeno: di ciò che significa pensarla - la quale è manipolabile tanto quanto sfuggente. Che anzi ha l'essenza del suo essere sfuggente nel fatto che sempre maggiore manipolabilità significa sempre meno qualcosa di ragionevole e controllabile. Inquietante è così ogni trasformazione sulla quale in qualsiasi modo il pensiero possa sorvolare.
Così l'"inquietante", alla fine, si presenta come l'interrogarsi prima ancora che il rispondere: così le sette domande di Munier sulla tecnica poste ad Heidegger in occasione di un suo seminario incontrano le esitazioni nella risposta [43].

§ 8.- È, ma soprattutto non è, secondo la prospettiva tracciata dal filosofo tedesco nella sua critica del pensiero "oggettivante", che il pensare abbia di fronte a sé il mondo della tecnica in un modo oggettivo. Essendo oggetto, nello stesso tempo, ciò che è fuori da, che è di fronte a, noi, e ciò che ha esistenza, alla fine, per essere semplicemente pensato, o rappresentato. Non si può asserire propriamente, secondo quella prospettiva, che il pensiero ha di fronte a sé quel mondo come io, che sto ora pensando, ho di fronte a me l'oggetto del pensare quale oggetto.
La considerazione "oggettiva" della tecnica è riconducibile, secondo la critica heideggeriana, agli schemi della metafisica occidentale moderna. La quale ha fatto del soggetto il fundamentum inconcussum e proseguendo su questa strada - interpretando cioè le cose alla luce di una certa relazione soggetto-oggetto nella quale il soggetto è precostituito - ha (semplicemente) tradotto, con Hegel, il discorso sulla tecnica in un discorso sulla produzione: nella Fenomenologia dello spirito si ha così l'immagine del "processo auto-organizzantesi della produzione incondizionata" [44].
A questo profilo si oppone il fatto: che l'essere in Heidegger è tale, nel suo rapporto con l'essenza della tecnica moderna, per cui questa può venir colta in un suo migrare, meglio: in un suo essere migrato, nel territorio dell'essere. Ciò che spiega la critica heideggeriana del pensiero oggettivante è questo movimento che va dall'essere (il quale ha un suo territorio, che è il suo stesso venire a noi) verso l'uomo della conoscenza, e non viceversa.
Non è cioè, per esemplificare, che io ammiri come fosse mia la luce di un tramonto; ma prima di tutto quella luce mi raggiunge, viene a sorprendermi, distogliendomi da me.

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§ 9.- Essenzialmente Heidegger ha criticato, approfondendo la nozione di "causa" e "causalità" (riconducendo la causa alla "pro-duzione") [45], la comune rappresentazione strumentale ed antropologica della tecnica [46]; secondo la quale, quando si parla di "tecnica", s'intendono: (1) i mezzi (che si studiano e si approntano, continuamente) per ottenere un certo fine pratico, e (2) un'attività dell'uomo; ovvero (anche) un'attività volta ai desideri del soggetto.
Si tratta, meglio, di una concezione composta da due profili. Vi è quello antropologico, per il quale la tecnica è un settore della cultura, tale che alla fine essa debba contribuire - per ciò che la cultura è chiamata a fare - allo sviluppo ed alla salvaguardia "della natura umana dell'uomo" [47]; e per cui, anche, essa è fondata "sulla scienza moderna della natura"; essendo la scienza come "un compito e una prestazione dell'uomo" [48]. O per cui essa è l'evoluzione, "progredita in modo costante e graduale", dell'antica tecnica artigianale [49].
Vi è, poi, il profilo strumentale, secondo cui la tecnica "vale come qualcosa di cui l'uomo si serve, utilizzandolo in vista di un'utilità" [50].
Di questi due profili la critica heideggeriana consente di cogliere la profonda unità: essi così si mostrano tali per cui, pur essendo distinguibili concettualmente, sono concomitanti, ovvero l'uno spiega e giustifica l'altro; l'uno e l'altro sono, al di là delle formulazioni, la stessa cosa.

§ 10.- L'analisi heideggeriana della concezione antropologica conduce, con riferimento all'età moderna, ad un rovesciamento nel rapporto gerarchico e di valore fra la tecnica e la scienza. Essa mette a nudo cioè non solo il carattere metafisico dell'umanismo della "rappresentazione", ma anche l'umanismo, siffatto, insito nel moderno disegno scientifico in quanto tale, cioè nella fondazione moderna delle scienze.
Nella conferenza su Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico emerge chiaramente quanto era già dato ritenere limitandosi a leggere il brano - già in parte trascritto - della Questione della tecnica che dice: "Per la cronologia degli storiografi, l'inizio della scienza moderna va collocato nel secolo XVII. Per contro lo sviluppo della tecnica meccanizzata si ha solo nella seconda metà del secolo XVIII. Ma quello che è posteriore per l'osservazione storiografica, cioè la tecnica moderna, è in realtà, rispetto all'essenza che in essa vige, ciò che viene storicamente (geschichtlich) prima" [51].
In quella conferenza del 1962 sul linguaggio tecnico, si legge dunque: "Una correlazione tra scienza della natura e tecnica può sussistere solo se entrambe sono messe alla pari, e cioè a patto che la scienza non sia solo la base della tecnica, e la tecnica non sia solo l'applicazione della scienza" [52].
Il pensiero essenziale qui è quello che individua, in modo critico e concreto, il principio, l'atteggiamento mentale, che governa - che vi sovrintende - il costituirsi e perpetuarsi della moderna scienza della natura.
Questo principio è riconducibile, ed anche in essa riassumibile, alla proposizione di Plank secondo cui "è reale ciò che si lascia misurare" [53], ovvero (nella chiosa immediata di Heidegger): "Solo ciò che è preventivamente calcolabile vale come essente" [54].
Il principio si attua, secondo il filosofo, attuandosi il primato del metodo, ad esempio: "[…] nella fisica teorica, l'incontradditorietà delle proposizioni e la simmetria delle equazioni fondamentali risultano normative sin dall'inizio. Mediante il progetto matematico della natura, quale si compie nella fisica teorica, e mediante l'interrogazione sperimentale della natura, che a tale progetto si conforma, la natura viene provocata a rispondere sotto determinati riguardi: ad essa, per così dire, vien chiesto conto. In conseguenza di ciò la natura viene portata a mostrarsi in una oggettività calcolabile (Kant)" [55].
Questo principio però, per l'obiezione, si attua non solo nel primato del metodo ma anche attraverso gli strumenti che lo supportano e lo rendono possibile; meglio: che decidono, che in qualche modo vengono a determinarne via via l'oggetto: "Soprattutto la fisica nucleare si vede messa in una situazione che la spinge a delle conclusioni sconcertanti, e cioè che l'apparecchiatura tecnica adoperata dall'osservatore nell'esperimento, codetermina ciò che di volta in volta è accessibile dell'atomo - vale a dire i suoi fenomeni - e ciò che non lo è" [56] .
Il concetto, interpretabile con riferimento a quello che Max Plank poteva dire, è che"la tecnica è codeterminante del conoscere" [57]. Nel senso che la oggettività calcolabile che si costituisce con la moderna scienza della natura "potrebbe essere [semplicemente] una forma particolare della tecnica moderna" (il pensiero calcolante non si spiega solo con l'uomo, che calcola, ma con qualcosa di tecnico), per cui "il modo corrente di rappresentarsi il rapporto tra scienza della natura e tecnica dovrebbe essere capovolto: non è la scienza della natura il fondamento della tecnica, bensì è la tecnica moderna il tratto fondamentale e portante della scienza moderna della natura" [58].
Emerge così il postulato: della tecnicità della scienza moderna. Altrove, a proposito di ciò che viene in chiaro storicamente con l'avvento della cibernetica, si legge del "carattere tecnico delle scienze, che sempre più univocamente vi s'imprime" [59]. E meglio: attorno alla tecnicità della scienza ruota uno degli aspetti salienti della teoria heideggeriana della tecnica moderna.

§ 11.- Da quanto detto da Heidegger a proposito del rapporto tra la fisica nucleare e la strumentazione tecnica, per cui questa "codetermina ciò che di volta in volta è accessibile dell'atomo […] e ciò che non lo è", ovvero "la tecnica è codeterminante del conoscere" (Plank), si desume qualcosa di analogo a quanto emerge al fondo dalle riflessioni svolte dal filosofo sul tempo e l'orologio. L'analogia è data dallo schiarimento sul rapporto, sul bisogno di rovesciare il rapporto, fra il concetto, o la comune rappresentazione, e la tecnica, per quella che ne è l'essenza.
La domanda in fondo è più o meno la seguente: che cosa ne sarebbe, che cosa ne sarebbe stato del concetto senza la tecnica, nella sua capacità quanto meno di codeterminare? Su questo piano non dovrebbe sorprendere più di tanto il fatto: che si possano accostare fortemente essere e tecnica. Che il disvelamento dell'essere, ed il dispiego, abbiano a che fare con l'essenza della tecnica.
Ciò che è tecnico (: un macchinario, un dispositivo), nella esteriorità del suo essere visibile, o tangibile, e nel suo funzionamento, non risolve certo il concetto di tecnica per come esso chiede di essere pensato dalla filosofia; ma ciò dicasi nel momento stesso in cui quella esteriorità e quel funzionamento liberano spazio al convincimento del nulla di un concetto, di una idea o di una rappresentazione, quale è quella di tempo. La tecnica, liberando il nulla, e fornendo risultati, viene a dire qualcosa che non è né il macchinario, né il meccanismo di un macchinario. Ed essa in questo può essere accostata alla natura dell'essere.
Non si esce così dalla strada del calcolo, o dal principio algebrico dell'attribuzione di valore, se non per comprendere che di calcolo si tratta e di attribuzione di un valore, non di verità.

§ 12.- La concezione "strumentale", secondo Heidegger, è esatta, ma solamente "esatta"; ovvero essa si "conforma chiaramente a ciò che si ha davanti agli occhi quando si parla di tecnica" [60], limitandosi però a questo. Essa inoltre - mostrandosi in ciò la sua debolezza - in questa sua esattezza sembra esser valida per, sembra potersi adattare a, ogni strumento ed ogni epoca; può asserire con suo pieno diritto che "tra una scure di pietra e il prodotto più recente della tecnica moderna, il "Telstar", al fondo non sussiste alcuna differenza fondamentale" [61]; ovvero: "Anche una centrale elettrica, con le sue turbine e i suoi generatori, è un mezzo apprestato dall'uomo per uno scopo posto dall'uomo. Anche l'aereo a reazione, anche il generatore di alte frequenze sono mezzi in vista di fini"; ma "Naturalmente una stazione radar è meno semplice di un anemoscopio a banderuola. […] Naturalmente una segheria in una valle sperduta nella Selva Nera è un mezzo primitivo in confronto alla centrale idroelettrica sul Reno" [62]. Ciò significa: l'esatto non richiede che si sveli nella sua essenza ciò che sta di fronte, per cui "quello che è puramente esatto non è ancora senz'altro il vero" [63].
All'esattezza, insomma, sfugge l'essenza. Dietro l'esattezza vi è la non-considerazione della essenza come ciò che la tecnica è a causa della sua evoluzione. Il che significa in certo senso che la sua evoluzione - lo svolgersi ad esempio della tecnica in questo o quel sistema di oggetti, il suo materializzarsi in questo o quello strumento - dice della tecnica più di quanto la tecnica non dica della sua stessa evoluzione; pensiero ricollegabile per sua natura ad altro pensiero, ad esempio a quel detto di Bacone per cui "la Verità è figlia del Tempo e non dell'Autorità" [64], interpretato in un certo modo ovvero nel rinviare sottinteso agli strumenti, che possano dirsi figli del tempo.

§ 13.- La critica della concezione strumentale ed antropologica reca in sé anche il principio per cui non sono i mezzi a dare luogo alla tecnica ma viceversa - ciò che si presenta come un rovesciamento del concetto - essi sono decisi dalla tecnica; per cui questa segnatamente nell'età moderna è un modo "d'interpretare il mondo e la sua posizione all'interno dell'ente". Laddove non si ripete, ma si giunge oltre, l'antica cultura greca.
"La posizione predominante dell'età moderna - scrive Heidegger - è quella "tecnica"" nel senso che "L'età moderna non è l'età della tecnica perché in essa vi sono macchine a vapore e motori a scoppio, ma al contrario macchinari di questo tipo vi sono proprio poiché quest'epoca è l'epoca della "tecnica". Ciò che noi chiamiamo tecnica dei tempi moderni non è solo uno strumento e un mezzo in rapporto al quale l'uomo di oggi può diventare signore o servo; prima di tutto e al di là di questi possibili atteggiamenti, la tecnica è un modo già deciso di interpretare il mondo che determina non solo i mezzi di comunicazione, i mezzi di approvvigionamento dei prodotti alimentari e l'industria del tempo libero, ma ogni atteggiamento dell'uomo in relazione alle sue proprie possibilità, vale a dire determina in anticipo con la sua impronta l'attitudine dell'uomo a equipaggiarsi tecnicamente" [65].

§ 14.- La critica della rappresentazione strumentale è importante: essa non è sic et simpliciter la critica di una fra le tante concezioni della tecnica che si sono succedute nella storia della nostra cultura d'occidente. Non è ad esempio la critica del fatto che la filosofia della tecnica nella Germania degli anni venti orbitasse attorno al modello umanistico, all'immagine dell'uomo che lotta come un eroe per soggiogare la natura.
Essa invece è la critica della concezione della tecnica nel suo essere congeniale alla umanità stessa dell'uomo; è piuttosto ciò per cui si ha la differenza tra la filosofia di Heidegger e quella che prima di lui era, che dopo di lui è stata ancora, la comune filosofia, quell'atteggiamento mentale che vale in un modo rassicurante semplicemente a giustificare la presenza delle cose della tecnica e degl'impianti industriali sulla terra.
Con altre parole: anzitutto la rappresentazione strumentale inerisce al senso comune, radicato nella umanità quotidiana dell'uomo, mostrandosi così in essa e nella sua critica un indice elevato di concretezza.
In secondo luogo la critica è rivolta a quel certo quale ritrarsi, protrattosi per secoli, quasi certamente originario (l'aver ritenuto ad esempio già Archimede che la tecnica non è una nobile occupazione, l'aver distinto il medioevo fra artes liberales ed artes mechanicae), che sempre si ripresenta (ad esempio in Simmel, che nei progressi dell'illuminazione - dalle lampade ad olio all'acetilene - vede, semplificando, l'importante in ciò: che essi ci permettono di vedere meglio [66]) ed ancora perpetuantesi (nell'asserto, dei nostri tempi, per cui la tecnologia della comunicazione è un complesso di strumenti per comunicare e nulla più) [67].
In terzo luogo la rappresentazione strumentale, a volerla ritenere inadeguata, mostra tale sua inadeguatezza - come si è visto nel paragrafo che precede - solo a partire dalla nostra epoca [68], nella quale l'essere la tecnologia finalizzata ai desideri del soggetto significa in realtà che il soggetto, al pari dell'oggetto materiale, è uno dei termini del vivente vocabolario tecnologico.
Infine la critica della quale qui si parla non è la mera contrapposizione ad una visione delle cose, ma piuttosto vuole incoraggiare il suo superamento. Essa non scancella la concezione strumentale, ma le assegna quasi il piano della credulità, mettendone in mostra il limite sul terreno della concretezza.
Il problema forse è anche nel fatto che criticando la rappresentazione strumentale non si approda sic et simpliciter al lido della verità. Ma si scopre solo l'insufficienza, l'inadeguatezza di quella rappresentazione: ciò che si ottiene con quella critica è, come detto, l'inquietante disvelarsi che muove al pensare, prima ancora che il vero.

§ 15. - La significatività è in ciò; e nel fatto: che Heidegger ha criticato quella rappresentazione riprendendo in qualche modo, non ripetendo, la strada della metafisica dell'essenza; guardando oltre la produzione come fabbricazione e parlando piuttosto, al riguardo, del "dispiegarsi dell'essere". Legando in questo la "pro-duzione", nel suo essere inscritta nella essenza della tecnica, all'"avvenire" della verità, e ancora: la tecnica al "venire-a-noi-dell'avvenire" [69].
Egli ha collocato così - nella Questione della tecnica, ma già tale profilo risulta essere nitido nella Lettera sull'"umanismo" [70] - l'essenza della tecnica nell'accadere della verità in quanto disvelamento; riallacciandosi in questo alle parole di Eraclito: "fésiû kréptestai fileÝ", interpretate in un certo modo (: "il disvelarsi ama il nascondersi", "Il sorgere [dal nascondersi] concede il suo favore al nascondersi"), che non è quello letterale, o comune [71]. La "verità" dei moderni non è l'Žl®yeia greca: questo vuole la ragionevolezza; ma allo stesso tempo si può dire che lo è se l'Žl®yeia è tutto ciò che è dato.
La "verità", della quale si fa parola, è tale perché si attua allorquando ciò che era nascosto si dischiude, un po' quello che accade, secondo un'immagine naturalistica, nello schiudersi del "fiore nella fioritura" [72]. Essa è, detto altrimenti, la verità che si raccoglie nel t¡loû dell'opera, concretamente compiuta.
Si legge così che "La tecnica […] non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento" [73], ovvero: "l'elemento decisivo della t¡xnh non sta […] nel fare e nel maneggiare, nella messa in opera di mezzi, ma nel disvelamento […]"; per cui "La tecnica è un modo del disvelare. La tecnica dispiega il suo essere (west) nell'ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza (Unverborgenheit)" [74], e quindi: "dispiega il suo essere laddove accade l'Žl®yeia, la verità" [75]. Si dice tutto questo, ovvero tutto questo vi è ricollegabile, così come si dice (altrove) che lo es gibt, il "darsi essere", è il disvelamento [76]: per una dimensione che sfugge alla onticità dell'ente (alla esattezza che vi è in tutto ciò che è).
Ciò che rileva, in questa teoria del disvelamento, è che ciò che si attribuiva alla verità (dell'essere) in un senso puramente ontologico, ora lo si attribuisce alla verità della tecnica. Non tanto nel senso che la tecnica è verità, o che la verità va ricercata oramai nella tecnica - il che anche può esser sostenuto, volendolo -, ma che la verità che si esprime nella tecnica fa parte della verità; essa non può essere ritenuta una verità a parte, solo pensata, cioè puramente accademica. Ovvero: la questione della tecnica è tale che essa mostra come il pensiero della verità, se vi si dedica, venga a scoprire la sua stessa concretezza.
Ma viene a significare, anche non contraddittoriamente, ciò: che la teoria della essenza della tecnica conferma la teoria della essenza della verità in generale.

§ 16.- Alle proposizioni sopra trascritte, sul disvelamento, Heidegger approda in un contesto di pensiero nel quale egli interpreta il "nichilismo" e la "spaesatezza" (Heimatlosigkeit) mondiale (per cui l'essere avrebbe abbandonato l'ente) in base allo stesso criterio con cui interpreta la teoria marxiana dell'alienazione dell'uomo, avendo volto cioè questi aspetti tutti in una unità teorica che è quella della essenza della tecnica, nei termini seguenti: "Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come alienazione dell'uomo affonda le sue radici nella spaesatezza dell'uomo moderno"; e ancora: "L'essenza del materialismo non sta nell'affermazione che tutto è solo materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l'ente appare come materiale da lavoro. […] L'essenza del materialismo si cela nell'essenza della tecnica. […] Nella sua essenza la tecnica è un destino, entro la storia dell'essere, della verità dell'essere che riposa nell'oblio. Essa risale infatti alla t¡xnh dei Greci non solo nel nome, ma proviene in un senso storico essenziale dalla t¡xnh intesa come un modo dell'Žlhyeéein, cioè del rendere manifesto l'ente" [77].
In queste proposizioni (entro la cornice che è quella della modernità del moderno che dà oggi segni di tramonto quanto meno con riferimento ad alcune forme della produzione) si può cogliere appunto un indice di contemporaneità tale per cui Heidegger abbia potuto tradurre il dato storico, oppure il dato dell'esperienza, in un dato della essenza. Mostrandosi in ciò una preponderanza di sensibilità storica, che non lo è però (storica) nel senso in cui "questo che è ora nega quello che c'era", il presente nega il passato, o viceversa; ma nel senso del valore storico che si traduce nelle argomentazioni, nei convincimenti e nello stile.
Tutto può ritenersi dunque che tragga alimento da questa sensibilità; che è anche vigile nei confronti dell'occidente, della sua storia e della sua condizione.

§ 17.- L'idea del disvelamento come principio di verità, nel suo essere identificabile nel mondo della tecnica, merita un completamento, per quello che è il legame, istituito da Heidegger, fra la tecnica moderna e l'antica t¡xnh. Laddove l'essenza della tecnica viene ricondotta dal filosofo ad una forma del sapere, risalente ai Greci.
"La parola "tecnica" - egli dice - deriva dal greco texnikñn. Quest'ultimo parla di ciò che appartiene alla t¡xnh. Questa parola significa, già all'inizio della lingua greca, lo stesso che ¤pist¯mh - cioè presiedere a una cosa, comprenderla. T¡xnh vuol dire: intendersi di qualcosa, e precisamente della produzione di qualcosa […] t¡xnh non è un concetto del fare, bensì un concetto del sapere" [78]. Ovvero: "Dalle origini fino all'epoca di Platone la parola t¡xnh si accompagna alla parola ¤pist¯mh. Entrambe sono termini che indicano il conoscere nel senso più ampio. Significano il "saperne di qualcosa", l'"intendersene". Il conoscere dà apertura. In quanto aprente, esso è un disvelamento. Aristotele, in una trattazione particolare (Eth. Nic., VI, 3 e 4), distingue la ¤pist¯mh e la t¡xnh, in base al che cosa e al modo del loro disvelare. La t¡xnh è un modo dello Žlhyeéein. Essa disvela ciò che non si pro-duce da se stesso e che ancora non sta davanti a noi, e che perciò può apparire e ri-uscire ora in un modo ora in un altro" [79].
Quello che dunque si disvela nel disvelamento è, per ciò che è tecnica, anche qualcosa di umano. T¡xnh è, per l'etimologia, il fare che passa attraverso il sapere, l'intendersene. Laddove ciò che viene sottolineato è il saper fare (la concretezza del sapere), in relazione al fatto che, se l'essenziale si disvela, ciò è reso possibile dal fatto che il "disvelamento" ha riguardo a "ciò che non si produce da sé stesso" [80], che cioè non è qései, non ha "in sé il movimento iniziale (Aufbruch)"; ma è, come il calice d'argento, prodotto dall'arte e dal lavoro [81]; ha bisogno cioè dell'artigiano e dell'artista. T¡xnh è pro-durre, ma un produrre nel quale il disvelamento è legato ad un saper fare.
La digressione sulla t¡xnh come forma del sapere è un segno eloquente del fatto che per Heidegger la tecnica non è inumana: che l'uomo sia il contrapposto non significa esclusione. E significa invece che innanzitutto l'uomo entra nella tecnica per lo stesso principio per cui egli entra nel sapere. Che proprio questo aspetto importante del suo porre la questione della tecnica mostra questa sua umanità, mostra proprio il contrario di ciò che si può credere lì per lì, e cioè: a causa della sua umanità, il valore, non esteriore, della tecnica. Ponendosi in questo modo, in uno, il valore che l'orologio assume in stretto rapporto con la Cura e l'Esserci, oppure il profilo per cui l'uomo è risorsa.

§ 18.- Il disvelamento caratterizza sia la tecnica moderna sia l'antica, ma diversificandole.
Heidegger, sviluppando il discorso del rapporto fra tecnica e disvelamento, distingue fra tecnica in senso greco (e anche: contadina e artigianale) e tecnica moderna (che è e non è la tecnica in senso moderno e cioè puramente contrapposta ad un'idea che sia solo antica).
La prima è orientata alla poÛhsiû, al senso di pro-duzione quale è insito nella poÛhsiû [82], ed è pensabile entro il semplice concetto del poietico (come qualcosa che è legato al fare e porta all'apparire e all'immagine - ovvero conduce ad essere ciò che prima non era, secondo anche quanto si desume già con chiarezza da certi brani del Sofista di Platone [83]).
La seconda di più, come un che di enorme e trasformativo, è pensabile se si pensa la produzione in tutta la sua portata [84]; sfonda il profilo della semplice poieticità ed espande il principio per cui "Pro-duzione si dà solo in quanto un nascosto viene nella disvelatezza" [85], sino a toccare il destino dell'uomo sulla terra.
Ciò che nel mondo antico era tšcnh come arte o semplice saper fare, nel mondo moderno è "pro-vocazione", in un senso oggettivo: l'intervento dell'uomo per trasformare ed utilizzare la natura provocandola; essendo a sua volta tale intervento il far séguito ad una provocazione. È l'intervento umano, che è interpretato nell'epoca moderna proprio come opera del tecnico e "forma del lavoratore" [86]; ma non nel senso stretto, e anche idealistico, della produzione, anche se questo senso vi è necessariamente ricompreso.
La "pro-vocazione" contraddistingue dunque la tecnica moderna differenziandola da quella antica; differenziando la tecnica industriale da quella contadina: "L'opera del contadino non pro-voca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo" [87].
La pro-vocazione consiste nel pretendere sempre dalla natura "che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata" [88]. Essa consiste nel "provocare la natura per metterla a disposizione" [89]: "[…] anche la coltivazione dei campi è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione (Bestellens) che richiede (stellt) la natura. Essa la richiede nel senso della pro-vocazione. L'agricoltura è diventata industria meccanizzata dell'alimentazione" [90].
Più estesamente: "Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello Stellen, del "richiedere" nel senso della pro-vocazione./ Questa provocazione accade nel fatto che l'energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni"; laddove "Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento" [91].
Così, in generale, "L'aria è richiesta per la fornitura di azoto, il suolo per la fornitura di minerali, il minerale […] per la fornitura di uranio, l'uranio per l'energia atomica [92]" .
La "pro-vocazione", secondo Heidegger, è un pro-muovere, in un duplice senso: ovvero essa apre e mette fuori, dischiude e fa sì che qualcosa si manifesti. Ma è soprattutto un promuovere orientato a promuovere, cioè "a spingere avanti, qualcosa d'altro verso la massima utilizzazione con il minimo costo" [93]. Essa inoltre in ciò è qualcosa che indica un incidere, un trasformare, essendo l'uomo inconsapevole di ciò che essenzialmente accade.
La "pro-vocazione", saldandosi nel suo concetto in senso moderno il disvelamento e la tecnica, viene in risalto in una maniera tale per cui - si potrebbe dire - la natura sia provocata a liberare la sua energia, sia quasi intimata a farlo, per il modo però come essa, sapendo illudere su di sé, si dà (es gibt).
Ma tutto ciò avviene in quanto un nascosto venga nella disvelatezza, e non è dunque l'evidente utilizzazione, come utilizzazione di ciò che è evidente.

§ 19.- Il dire "pro-vocazione", e così del resto il ritornare sempre il pensiero alla Grecità come l'iniziale (das Anfängliche) stesso del pensiero [94], non debbono però distrarre da ciò che tutto questo viene a significare.
Tutto ciò significa che la tecnica moderna non può essere interpretata (meglio: può esserlo, ma risultandone alla fine il modo non soddisfacente) con gli strumenti interpretativi dell'antica; che la tecnica industriale non può essere interpretata con gli strumenti interpretativi di quella agricola.
E significa che se questo non è soddisfacente o adeguato, può anzi dovrà esserlo il contrario: e cioè: la tecnica agricola può essere interpretata con gli strumenti interpretativi messi a disposizione da quella industriale; la tecnologia della elettricità mediante gli strumenti resi disponibili dalla cibernetica.
Questi moduli del pensiero possono stare a significare che l'essenza della tecnica è e non è, allo stesso tempo, eguale a sé stessa. Meglio: che essa è eguale a sé stessa alla condizione di essere continuamente ripensata ed approfondita. E che, per aversi questo, non basta ripensare astrattamente il concetto di essenza, ma bisognerà piuttosto pensare l'essenziale, cercare sempre d'istituire un rapporto col fondamento, pensando questa o quella epoca della tecnica.

§ 20.- Nel mondo della tecnica moderna la provocazione provoca all'impiego, che è accumulazione e trasformazione (in altro) legata alla utilizzazione. Laddove i fini produttivi (dell'uomo) cedono il passo ad altro.
Ciò viene espresso da Heidegger in alcune descrizioni d'impianti: salienti quella del bacino carbonifero e quella della centrale elettrica sul Reno.
La prima dice: "Il carbone estratto (gefördert) nel bacino carbonifero non è richiesto solo affinché sia in generale e da qualche parte disponibile. Esso è immagazzinato, cioè è "messo a posto" in vista dell'impiego (Bestellung) del calore solare in esso accumulato. Quest'ultimo viene pro-vocato a riscaldare, e il riscaldamento prodotto è impiegato per fornire vapore la cui pressione muove il meccanismo mediante il quale una fabbrica resta in attività" [95].
La seconda dice: "La centrale elettrica è impiantata (gestellt) nelle acque del Reno. Questo è richiesto a fornire la pressione idrica che mette all'opera le turbine perché girino e così spingano quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale di un certo distretto e la sua rete sono impiegati a produrre per soddisfare la richiesta di energia. Nell'ambito di questo successivo concatenarsi dell'impiego dell'energia elettrica anche il Reno appare come qualcosa di bestellte, di "impiegato". La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l'antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all'altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale" [96].
Queste descrizioni stanno ad illustrare che cos'è l'impiego. Esse stanno a significare: che la natura "si trasforma in un unico, gigantesco serbatoio, diventa la fonte dell'energia di cui hanno bisogno la tecnica e l'industria moderne" [97], la natura stessa quindi va ripensata come fondo; che per questo modo di concretizzarsi della possibilità stessa di utilizzazione dell'energia la tecnica moderna, annullando le distanze geografiche, è in grado di abbracciare tutta la terra (: "La fornitura immediata di nuove energie presto non sarà più circoscritta a paesi e zone determinate della Terra" [98]); che siffatta condizione generale si riflette sulle categorie del pensiero, ad iniziare da oggetto e soggetto.
Se si può dire che tutto - alla luce del pensiero della tecnica moderna - diviene "oggetto", questa parola va presa ora con cautela; essa, per quanto precisato da Heidegger, non va usata nel senso in cui semplicemente "tutto l'ente appare come materiale da lavoro", oppure volendo significare la "oggettivazione del reale ad opera dell'uomo esperito come "soggettività"", secondo quelle che sono le prospettive rispettivamente di Marx e di Hegel [99] - ma nel senso, secondo quanto espresso precedentemente, del disvelamento.
L'oggetto, come "cosa" del pensiero, non è più tale; esso si è come dissolto "in entità (Bestände) che debbono essere costantemente, per i fini che di volta in volta si prospettano, producibili, disponibili e sostituibili" [100] (e questo - va aggiunto - non si ha come un dover-essere). Ovvero: "la presenza di ciò che è presente ha perduto il suo senso di oggettività", divenendo qualcosa d'incondizionatamente impiegabile [101], presentandosi così l'impiegabilità come "contrassegnata dalla possibilità di qualcosa che è sempre incessantemente nuovo, che è migliore senza sbocco nel meglio" [102]. Il che significa: l'impiegabilità va purgata sino in fondo dalla pregiudiziale strumentalistica ed umanistica, che sono limitative della comprensione.
L'oggetto dunque non è più tale, il ponte sul Reno non è più tale, e così il bosco che smette di essere un oggetto che semplicemente stia di fronte al soggetto (allo scienziato, all'artista, al curioso).
Niente lo è, oggetto, nell'accezione moderna della parola, in quanto nulla "può più apparire nella neutralità oggettiva di un "di fronte""; ovvero: "Ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi" [103], ai quali va attribuito un significato, in quanto al loro essere risorse.
L'oggetto viene ripensato e messo in dubbio poiché ogni cosa, nel suo essere in quanto "incorporata", "trasformata", è da ricondurre all'idea dell'impiegare, in un modo tale per cui la tecnica, che stimola il pensiero per la sua potenza, per la sua "enormità inquietante", viene assimilata a questa idea, decisiva. Ovvero l'ente (tŒ önta), la totalità di ciò che è, tutto ciò cui si addice di essere in quanto rappresentabile, pensabile, visibile (uscendo da una condizione di astrattezza, separatezza rispetto al soggetto) diviene disponibile, ordinabile, sostituibile, manipolabile [104]. Laddove però, ancora, il vero non si arresta all'"essere per" della manipolabilità, o della disponibilità.
Ora dunque, per quella che è anche l'opposizione heideggeriana alla metafisica, il senso della cosa è tale per cui ogni oggetto, ogni elemento della realtà, è risorsa ("più la tecnica moderna si dispiega, più l'oggettività si trasforma nell'essere risorsa [Beständlichkeit], in un tenersi-a-disposizione" [105]); è incorporato; nasce e funziona in quanto impiegato. Laddove si ha, nell'accadere l'impiego, disvelamento; tutto è in quanto impiegato nel senso che l'attenzione è volta a quanto nell'impiego accade, non al dato strumentale che una cosa sia impiegata ai fini dell'uomo.
La risorsa (la risorsa, anche, della scienza dell'Economia) in questo modo può affacciarsi o presentarsi alla ontologia; e parimenti ha modo di entrare in essa, sino anche a svuotarne il contenuto specifico, la possibilità di nuovi concetti -: di macchina, di energia, di elettricità, di atomica, ecc., che è come non si potessero non pensare, ora, filosoficamente - in uno stato tale che è la critica della considerazione idealistica, ma già cartesiana, dell'oggetto.
La risorsa, tramutandosi così in espressione positiva del pensiero, indica la concretezza del pensiero. Essa ha quel grado di concretezza che ha, per l'esistenza, la Cura.
La tecnica moderna viene definita così, dal filosofo, "disvelamento impiegante" [106], nella considerazione che ciò che avviene nello Žlhyeéein è, nell'età moderna, il mettere allo scoperto l'energia e che sulla disvelatezza (Unverborgenheit) "entro la quale di volta in volta il reale si mostra e si sottrae, l'uomo non ha alcun potere" [107].

§ 21.- Sulla disvelatezza l'uomo non ha potere (… egli non è il signore ma il pastore dell'essere [108]) pur avendo contribuito a che ciò che avviene avvenisse, pur essendo chiamato dalla potenza della tecnica a dare risposte, come avviene al servo di essere incessantemente chiamato a fare [109]: l'uomo moderno cioè ha sviluppata la soggettività come sostanza, facendo sì che "la presenza di ciò che è presente" perdesse anche quel senso di oggettività che solo nell'ambito della soggettività poteva costituirsi ed assumesse la caratteristica dell'"incondizionata impiegabilità da parte di ciascuno" [110].
L'impiego dell'impiegabile non è unilaterale: l'uomo è a sua volta provocabile, impiegabile: non essendovi più oggetto non si dà nemmeno soggetto.
L'uomo non ha potere essendo alla fine egli (nel clima di dissoluzione dell'oggetto) impiegato tanto quanto la natura e l'energia, ovvero: "La relazione soggetto-oggetto perviene così per la prima volta nel suo vero carattere di pura relazione (Beziegung), che è quello dell'"impiegare" (Bestellung), relazione-impiego in cui il soggetto e l'oggetto vengono entrambi, come "fondi" (Bestände), assorbiti" [111].
L'uomo non ha potere; egli è anche risorsa; ma lo è comunque in quanto uomo, nell'ambito della cui attività il disvelamento accade [112] essendo egli impiegato in un modo diverso rispetto ad un qualsiasi altro ente: egli, per ciò stesso, di essere "provocato all'impiego", è (in quanto uomo) irriducibile alla condizione di risorsa [113]. Ovvero: l'uomo a sua volta è "impiegato" (ad esempio: "è impiegato al fine di assicurare l'impiegabilità della cellulosa" [114]); ma, essendo provocato "in modo più originario che le energie della natura, […] non diventa mai puro "fondo"" [115].

§ 22. - Il concetto di "impiego" si può ricollegare alla considerazione, generale, della potenza della tecnica: "quella potenza che attraversa e domina ogni produzione tecnica", che vige "nella presenza di ciò che è presente" e che nello stesso tempo "fruisce dell'uomo" [116].
Nel discorso dell'Abbandono (Gelassenheit: qualcosa che ha in sé la pace dell'anima) la nozione di potenza presenta almeno tre punti salienti.
Il primo riguarda il concetto in quanto tale, la non-dominabilità della tecnica a causa dell'origine, ed è quello secondo cui la potenza della tecnica è tale per cui se questa "oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione", ciò lo si deve al fatto che "non è da noi che procede" [117], nonostante il nostro ruolo di produttori, nonostante la parola t¡xnh si riferisca ad un sapere (un saperne, in senso concreto).
Questo aspetto è interessante, soprattutto se si considerano le ragioni per cui esso assume rilievo, e cioè il crescere a dismisura della potenza stessa della tecnica ed il fatto che questa crescita sia tale, il fatto che l'utilizzabilità assuma una portata tale, da abbracciare tutta la terra [118].
Il secondo è quello in cui il filosofo storicizza la potenza della tecnica sostenendo che essa "sorse per la prima volta nel secolo 17°"; che cioè il principio di potenza si addice alla tecnica in senso moderno; laddove s'impone un rapporto "essenzialmente tecnico dell'uomo alla totalità del mondo". Che, inoltre, a tale modernità corrisponde il primato del cosiddetto pensiero "calcolante", volto alla concreta trasformazione del mondo in oggetto [119], sul pensiero cosiddetto "meditante", nel quale invece si contemperano accettazione e distanza. Ciò che ha i connotati di una diagnosi esatta; ché realmente, storicamente, questo accadde (come si può desumere anche dalle proposizioni hobbesiane sulla natura calcolante del pensiero [120]) prima ancora di essere la formulazione, da parte del filosofo, di un mero giudizio morale.
Il terzo, nel quale il primo ed il secondo vengono ad approfondirsi, è quello della connessione fra l'indirizzo assunto dalla tecnica in senso moderno nel suo espandersi ed il richiamo, per l'uomo, ad un pensiero più concreto: sull'esistenza, sull'essere, sulla essenza come un che di destinale, e su ciò che egli è: "La potenza che si nasconde nella tecnica moderna è ciò che determina la relazione dell'uomo a ciò che è. Essa [in questo] domina ormai tutta la terra" [121].
Tale connessione è provocata non da un concetto astratto di tecnica, al quale non potrebbe appartenere, per la sua astrattezza, la capacità effettiva di provocare, ma dal fatto: che la tecnica moderna disvela (svelando ora anche qualcosa che essa era già, per quanto inscritto nella sua origine) il suo concetto in una certa sua fase, quella (che si manifesta anche come) "atomica"; ovvero dal fatto che all'interno di questa età si sia imposto, essendo venuto a trasformazione, il modo di utilizzare l'energia, come problema globale. Se la tecnica disvela il suo concetto nella (sua) fase "atomica", ciò lo si può ricollegare al fatto: che essa abbraccia la terra tutta in quanto mostra il legame fra la sua essenza e l'energia.

§ 23.- L'accumulazione è un principio o un aspetto importante, per la tecnica moderna, e non va sottovalutata. Essa è un aspetto che aiuta senz'altro a comprendere la differenza tra la tecnica in senso antico, che semplicemente produce, ovvero essenzialmente utilizza ciò che produce (senza accumularlo) e la tecnica moderna.
L'accumulare non vige ad esempio nel vecchio mulino a vento, perché "Le sue ali girano sì sospinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree perché le accumuliamo" [122].
Accumulare significa produrre con il prodotto la disponibilità, tradurre una volta per tutte ciò che è in ciò che è disponibile, tradurre ciò a cui si chiede in ciò che si può chiedere; meglio: nel poter chiedere come possibilità.
Con l'accumulazione la natura non viene più semplicemente assecondata [123]. Essa consiste quindi in una più forte manipolazione della natura la quale così è "fondo", e non semplice natura. Il "fondo" si può dire che è, rispetto alla natura, ciò che la "risorsa" è rispetto all'"oggetto".
L'accumulazione è importante perché non può essere il semplice porre assieme; come fosse un mettere da parte. Essa non è puro materiale da lavoro; essa conduce, nel pensiero di Heidegger, all'idea di fondo.
§ 24.- Ciò che Heidegger dice "fondo" (Bestand) può essere identificato come un immagazzinamento, o una scorta, una riserva, ma solo in una prima approssimazione; nel senso in cui semplicemente ci si arresti al dire: "Ci sono ormai soltanto risorse: depositi, riserve, mezzi", senza apprezzare il valore di quel "soltanto", senza comprendere in che senso nella relazione-impiego dell'"impiegare" il soggetto (dunque l'uomo) e l'oggetto "vengono entrambi, come "fondi" (Bestände), assorbiti".
Col dire "fondo" si fa breccia nel muro dell'oggetto; si allude all'esser presente, secondo l'essenziale, tutto ciò che riguarda la tecnica in senso moderno.
"Il termine [fondo] - scrive Heidegger - dice […] qualcosa di più e di più essenziale che la semplice nozione di "scorta, provvista" (Vorrut). La parola "fondo" prende […] il significato di un termine-chiave. Esso caratterizza niente meno che il modo in cui è presente (anwest) tutto ciò che ha rapporto al disvelamento pro-vocante. Ciò che sta (steht) nel senso del "fondo", non ci sta più di fronte come oggetto" [124]; e questo avviene nel senso che "L'oggettità si trasforma nella stabilità del fondo determinata dalla "im-posizione" [Ge-stell]" [125].
Vi è dunque nell'esser fondo qualcosa che non è l'essere risorsa della risorsa, né lo stare la risorsa come storage, costituito, cui attingere; né tanto meno l'oggettità dell'oggetto (: l'essere oggetto dell'oggetto).
La parola "fondo" viene a significare l'impiegabilità della presenza; il tramutarsi, l'essersi tramutata, la presenza, da oggettiva in "impiegabile" [126].
Ovvero - per riprendere quanto già esposto - l'essere oggetto dell'oggetto non è, in un'epoca della tecnica quale quella moderna, tale: dove il disvelato è l'impiegato, lì non è dato parlare di oggetto, ma di "fondo"; la cosa non è cosa ma (cosa e) fondo, il mezzo non è mezzo ma (mezzo e) fondo; nel che si può pensare a ciò che si apre nell'accadere che si ha con l'utilizzazione dell'utilizzabile; potendosi asserire lo stesso dell'oggetto con riferimento al soggetto, per cui l'uomo a sua volta non è uomo ma è uomo e fondo.
In questo senso, in un modo cioè comprensivo ed unificante anche di quella che è la relazione fra soggetto e oggetto (relazione che è essa stessa fondo), nel venire ad essere e nello stabilizzarsi come fondo si ha nella tecnica moderna l'essenza della disvelatezza, che è presente nel disvelato essendo irriducibile ad esso. L'ontologia prestandosi così a fornire gli strumenti interpretativi.
Bestand è parola evocativa, al di là dell'immagine che essa fornisce lì per lì alla nostra mente. Con essa si rende un indice di presenza con riferimento al senso che si ha in generale in Heidegger dicendo della presenza come: (a) un venire-ed-essere-nella-permanenza, un soggiornare [127], e come (b) qualcosa che abbraccia non solo l'effettiva presenza (Anwesenheit) ma anche l'assenza (Abwesenheit) - la quale sempre, nello schema heideggeriano, riconduce alla presenza.
Ma tutto questo, che sembra avvolto nel linguaggio formale dedicato all'essere, appare ora sul terreno della concretezza; dandosi in uno natura, tecnologia (possibilità ed essenza) ed essere; il che significa così restare fermi, richiamandole o ripetendole, a certe formulazioni di pensiero di valore ontologico, come cercare di dare concretezza a quelle formulazioni, di tradurle; profilandosi in ciò ad esempio una nozione globale di economia e di tecnica tale da prospettare un superamento dell'identità (idealistica, dialettica) "economia moderna-produzione". Ma profilandosi diversamente anche il concetto di natura.
Bestand è ciò per cui, è il modo come, la natura è disponibile dalla tecnica [128]. Ovvero è più conciso dire che Bestand, "fondo", è la natura come fondo, venendo così il concetto di natura ad avere una sua sistemazione: è fondo, anche, ciò che solitamente si nomina come natura; che fondo dice della natura meglio di quanto non dica la natura in quanto distinta dall'idea di fondo.

§ 25.- Questo modo di pensare conduce, fra l'altro, al ripensamento di ciò che è macchina.
Macchina è l'orologio [129], macchina è il mulino a vento [130]; macchina è ciascun dispositivo, mettiamo, della centrale idroelettrica sul Reno: è un tema centrale per la filosofia moderna nella sua "modernità".
Ora però la macchina non sta più come l'oggetto; la novità della teoria del Bestand conduce all'enunciato della "non-indipendenza" della macchina, che si contrappone alla definizione hegeliana della macchina come "strumento indipendente".
Anche la macchina ha la sua posizione - nel pensiero heideggeriano -, in quanto appartenente all'essenza della tecnica, ma solo in base all'idea generale dell'"impiego dell'impiegabile" [131]. Dunque macchina non è semplicemente macchina, ma è (macchina e) fondo, come indica il brano della Questione della tecnica sull'aereo: "[…] un aereo da trasporto che sta sulla sua pista di decollo è ben un oggetto. Sicuro. Possiamo rappresentarci la macchina in questi termini. Ma in tal caso, essa si nasconde nel che cosa e nel come del suo essere. Si disvela, sulla sua pista, solo in quanto "fondo", nella misura in cui è impiegata (bestellt) per assicurare la possibilità del trasporto" [132].
Tutto ciò può esser detto - a ben riflettere - anche con riferimento ad un periodo storico nel quale viene a cadere il meccanicismo come modello, nel quale cioè l'idea di macchina viene a perdere il suo potersi prestare alla rappresentazione generale delle cose (l'universo, i corpi, gli oggetti dotati di funzionamento).
Ora, se le cose e gli oggetti non sono più rappresentabili macchinalmente, se nel mondo moderno la tecnica è tale in quanto impiego dell'impiegabile, tutto ciò induce a pensare tanto che la macchina sia non indipendente quanto che l'essenza della tecnica non sia da ricercare nella tecnica, negli strumenti e dispositivi - l'essenza della tecnica non è tecnica (anzi: maggiore è la potenza della tecnica, più insufficiente risulta rappresentarsi la sua essenza come un che di tecnico [133]) - e piuttosto in una idea più ampia nella sua concretezza, nella maggiore ampiezza di una presenza, di un venire nella presenza, rispetto alla realtà oggettiva, o creduta governabile.

§ 26.- L'essere ogni cosa come "fondo", il disvelamento, orientato in tal senso, si spiegano, ed a loro volta ne spiegano il senso, con qualcosa che da Heidegger viene definito Ge-stell.
Termine questo, dalle varie possibili traduzioni: "impianto" [134], "dispositivo" [135], oppure Frame, Framing (: Heim, Feenberg); o "im-posizione" (Vattimo [136]); o anche "porre fondamentale". Termine assoggettato al rischio - soprattutto qualora si ricorra ad analogie con oggetti tangibili (, visibili, ecc.) - di una mai soddisfacente definizione.
Sembra comunque che vi siano alcuni punti che si possono mettere in rilievo, con una certa obiettività, considerando il fatto che l'espressione si riferisce al modo come qualcosa di essenziale accade:
(a) Ge-stell è ciò che la tecnica fa a causa della sua essenza; è ciò che accade alla essenza della tecnica in quanto tale.
(b) Il Ge-stell riconduce dunque al pensiero dell'essenza; riconduce, quanto meno, il pensiero alla essenza.
Su questo piano esso si differenzia dalla essenzialità per come essa si era andata configurando, quale genus, nella filosofia classica: "[…] l'im-posizione [Ge-stell] non è mai l'essenza della tecnica nel senso di un genere" [137], cioè nel senso in cui "ciò che conviene a tutte le specie di alberi, alla quercia, al faggio, alla betulla, all'abete, è la stessa "arboreità"" [138]. Il Ge-stell dunque non è il genus rispetto alla macchina, all'apparecchiatura, ai mezzi e dispositivi, ecc.; esso in questo non è qualcosa di tecnico. Sembra dover mutare così, per l'uso, il concetto di essenza. La quale in generale, per quanto si legge in un passo della Questione della tecnica (a proposito del "die Weserrei" di una poesia di J. P. Lebel), è il luogo nel quale si raccoglie la vita, si muove l'esistenza; nel quale qualcosa d'importante dispiega il suo essere, si dispiega nel suo essere [139].
(g) Se l'essenza della tecnica è nel disvelamento, il Ge-stell nomina il modo essenziale di tale disvelamento, il modo come "il reale si disvela come fondo", non quale oggetto [140], neanche come questa o quella risorsa; esso, meglio, appartiene al destino del disvelamento [141].
Ma forse del Ge-stell si può tentare anche una definizione più formale, dicendo (con riferimento prevalente all'energia, alle risorse ed al loro sfruttamento) che esso allude al complesso delle cause, giacenti nella indeterminatezza, per cui qualcosa (di volta in volta si determina e) s'impone, ma come si può imporre qualcosa che vi è destinato. O se ne può fornire una definizione più direttamente descrittiva, come: "universale imposizione e provocazione del mondo tecnico" [142], o come insieme dei modi del porsi di una essenza.
(d) Il Ge-stell nomina qualcosa che accade umanamente, secondo la considerazione per cui l'uomo è colui che viene pro-vocato ad impiegare le risorse, a servire una forza che lo costringe, volgendo in "fondo" ciò che così si disvela. Laddove a ciò che così accade si accompagna la sensazione di certa quale inessenzialità dell'uomo.
(e) Il Ge-stell, come si spiega con l'intervento dell'uomo chiamato ad operare sulla disvelatezza senza avere su di essa alcun potere, così indica "il modo di disvelamento che vige nell'essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico" [143]. Il Ge-stell dunque denota l'accadere l'essenza della tecnica né come un che di tecnico, né come un che di umano.
(h) Dicendo Ge-stell si nomina il destino, si dice del destinale [144]. Lo si dice, a voler scavare nella tecnica dal punto di vista della essenza, come di qualcosa che è inscritto nel disvelamento stesso. Questo avviene in generale anche nei termini per cui per Heidegger l'essere non è "né Dio né fondamento" [145].
Ge-stell sotto questo profilo dice tanto del pro-vocare e del non poter non rispondere come di un che di decisivo (modo della pro-vocazione come modo stesso del disvelamento [146]) quanto in ciò di un pro-durre, non nel senso di fabbricare [147], ma nel senso del far "avanzare nella disvelatezza ciò che è presente" [148].
(q) Profondamente legato al destino, nel dire il Ge-stell, è il pericolo.
Di ciò in cui il pericolo consiste, essendo il pericolo tale perché colto innanzitutto dal pensiero dell'essenza, Heidegger enuncia tre punti di vista: (a) che il "disvelato", non presentandosi più come "oggetto", concerne l'uomo come "fondo" [149]; (b) che il disvelato non si comprende; e (c) che l'uomo in questo non comprende di essere entrato nella sfera della inessenzialità; egli, vestendosi orgogliosamente della "figura di signore della terra", crede che "tutto ciò che s'incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo" [150]. Ma l'uomo in ciò s'illude perché, contrariamente a ciò che egli crede, "non incontra più la propria essenza" [151].
Dove il disvelamento regna nella "forma dell'impiegare" - ciò che appunto avviene nella tecnica moderna - lì esso "scaccia via ogni altra possibilità del disvelare. Soprattutto, l'im-posizione [Ge-stell] nasconde quel disvelamento che, nel senso della poÛhsiû, fa-av-venire nell'apparire ciò che è presente. In confronto a questo, l'impiego pro-vocante […] spinge nel rapporto inverso e opposto verso ciò che è" [152].
(i) Sotto il profilo del "pericolo", dunque, il Ge-stell sottintende il fatto che il disvelato si sottragga alla interpretazione ed alla comprensione [153].
Il Ge-stell nega la comprensione con quelle conseguenze che non consistono nella sola minaccia di morte ma che giungono sino alla essenza storica della cosa, colta nel suo essere cosa del pensiero: "La minaccia per l'uomo non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono anche avere effetti mortali. La minaccia vera ha già raggiunto l'uomo nella sua essenza. Il dominio dell'im-posizione [Ge-stell] minaccia fondando la possibilità che all'uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l'appello di una verità più principale" [154].
In ciò da una parte vi è l'impressione di una distanza che c'è, che si forma, di una essenza che sfugge, dall'altra la sensazione che non vi sia più quel rapporto con la verità che con la t¡xnh si veniva a costituire presso gli antichi Greci.

§ 27.- Un pensiero profondamente concreto, per come mostra di esserlo quello heideggeriano sulla tecnica, racchiude in sé una valenza storica. Quanto meno si può tentare di storicizzarlo, considerando la concretezza nella sua inerenza a ciò che è, da un punto di vista elementare delle cose.
La questione della tecnica in Heidegger - tornando con la mente al brano del Reno - si può storicizzare dicendo che essa è la questione della tecnica in un'epoca che è, molto, l'epoca della elettricità; la quale presuppone l'energia, le forme di energia, ed in cui si tiene sempre vivo il circolo delle risorse. Il che implica per il pensiero, sul piano della concretezza, ulteriori possibilità interpretative [155].
L'elettricità, secondo quanto all'argomentazione filosofica è dato segnalare, non è uguale a sé stessa; non risponde, meglio, ad un principio logico d'identità. Essa invece è tale in quanto racchiude in sé e manifesta la possibilità stessa del suo divenire. Essa cioè è tale in quanto diviene, luce, calore, movimento, e lo diviene secondo un principio di possibilità. Essa reca dunque in sé come inscritte trasformazione, traducibilità [156], disponibilità (e ciò si presta ad essere pensato nel senso in cui si dice: "trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento"); il che si mostra consono, per ciò che qui interessa, al principio dell'impiego dell'impiegabile.
La tecnica, osservata anche come ciò che si presenta al pensiero e che sempre di più ad esso si presenterà a causa della profonda direzione assunta dalla storia a partire da una certa epoca, è proprio in questo pensare una cosa, un aspetto, come se ne possono o se ne potranno pensare altri. L'importante è che un nuovo principio sia fissato nella sensibilità.
Dalla filosofia heideggeriana si desume che quel nuovo principio è l'energia; essa filosofia è pensosa (inizia ad esserlo, a suo modo: per lo più indirettamente) dell'energia come di qualcosa di essenziale (che nella sua potenza l'uomo cerca di dominare ed utilizzare). Essa in certo modo è pensosa nella forma dell'energia; la quale può essere chiamata a spiegare, essendone spiegata, la nozione di Bestand, in relazione all'idea di economia in senso globale, o di natura (: adeguatezza del concetto di Bestand a ciò che effettivamente accade).
L'elettricità rimanda dunque all'energia. Il dato emergente, in tal senso, è confermato: già si è profilata una nuova epoca della tecnica che è tale in quanto nell'essenziale vi siano (in relazione appunto all'idea di energia) accumulazione, trasformazione e controllo.

§ 28.- In fondo, se l'interpretazione heideggeriana della tecnica moderna si fosse limitata alla immagine della centrale elettrica sul Reno, e parimenti a quella del bacino carbonifero, essa avrebbe mostrato solo una faccia della essenza della tecnica moderna ed in questo un solo aspetto della energia; un aspetto nel quale, per così dire, si versa ancora molto nella fisicità della immediatezza.
Vi è modo e modo, ad esempio, per cui la macchina, l'impianto, il macchinario, mostri di poter incidere sulle rappresentazioni e la loro economia. Evidentemente, come si è visto parlando del rovesciamento nel rapporto fra scienza e tecnica, ogni realtà della tecnica agisce a suo modo su tale economia: l'incidente trasformazione delle rappresentazioni (ritenendo la rappresentazione come ciò in cui la conoscenza si risolve) non è l'uomo, che semplicemente cambi le proprie rappresentazioni. Ed è il sintomo, come si comprende leggendo attentamente lo scritto Gelassenheit, di ciò che più essenzialmente sta avvenendo.
Sta avvenendo ad esempio qualcosa per cui nell'èra elettrica si affaccia, s'innesta, senza in fondo confutarla - ma ciò bisognerà pur sempre poterlo dire - sul piano dell'essenza, quella atomica, nella quale la questione della tecnica è, molto, quella di utilizzare la natura per come essa è definita dalla moderna scienza fisica, non cioè semplicemente fruendo di una natura che dà i suoi frutti, ma questo in un modo specifico e comunque più accentuato, finalmente globale per l'economia e la tecnica: "Da appena un paio di decenni soltanto abbiamo scoperto, grazie all'energia atomica, delle fonti di energia talmente gigantesche che saranno in grado, in un prossimo futuro, di far fronte al fabbisogno mondiale di energia di ogni tipo. La fornitura immediata di nuove energie presto non sarà più circoscritta a paesi e zone determinate della Terra, come accade ora per i giacimenti di carbone o di petrolio e per il legname dei boschi. In un prossimo futuro le centrali atomiche potranno essere costruite dappertutto. / Oggi la scienza e la tecnica non si domandano più: da dove possiamo ricavare quantità sufficiente di combustibile e di carburante? Oggi la domanda decisiva suona: in che modo possiamo riuscire a domare e ad imbrigliare queste quantità di energia atomica inimmaginabilmente grandi, in che modo possiamo assicurare all'umanità che questa enorme riserva di energia improvvisamente non si ribelli […] ?" [157].
Venendo quindi a mutare le fonti di energia, viene a mutare il senso profondo della domanda di energia, la quale si pone ora, a causa del punto di vista dell'esistenza, come tema filosofico. In ciò l'evoluzione nei modi di sfruttamento dell'energia conduce la terra allo stato di unità, unificando la tecnica e l'uomo, ciò che non è umano e ciò che è dicibile come umano.

§ 29.- Che cosa può significare che un'èra non confuta l'altra? Significa, filosoficamente, che l'èra atomica, profilandosi, dimostra qualcosa che è emerso con l'èra propriamente elettrica; significa anche che l'obiettivo triplice: di accumulare, trasformare, controllare, valorizza la tecnica (a) per quanto essa consiste in ciò, poiché essa è, anche, questo suo obiettivo, e (b) poiché il conseguimento di questo obiettivo è solo il preludio a trasformazioni del modo del mondo di essere mondo.
Quella proposizione, per cui "proprio se la bomba H non esplode l'uomo non si estingue sulla terra" è interpretabile in tal senso, ovvero nel senso per cui "Quando si riuscirà ad imbrigliare l'energia atomica […] allora comincerà uno sviluppo del mondo tecnico completamente nuovo" [158]. (L'imbrigliamento ed il controllo sono quindi importanti tanto quanto l'utilizzazione; essi sono in certo senso, poiché ne sono evidenziate, l'altra faccia della trasformazione dell'energia.)
Il che, alludendo alla condizione dell'uomo come ciò che si pone in relazione con la tecnologia che non è predeterminata dalla natura che ad essa è attribuibile dalla scienza, vale ancora ad approfondire il concetto di Bestand, sottolineandosi il nesso fra ciò che nel fondo si accumula, si imbriglia e si rende disponibile e ciò che in conseguenza accadrà nella disvelatezza, non per un rapporto di causa ad effetto.
Tutto questo per dire quindi anche qualcosa che di solito si trascura, parlando della questione della tecnica in Heidegger: il nesso non solo esteriore, non solo accadente, fra ciò che è tecnica e ciò che è energia; la tecnica, ed in questo anche la scienza, in quanto anche molto volta all'energia, come ciò che si scopre riguardare l'uomo quale condizione dell'uomo sulla terra e la "mondità" del mondo; prima che l'uomo come colui che astrattamente voglia soddisfare i propri bisogni, o il mondo come qualcosa che il pensiero tiene lontano da sé, o che semplicemente trova di fronte a sé.
Sotto questo profilo, incuriosisce il modo come Heidegger, secondo certa esegesi, pensa la tecnica, ovvero incuriosisce quello che è stato definito il suo "essenzialismo". Il quale, per riprendere le osservazioni di Feenberg [159] allo scopo d'integrarle, non è semplicemente nella contrapposizione fra essenza e storia, ma anche nel saper vedere in ciò che solitamente sia ritenuto inessenziale, un aspetto dell'essenza.

***

§ 30.- L'essenza della tecnica moderna, la sua "potenza", riguarda ciò che l'energia è nel suo rapporto con l'impiego, essendovi l'uomo vieppiù impiegato.
Lo si può considerare riflettendo su un'epoca che resta ancora epoca della elettricità, e che di qui può definirsi dell'elettronica [160], sino all'affacciarsi di quella che (oggi comunemente) si dice "informazione", e meglio: tecnologia dell'informazione, affidata ora a macchine cibernetiche.
Ma la macchina cibernetica, in quanto macchina, non è, per quanto già si esprime attraverso l'immagine dell'aereo sulla pista, un a sé; essa, rispetto alla essenza della tecnica, è qualcosa - una forma della tecnicizzazione - attraverso cui l'uomo provoca la natura per metterla a disposizione ed è nello stesso tempo un modo come la natura - che è fondo - provoca l'uomo, (lo) reclama, perché egli renda disponibile l'energia [161]. Anche la macchina cibernetica quindi va ricondotta al concetto di fondo ed a quello correlato di impiego.
Così, grosso modo in un periodo storico nel quale parte della cultura anglosassone considera, ponendo mano di fatto ad una nuova teoria dei sensi, la mutazione dell'uomo al mutare della tecnologia dei mezzi di comunicazione (media) [162], si amplia il quadro delle riflessioni heideggeriane sulla tecnica. Alla centrale elettrica impiantata nel Reno, così come al bacino carbonifero o all'aereo sulla pista, si aggiunge un altro polo attrattivo per il pensiero, ed è il calcolatore, cioè la macchina, giunta ora ad una sua epoca di sviluppo [163]. Ma essendo la macchina cambiata, l'aggiunta è stimolante: essa è tale per cui la tecnica moderna va nuovamente periodizzata.
Nella conferenza del 1962 su Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, il filosofo distingue, nell'ambito dell'età industriale, fra una prima ed una seconda rivoluzione tecnica: "La prima - egli sostiene - consiste nel passaggio dalla tecnica artigianale e dalla manifattura alla tecnica delle macchine motrici. La seconda […] la si vede nel sorgere e nell'irrompere della massima "automazione" possibile, il cui tratto fondamentale viene determinato tramite la tecnica della regolazione e del controllo: la cibernetica" [164].
Ciò che viene in risalto così attraverso la cibernetica e cioè "nell'irrompere della massima "automazione" possibile", è l'accentuazione di quella domanda "decisiva", posta in relazione agli sviluppi della scienza e della tecnica negli anni più recenti della loro storia, che suona: "in che modo possiamo riuscire a domare e ad imbrigliare queste quantità di energia […] inimmaginabilmente grandi?"; e cioè la domanda di controllo; potendosi considerare la cibernetica come la risposta ad essa in termini di automazione.
Non solo: ma sembra esservi a tratti - il che lo si può ascrivere a certo spirito escatologico dei filosofi - fra cibernetica e tecnica moderna un legame di realizzazione rivelatrice, nel senso che la cibernetica sembra costituire quasi la piena realizzazione della tecnica moderna, quasi ne fosse il punto di approdo finale.

§ 31.- Che cos'è la cibernetica, filosoficamente?
Nella macchina cibernetica, come nelle macchine in generale, non si leggono i semplici valori strumentali e cioè il mero predisporre mezzi per l'automazione. Si legge invece in generale, ad esempio, un modo nuovo di organizzare le rappresentazioni.
La cibernetica, proprio per essere qualcosa che si può interpretare per analogia con le attribuzioni dell'uomo, distoglie dalla concezione antropocentrica con i suoi annessi, più o meno insospettabili, sino a far incrinare, a causa degl'imbarazzi e dei limiti interpretativi, prima il modello umanistico poi quello filosofico del pensiero, che non poteva non avere una sua concretezza e ragione storica.
La cibernetica, per incidere sulle rappresentazioni, innanzitutto incide sul linguaggio. Heidegger vede il computer e lo definisce Sprachmaschine, macchina che ha il suo linguaggio, che si raccoglie attorno ad un linguaggio; che ridisegna, attraverso l'uso, il linguaggio.
La cibernetica, in quanto tale, riparla fortemente del linguaggio; essa cioè, in quanto scienza della comunicazione, riparla di funzioni ritenute tipiche ed esclusive dell'essere umano conducendole sul terreno della fisica (colta nella sua evoluzione) e soprattutto della tecnica. Appunto in questo, se con essa qualcosa di umano e naturale viene tecnicizzato nei "sistemi della comunicazione e della segnalazione formalizzate", allora la cibernetica costituisce "l'attacco più duro e più minaccioso a ciò che è proprio del linguaggio" [165].
Che cosa ne è pertanto del linguaggio, nel quale si fonda l'essere dell'uomo [166], il linguaggio considerato "casa dell'essere" [167], "come" essenziale dello es gibt Sein, ovvero di ciò che Heidegger teorizza nelle sue opere più conosciute? Che cosa ne è di quel verso di Stephan George che dice: "Nessuna cosa è [sia] dove la parola manca"? [168]
Ora, per reazione all'avvento dell'informazione e dell'automazione, ovvero a ciò che tale avvento è in grado di rivelare, il linguaggio umano, ampiamente teorizzato, appare come linguaggio tradizionale, tramandato: esso ora non va pensato come un che di assoluto.
La cibernetica infatti dimostra (a) che il linguaggio (ogni linguaggio, essendo in questa traducibile) è informazione. Essa fa questo nel momento stesso in cui (b) "trasforma il linguaggio in uno scambio di informazioni" [169]; e ciò anche perché "il rapporto dell'uomo d'oggi con la tradizione storica si tramuta visibilmente in un mero bisogno d'informazione" [170].
Essa così dimostra (c) che il linguaggio "non è una proprietà riservata esclusivamente all'uomo, bensì una proprietà che questi divide, fino a un certo grado, con le macchine prodotte da lui" [171].
Trasformando il linguaggio in informazione (ovvero riconducendolo alla informazione, che esso è), introducendo così il cosiddetto linguaggio tecnico (che significa appunto: linguaggio quale "informazione", ma significa anche: è il dominio della tecnica moderna a richiedere un linguaggio "predisposto alla più grande estensione di informazioni" [172]), la cibernetica mostra essenzialmente (d) ciò che è proprio del linguaggio in generale, dunque anche di quello tradizionale, ovvero il parlare stesso come far segno: "Sebbene - dice Heidegger a tale riguardo - l'interpretazione del linguaggio come visione del mondo, data da Wilhelm von Humboldt, abbia generato molte conoscenze, essa tuttavia lascia nell'indeterminato ciò che è proprio del linguaggio, il parlare stesso. […] il parlare, in quanto mostrare, può essere rappresentato e attuato anche in modo tale che il mostrare significhi soltanto: far segno. Il segno diventa così comunicazione e notizia riguardo a qualcosa che non si mostra in se stesso. Un suono che si propaga, una luce che lampeggia, presi di per sé non sono dei segni. Essi vengono prodotti e trasmessi come segni, solo se prima si sia concordato, cioè si sia detto, che cosa di volta in volta essi debbano significare" [173].

§ 32.- La cibernetica distoglie dalla concezione antropocentrica poiché il confronto della filosofia con la cibernetica amplia e generalizza il valore di linguaggio, estendendolo a ciò che non è parola, ovvero al segno e prima ancora a qualsiasi segnale, al quale si attribuisca senso.
Viene in risalto così, in quella che è la questione della tecnica, il simbolismo e cioè il valore rappresentativo convenzionale del linguaggio, ed il realismo, ovvero l'essere a sua volta linguaggio, sostitutivo/costitutivo di "realtà", della comunicazione. Vengono in risalto i cosiddetti principi tecnico-calcolanti, sui quali si basa la traduzione in linguaggio di ciò che umanamente non lo è, e viceversa.
Su questo piano, Heidegger considera l'analogia fra il sistema Morse e quello binario dei grandi calcolatori: "Pensiamo ai segnali Morse, che si limitano al numero e all'ordine dei punti e delle linee, e in questo modo si correlano ai fonemi dei suoni linguistici. Il singolo segnale può avere, di volta in volta, solo una delle due forme, il punto o la linea. In questo caso la sequenza dei segnali viene ricondotta alla sequenza tipica delle decisioni sì-no, e per produrla vengono predisposte delle macchine, in cui le emissioni e i colpi della corrente eseguono uno schema di segnalazione astratta e forniscono i messaggi corrispondenti. Ora, perché una notizia di questo tipo diventi possibile, ogni segno dev'essere definito univocamente; allo stesso modo, ogni composizione di segni deve significare, univocamente, una determinata enunciazione. […] Sui principi tecnico-calcolanti di questa trasformazione - dal linguaggio in quanto dire, al linguaggio in quanto mera comunicazione di segnali - si basa la costruzione e la prestazione dei grandi calcolatori. Quello che è decisivo per la nostra meditazione, è che qui, in base alle possibilità tecniche della macchina, vien posta una prescrizione sul modo in cui il linguaggio può e dev'essere ancora tale. Le modalità e il carattere del linguaggio si determinano secondo le possibilità tecniche di una segnalazione formale, la quale esegue, con la più grande velocità possibile, una sequenza continua di decisioni sì-no" [174].
S'impone, in virtù dei principi tecnico-calcolanti, la cosiddetta univocità del segno, nella quale si ha l'immediato riscontro della possibile corrispondenza fra il nostro linguaggio "naturale" e quello tecnico; potendosi comprendere ad esempio, in relazione a tale univocità, e cioè in relazione al fatto che qui è la tecnica a determinare il linguaggio, come una poesia non si lasci programmare [175]. E dunque toccandosi con mano la diversità dei linguaggi nell'esserci linguaggio, e la condizione o il limite della traducibilità dell'uno nell'altro. La quale è come il permanere della differenza in una nuova unità della prassi, meglio: operazionale, messa a nudo dalla evoluzione della tecnica.
Il concetto, sotto il profilo del pensiero della essenza, è ora il seguente: che nella traduzione del linguaggio in informazione "si fa valere ciò che è proprio della tecnica moderna" [176]. Ovvero che ciò che è proprio del linguaggio viene determinato dalla possibilità tecnica nei suoi sviluppi: nel nostro caso dalla macchina calcolatrice e dai programmi che vi si possono caricare [177].
Il concetto dunque non è che il linguaggio, allontanandosi dall'uso umano del dire, lasci intravedere la tecnica in senso astratto, ovvero la sua stessa essenza tecnica; non si varca con Heidegger il confine della coscienza o rappresentazione antropocentrica del linguaggio. E ciò per le stesse ragioni per cui l'attenzione, a riguardo delle macchine cibernetiche, è attratta dal linguaggio. Ovvero perché ci si dedica a ciò che viene tecnicizzato, prima ancora che al prodotto di tale tecnicizzazione.
Ovvero: col dire "ciò che è proprio del linguaggio", Heidegger ricalca in fondo quel senso storico cui si accennava inizialmente, per cui ciò che viene dopo dice dell'essenza di ciò che era prima. Egli sembra richiamare o collaudare un suo schema, forse confermandolo, ma anche qui in quel modo ambivalente del quale, sempre inizialmente, si diceva.

§ 33.- Poiché, con riferimento all'essere il linguaggio informazione, esistono quanto meno un linguaggio tramandato (il dire o scrivere "naturale", fonetico, dell'uomo) ed uno tecnico, si può parlare, con riferimento alla considerazione heideggeriana della cibernetica, di una sorta di teoria dei due linguaggi.
Ma questo rinvia ad un mondo tecnicamente dato, nel quale, se sarà difficile separare ciò che è proprio dell'un linguaggio da ciò che è proprio dell'altro, nessun linguaggio, in quanto tale, risulterà determinante; nessuno sarà riducibile all'altro.
L'informazione, producendo nella traducibilità (del linguaggio in informazione, del linguaggio naturale in linguaggio tecnico) una nuova unità, non solo produce la differenza, ma conserva - il che suggella la sua potenza - ciò per cui si dà differenza.
Ovvero: dal punto di vista dell'identificazione del linguaggio, il rapporto fra cibernetica e linguaggio non si risolve nella nozione di linguaggio "tecnico"; l'informazione, se è un altro modo di essere del linguaggio, lo è in generale ed in un modo non lineare.
Il linguaggio tramandato è tale, nel suo rapporto con quello tecnico, per cui questo non può fare a meno di quello, in quanto proprio linguaggio naturale.
Ciò di cui la tecnica ha bisogno per essere tecnica, non è la pura negazione dell'uomo e della sua tradizione per ciò che questa è venuta dicendo e sottacendo; la macchina infatti è l'imitazione di qualcosa che non è manifestamente tecnico: essa è "fondo" non solo in quanto macchina, ma in generale anche nel suo rapporto con l'uomo.
Così, nella tecnologia dell'informazione, il linguaggio naturale, cioè il linguaggio di uso corrente, non tecnicizzato - il nostro comune linguaggio - nella sua essenza, è sempre presupposto, voluto, provocato, da quello tecnico, il quale proprio nel tradurlo ha bisogno di qualcosa da imitare. Heidegger in ciò comprende in qualche modo il valore che anche nella nuova epoca delle "macchine" (per l'importanza stessa del principio d'imitazione dell'uomo) ha il linguaggio propriamente umano, un'acquisizione in certo senso insuperabile, e cita a questo proposito Sprache als Information di Weizsächer [178]. Alla quale poi molte sono le opere che sono seguite, essenzialmente sul fronte della Intelligenza Artificiale - e cioè andando oltre il limite ed i principi della cibernetica - senza che venisse a mutare il concetto fondamentale.
Heidegger in questo sembra porre sul piano della non-incompatibilità e della possibile conciliazione quanto Cartesio nel Discorso sul metodo sembrava porre sul piano di una secca alternativa o della esclusione, ovvero sostanzialmente il rapporto fra linguaggio imitabile e linguaggio inimitabile: gli automi, per quanto perfezionati, non avrebbero mai potuto eguagliare l'uomo, soprattutto con riferimento al linguaggio nella sua creatività. Heidegger per giunta sembra fare questo al di là della stessa distinzione fra linguaggio tramandato e linguaggio tecnico.

§ 34.- Le riflessioni sul linguaggio riguardano le rappresentazioni e sono in questo riflessioni su ciò che, nel rapporto con gli strumenti, avviene nell'uso stesso delle parole.
Si dice ora "linguaggio", si pronuncia questa parola, (anche) per significare qualcosa che per tradizione linguaggio non è; si dice linguaggio un non-dire; ciò che si nomina come linguaggio è e non è tale.
Parimenti la cibernetica parla di "apprendimento" ma lo pensa come feed-back, ovvero "retroazione", o "segnale di ritorno" - per cui si hanno segnali costanti di ritorno che istruiscono l'agente sul modo di proseguire nella sua azione -, sulla base della scoperta che "La retroazione è […] un tratto caratteristico assai diffuso nelle forme di comportamento" [179].
Più in generale, secondo una notazione di Heidegger: "per mezzo delle rappresentazioni che guidano la cibernetica - informazione, controllo, richiamo - vengono modificati in un modo, oserei dire, inquietante quei concetti chiave - come principio e conseguenza, causa ed effetto - che hanno dominato finora nelle scienze" [180].
Si affaccia così l'intuizione secondo la quale l'ingresso delle macchine a fini di automazione comporta un nuovo orizzonte semantico e di rappresentazione; esso viene a mutare il rapporto linguaggio-realtà, per cui ciò che prima significava una cosa, ora (conservandosi nell'uso quella medesima parola) ne significa un'altra; e quest'altra a sua volta dice anche della struttura di quella (un po' come avviene che il segno dica del linguaggio).
In questo si ha la misura di come sia venuto a mutare il rapporto dell'uomo con l'ente (con la realtà, nel suo essere) che lo circonda e lo sostiene, quel mutamento che costituisce una minaccia per la "essenza più propria dell'uomo" [181].
Ma in che senso si ha minaccia o pericolo per l'uomo?
Se è vero che il linguaggio tecnicizzato a fini d'informazione costituisce "l'attacco più duro e più minaccioso a ciò che è proprio del linguaggio", non per questo si deve interpretare il "pericolo" in un senso puramente negativo, ma come un sintomo oggettivo di trasformazione e un "da-pensare". Pericolo sta, essenzialmente, per forte capacità trasformativa, alla quale storicamente il pensiero è chiamato a prestare attenzione, meditando. Minaccia e pericolo quindi sono un po' per il pensiero la linfa preziosa.

§ 35.- L'essere la filosofia legata al linguaggio dice che il suo confronto con la cibernetica avviene in un modo significativo. Non solo sul terreno delle definizioni in generale, ma anche su quello del permanere della filosofia come tale.
L'avvento della cibernetica - sostiene Heidegger - non è accidentale [182]. Corrisponde invece a qualcosa d'importante, che accade (che dev'essere accaduto) alla filosofia, interpretata come una forma specifica di pensiero: la sua "fine" (: "Con il rovesciamento della metafisica, che è già attuato con Karl Marx, è raggiunta la possibilità estrema della filosofia. Essa è giunta alla sua fine" [183]; e anche: "[…] il modo di pensare della metafisica, che con Nietzsche è giunta alla sua conclusione, non offre più alcuna possibilità di fare, pensando, esperienza dei lineamenti fondamentali dell'età della tecnica che è solo al suo inizio" [184] ).
La "fine" della filosofia, e meglio è dire - non potendosi parlare di sua "dissoluzione" ma piuttosto di "raccoglimento nelle possibilità estreme" [185] - il suo compimento (che non è determinato dalle macchine - le quali ora si inscrivono piuttosto in un percorso), è riconoscibile nel fatto che (a) questa "si dissolve [si è dissolta] in scienze autonome: la logistica, la semantica, la psicologia, la sociologia, l'antropologia culturale, la politologia, la poetologia, la tecnologia" [186], e che (b) essa, a causa dell'affermarsi del carattere della tecnica moderna, risente della dissoluzione dell'oggetto "in entità […] che debbono essere costantemente […] producibili, disponibili e sostituibili" [187]. E cioè del fatto che "la presenza di ciò che è presente ha perduto […] il suo senso di oggettività" [188]; essendosi l'oggettività tramutata in "impiegabilità" [189]; ovvero essendosi raggiunta, in questo modo, l'ultima possibilità di trasformazione della presenza quale "cosa" del pensiero [190].
In quanto accade all'oggetto si può riconoscere dunque il sintomo sia dell'avvento della cibernetica, sia del compimento della filosofia; ciò che traduce il semplice nesso cronologico in un legame di necessità; ovvero ciò che fa della fine della filosofia qualcosa di ambiguo: "Da un lato, essa significa il compimento di un pensiero, quello filosofico, a cui ciò che è presente si mostra nel suo carattere di impiegabilità. Dall'altro, proprio questa modalità della presenza racchiude in sé il rinvio alla potenza del porre provocante, la cui determinazione richiede un altro pensiero, un pensiero per il quale divenga degna d'essere interrogata la presenza in quanto tale. Essa infatti porta con sé ancora qualcosa di impensato che, nella sua peculiarità, si sottrae al pensiero filosofico" [191].
Su ciò che è la fine della filosofia è difficile pronunciarsi; quello che non si può negare è che essa libera (deve liberare) al pensiero nuove possibilità, nel senso, quanto meno, che è la filosofia stessa, a causa dei limiti che essa avverte in sé, a rinviare alla cibernetica, così come solitamente accade che nella impossibilità di procedere con le proprie forze ci si rimetta a qualcosa o a qualcuno.

§ 36.- La cibernetica dunque chiama in causa la filosofia storicamente; ciò che avviene avviene in un modo tale per cui la cibernetica assurge a "nuova scienza fondamentale" [192], sostituendosi alla filosofia.
L'espressione "nuova scienza fondamentale" suona come la convalida ed il completamento della critica della concezione strumentale e antropologica della tecnica. Essa indica: (1) l'annullamento quasi totale della diversità o distanza gerarchica fra la scienza e la tecnica, e di più il fatto che (2) l'essenza tecnica della scienza si libera della scienza sostituendosi al suo fondamento filosofico, ovvero alla filosofia del fondamento.
La tecnica prende il posto delle scienze, che hanno solo messo in crisi la filosofia, dalla quale pur sempre sono derivate (: "Esse possono certo negare la loro origine dalla filosofia, ma non possono assolutamente sbarazzarsene" [193]). Ciò accade nel momento (nel senso storico) in cui, avendo le scienze mostrato il loro limite sul piano ontologico ("[...] parlano pur sempre dell'essere dell'essente. Solo non lo dicono" [194]), "Il carattere operazionale e per modelli del pensiero rappresentativo e calcolante perviene al dominio", ovvero la tecnica impronta di sé la vita sociale e lavorativa ed organizzativa dell'uomo (: "scientificità della vita sociale dell'uomo" [195]).
La cibernetica in ciò (3) investe la filosofia, sia come modello di pensiero ("come pensiero ontologico, trascendentale e dialettico" [196]); sia per quelle che sono le sue relazioni con il linguaggio, con la storia, con la natura; sia per quella che è stata la sua funzione di controllo e di unificazione, nei confronti della realtà e delle scienze [197].
Avviene, sotto quest'ultimo profilo, che la cibernetica possa/debba rimpiazzare la filosofia essendo in grado di garantire quella "unitarietà" (con riferimento alle scienze ed alle arti; con inerenza in genere alla rappresentazione del reale) che la filosofia per secoli è stata in grado di garantire [198]: lo sviluppo sarà tale per cui le scienze - sia della natura sia dello spirito - "nel loro organizzarsi, ben presto saranno [da quella] determinate e pilotate" [199].
L'unità però così vede mutata la propria natura; essa, nel suo non poter essere data più dalla filosofia, non s'identifica con il fondamento ma è rigorosamente tecnica [200]. Essendosi ora tecnicizzate e potenziate funzione, possibilità e bisogno di controllo, essa è attuabile solamente in quella possibilità, traducibilità e controllo, che sono affidate in un modo tecnico, ed in questo determinante, alle macchine cibernetiche.
Tutto questo per dire, quanto meno, che la fine della filosofia, se non è identificabile in una dissoluzione, è la crisi del primato delle scienze in quanto proprio crisi del loro fondamento filosofico.
Ovvero: da una parte il "fondamento" è tenuto, dalla filosofia, distante dalla tecnica, dall'altra la crisi del fondamento non dà luogo ad un'automatica restaurazione della filosofia.
***

§ 37.- L'avvento della cibernetica ed in questo quel "qualcosa di impensato che […] si sottrae al pensiero filosofico", dunque, induce ad interrogarsi sul futuro compito del pensiero. Induce, meglio, a quello che Heidegger, nella conferenza sulla fine della filosofia, dice pensiero preparatorio.
Il pensiero preparatorio, nella breve descrizione resa dal filosofo, "né vuole, né può predire alcun avvenire", ma solo tentare di "dire al presente qualcosa che da molto tempo e proprio all'inizio della filosofia e tramite questo è stato già detto, ma non propriamente pensato" [201]. In ciò però esso è "nient'affatto fondante (stiftenden). Gli basta risvegliare una disponibilità dell'uomo per una possibilità, i cui tratti restano oscuri e il cui avvenire incerto" [202].
"Preparatorio" essenzialmente è il pensiero, il quale in un certo suo legame storico e di senso con la filosofia della tecnica, prepari la sua propria trasformazione [203]. La parola cioè si rivolge al pensiero stesso, ed indica la rideterminazione di ciò che lo riguarda: la cosa (Sache) in questione per il pensiero, al quale essa rivolge il suo appello; il platonico tò pr‹gma aétñ; ciò che nella prefazione hegeliana della Fenomenologia è il pensiero determinato storicamente - per quella anche che ne è la profonda traccia cartesiana -, come il soggetto, e cioè il "movimento del pensiero, il metodo"; in tal senso, nell'appello zur Sache selbst, l'accento cade sul selbst [204].
Tale "appello" si ripropone, cento anni dopo Hegel, ne La filosofia come scienza rigorosa di Husserl [205]. Anche qui riguardando, nonostante la chiusura ai fenomeni della coscienza intenzionale [206] e la critica dello "storicismo" - ovvero del metodo di ricerca partente dalle filosofie stesse -, il modo stesso di procedere della filosofia "tramite cui soltanto la cosa stessa perviene ad essere rigorosamente dimostrabile" [207].
Ovvero: il "principio di tutti i principi", che Husserl vuole stabilire e di cui si occupa nelle Idee per una fenomenologia pura e una fenomenologia filosofica, "contiene la tesi del primato del metodo"; "esige la soggettività assoluta come la cosa della filosofia"; ciò per cui la "soggettività trascendentale" "è presupposta già come la cosa della filosofia" [208].
Questa "indicazione di cammino", tracciata da Heidegger con riferimento al futuro compito del pensiero, vuole significare che se è vero che con Hegel e Husserl la filosofia moderna ha posto la questione della cosa in sé della filosofia, è vero anche che ha solo posto la questione, per lo più rimettendola alla sua stessa esposizione, al metodo e cioè alla soggettività.
Il primo passo da muovere, con riguardo al compito del pensiero, è dunque l'individuazione di che cosa resti d'impensato in quelle filosofie con riferimento alla cosa del pensiero. Ma se quel qualcosa è impensato lo è perché il pensarla non può essere cosa della filosofia [209].
O meglio: l'impensato per la filosofia, intesa in modo moderno-tradizionale, lo è a causa del suo essersi posta come metodo.
Ora invece, secondo Heidegger, la cosa del pensiero può determinarsi muovendo dalla considerazione della Lichtung: nel senso che non il metodo ma la Lichtung (la "Radura" dell'essere) è il terreno sul quale disporsi per poter poi rispondere all'appello zur Sache selbst. Di qui, ne La fine della filosofia, la sequenza delle pagine sulla Lichtung, definita fra l'altro come qualcosa di cui la filosofia non sa nulla [210]; di qui, necessariamente, le pagine sull'Žl®yeia.
Il pensiero preparatorio, per ciò che Heidegger ne dice, riconduce quindi nuovamente alle riflessioni caratteristiche della sua stessa filosofia; trova in tali riflessioni la sua esemplificazione. Il nodo da sciogliere, per il filosofo, sembra essere quello stesso della sua filosofia.
Ma questo limite si sa; Heidegger lo sa, se accenna (a proposito della Lichtung e dell'Žl®yeia) al sospetto che potrebbe solo trattarsi, rinviandosi ad esse, di una "mistica senza fondamento" [211]; e per questo forse si può ritenere che la risposta a che cosa sia, nei contenuti, il pensiero preparatorio è che esso è qualsiasi pensiero che rimediti l'evidenza per come l'essere si dà; mediti non secondo il "metodo", al quale la filosofia moderna sembra essersi legata mani e piedi.
Ma il problema è proprio questo: non limitarsi alla filosofia che semplicemente ripensi la filosofia, e dunque: la risposta può consistere forse nel saltare nel mondo della tecnica? Ma a sua volta questa sembra essere una risposta che si può solo dire e che è come sommersa dai dubbi.
Il pensiero preparatorio è tale, dunque, per cui abbiamo da una parte la tecnica, dall'altra la filosofia che s'interroga; che continuamente torna a sé; che comunque, interrogandosi laddove dovrebbe farsi luogo a risposta, esperisce, secondo la nota espressione di chiusura della Questione della tecnica, la pietas del pensiero.
Ciò avviene ad esempio, sempre con riferimento al futuro compito del pensiero, per ciò che riguarda la divisione fra razionale ed irrazionale. "La razionalizzazione tecnico-scientifica - scrive Heidegger - […] si giustifica certamente sorprendendo ogni giorno attraverso la sua effettività (Effekt), che noi riusciamo a malapena a prevedere nei suoi esiti. Ma quest'effettività non dice nulla di ciò che solo assicura la possibilità del razionale e dell'irrazionale. L'effettività prova l'esattezza del processo di razionalizzazione tecnico-scientifico. Ma la manifestatività (Offenbarkeit) possibile di ciò che è si esaurisce nel dimostrabile (Beweisbaren)? L'insistenza sul dimostrabile non sbarra il cammino verso ciò che è?./ Forse c'è un pensiero che è più sobrio dell'irrefrenabile dilagare della razionalizzazione e della furia sradicatrice (das Fortreissende) della cibernetica. Probabilmente è proprio questo furore l'estremo dell'irrazionale./ Forse c'è un pensiero che esula dalla distinzione tra razionale e irrazionale, più disincantato (niichterner) ancora della tecnica scientifica, più disincantato e perciò discosto (abseits), senza effettività e tuttavia avente una sua propria necessità. Se ora noi poniamo la questione del compito di questo pensiero, allora resta posto in questione non soltanto e innanzi tutto questo pensiero, ma anche la questione stessa che lo concerne. Riguardo a tutta la tradizione della filosofia questo significa:/ tutti noi abbiamo ancora bisogno di un'educazione al pensiero e, prima ancora di questo, di un sapere di ciò che nel pensiero significa educazione e non educazione" [212].

§ 38.- Viene a questo punto, per quanto detto, anche il sospetto che possa esservi qualcosa di preparatorio nel pensiero stesso di Heidegger. Che la tecnica faccia sì che sia proprio il suo pensiero in qualche modo, argomentando su ciò che possa essere preparatorio, e riconducendo a questo punto ai temi della Lichtung e della Žl®yeia, a potersi considerare come preparatorio. Preparatorio in fondo ne è un po' lo spirito.
Forse, dalla domanda su che cosa sia pensiero preparatorio, si può trascorrere così all'altra: sul carattere preparatorio del pensiero. Preparare, in questo, potrebbe significare ulteriormente preparare nel pensiero l'umanità al suo futuro nello stesso tempo in cui ci s'interroga sul futuro del pensiero.
Si può dire anche questo: che si addice forse alla filosofia quale filosofia dell'essenza il voler insegnare qualcosa, anche preconizzando, nel modo ritenuto giusto. Così sembra, a tratti, che i pensieri di Heidegger sulla tecnica moderna, quali pensieri riguardanti l'essenza, assumano la forma della profezia. Ciò lo si può ravvisare nel riconoscimento, o accettazione, della importanza che la macchina organizzata avrebbe avuta nel futuro dell'umanità (il figurarsi la cibernetica quale futura scienza fondamentale); o nell'allusione al senso del possibile quale si annida nella non-esplosione della bomba H.
Ma tutto questo lo si ha in un modo singolare, per cui non si tratta di vero e proprio presagio, ovvero il concetto può essere più o meno: "non vi è bisogno di alcuna profezia per riconoscere che …". Il che rimanda a virtù appartenenti al pensiero, inducendo e rimeditare su di esse.

§ 39.- Si può asserire anche questo: che il pensiero heideggeriano della tecnica, per ciò che in generale la filosofia è chiamata a fare, è orientato tematicamente al pre-sentimento. Si può ricollegare cioè l'apparente presagire del quale si è detto a quel "presentire l'essenziale" del quale si legge nei Concetti fondamentali.
La teoria heideggeriana del "presentimento", per come essa è illustrata nei Grundbegriffe, non mira a scalzare il pensiero col sentimento, ma invece ad esprimere una virtù specifica del pensiero, che va stimolata; questo almeno è quanto il filosofo dichiara, cercando forse di uscire dalla robusta cornice post-romantica.
Il "presentimento" è ricerca almeno tendenziale del "fondamento", o di un fondamento. Ovvero la ricerca, che abbia la stessa intensità di pensiero che la tradizione filosofica metteva nella ricerca della verità.
Nei Grundbegriffe il pensiero è invitato, a fronte dei molteplici concetti fondamentali che possono essere chiamati a caratterizzare le varie branche del sapere (: il concetto di "forza" le scienze naturali; quello di "cultura" la storiografia; quello di "legge" le scienze giuridiche; ecc.), a raggiungere il fondamento stesso, ad "instaurare un rapporto col fondamento" - anziché familiarizzare con dei concetti che sono "semplici involucri delle rappresentazioni" [213].
"Se qui si parla di presentire - scrive il filosofo -, non è per sostituire al posto del concetto e del suo rigore un sentimento oscillante tra stati d'animo casuali. Il termine "presentire" [Ahnen] ci deve indicare una direzione, ci deve far meditare sul fatto che ciò che qui deve essere portato al sapere non può venire stabilito arbitrariamente dall'uomo. Presentire significa afferrare ciò che viene verso di noi, la cui venuta incombe da così lungo tempo, che noi ormai non la percepiamo più; e in verità non la percepiamo più proprio perché il nostro atteggiamento verso il sapere rimane nel suo complesso confuso, non conosce le più semplici distinzioni e l'importanza di quelle già note, oppure non le tiene in alcun conto. Il pensiero che presentisce e che si pone al servizio del presentire è essenzialmente più rigoroso ed esigente di ogni formale acutezza concettuale applicata a qualunque settore della realtà calcolabile" [214].
"Presentire l'essenziale" non significa dunque scalzare il pensiero mediante il sentimento, ma mutare l'atteggiamento verso il sapere, tentando di liberare il pensiero dal suo modo cosiddetto "calcolante".
Il "presentire", per ciò: che esso consiste nell'afferrare ciò che viene verso di noi, può dare una spiegazione su una certa quale attitudine hedeggeriana al presagire; che non è un presagire ma un voler portare il pensiero nel futuro, come l'essenza che viene a noi. In questo essa può confermare anche l'interpretazione, che veda nel concetto di Ereignis la protensione del Concetto stesso al futuro [215].

§ 40.- Al presentire può ricongiungersi un vigilare. Il pensiero della essenza della tecnica, che giunga a pensare in questo la sua propria trasformazione, è quello stesso che indirizza il pensiero a vigilare, ed in tal senso a prepararsi, pensando, a qualcosa.
Idea, questa, di una vigilanza (quale viene in chiaro in Gelassenheit), mirante anch'essa a sganciare dal pensiero calcolante contrapponendogli il "meditante". Idea che non è quella dell'uomo dell'umanismo, il quale sa che pur avendola persa ripristinerà la propria essenza: l'uomo della essenza alienata ma riappropriabile, dell'umanismo socialista.
Il vigilare non è così il consueto vigilare, ma esso reca in sé una qualche accettazione ed una preparazione: a qualcosa che sta già venendo, qualcosa come può esserlo la morte, il cui pensiero bisogna elaborare (come avviene nell'analisi della idea e fenomeno del tempo), prima ancora che negare o allontanare.
Si può dire allora anche questo: ci si trova, a voler collezionare brani come quelli sulla cibernetica, a constatare la verità che l'interesse filosofico di Heidegger per ciò che è "tecnica", per la tecnologia, per le scienze (l'averle prese sul serio), non solo si manifesta in quella che può dirsi la giusta meditazione di un filosofo sui grandi temi posti dal progresso scientifico e tecnico; ma nel fatto: che la tecnica moderna è pensata dal punto di vista dell'esistenza; che è la filosofia dell'esistenza, quale proprio elaborata nel primo Heidegger, quello del Concetto di tempo o di Essere e tempo, quello cioè della riflessione sulla temporalità che si presenta come un che di costitutivo per l'esserci, a permanere, sino a condizionarne l'indirizzo, nella filosofia della tecnica.
Forse non molto è mai cambiato, rispetto a quei primi scritti, o forse comunque non è cambiato ciò che non doveva cambiare, come è mostrato, anche, dalla presenza costante, nel pensiero heideggeriano della tecnica, dell'idea di una salvazione.
Ovvero dal fatto che in questo senso essenza della tecnica e verità siano inscindibili, per cui: "la tecnica dispiega il suo essere laddove accade l'Žl®yeia, la verità", o per cui, ancora: "Vero è ciò che corrisponde all'essenza della tecnica" [216].
È qui che si pone il problema della essenza della tecnica; qui si pone anche ciò che il pensiero preparatorio non può dire. Quella essenza non s'identifica col pensiero calcolante, che della tecnica ha accompagnato il moderno sviluppo; ma ad un certo punto non si sa se della medesima non identificabilità si possa dire con riguardo a quella "impronta tecnico-scientifico-industriaIe" che si può riconoscere nella "civilizzazione mondiale".
Muovendo dalla considerazione del futuro compito del pensiero, legato al poter/dover non essere né metafisica né scienza, ovvero dalla convinzione che la filosofia "non sarebbe stata all'altezza della cosa del pensiero" [217], Heidegger scrive: "Non parla qui una presunzione che vorrebbe porsi ancora al di sopra della grandezza dei pensatori della filosofia? Questo sospetto si impone. Ma è facile da eliminare. Giacché ogni tentativo di gettare uno sguardo nel presunto compito del pensiero si vede non solo rimandato alla considerazione retrospettiva di tutta la storia della filosofia, ma persino posto nella necessità di pensare anzitutto la storicità di ciò che procura alla filosofia la possibilità di una storia./ Già per questo il supposto pensiero resta necessariamente di molto indietro alla grandezza dei filosofi. Esso è ben da meno della filosofia. Da meno, anche perché a questo pensiero, più decisamente ancora che alla filosofia, non può venir riconosciuta alcuna azione tanto immediata quanto mediata sulla dimensione pubblica (Öffentlichkeit) - improntata dalla scienza-tecnica - dell'epoca industriale. […] Impegnarsi in ciò che resta preservato e riservato per il pensiero - ecco ciò che il pensiero deve anzitutto imparare. In questo imparare esso prepara la sua propria trasformazione (Wandlung). Qui si pensa alla possibilità che la civilizzazione mondiale (Weltzivilisation) che ora è solo agli inizi superi un giorno la sua impronta tecnico-scientifico-industriale come la sola misura per il soggiorno dell'uomo nel mondo, - certo non da sé e per sé sola, ma a partire dalla disponibilità dell'uomo per una destinazione (Bestimmung) il cui appello in ogni tempo, ascoltato o no, si fa parola nel destino non ancora deciso dell'uomo. Resta egualmente incerto se la civilizzazione mondiale (Weltzivilisation) sarà presto repentinamente distrutta o se essa si consoliderà in un lungo durare, che non trova riposo in qualcosa di durevole, un durare che si organizza piuttosto nel cambiamento continuo dove il più nuovo succede sempre al nuovo" [218].


* "Rielaborazione di quanto già pubblicato in "Nuovi studi politici", luglio-dicembre 1993 e nel volume L'anima e la macchina, Milano 1999 (pp. 207 e ss.).
[1] A proposito di tale ambivalenza rispetto alla tecnica Hans Gadamer - al quale il giudizio va riferito - ha sottolineato il contrasto tra la critica da parte di Heidegger della civiltà quale civiltà volta alla tecnica ed "il suo compito", che gl'imponeva di "pensare la coappartenenza di autenticità e inautenticità, di essenza e inessenzialità, verità ed errore" (H. G. GADAMER, I 75 anni di Heidegger - trad. it. in ID., I sentieri di Heidegger -, Genova 1988, p. 14).
È stato fatto notare, altrimenti, come (nel pensiero di Heidegger) la nozione di tecnologia, in senso moderno, riveli la natura ambigua della verità, in ordine proprio al principio heideggeriano per cui il disvelarsi racchiude il nascondersi (R. Ph. BUCKLEY, Rationality and Responsibility in Heidegger's and Husserl's View of Technology, Montreal 1997). Secondo questo autore, alla radice del pensiero heideggeriano sulla tecnica si pone la distinzione (illustrata ne L'abbandono) fra pensiero calcolante e pensiero meditante.
[2] Non è agevole - bisogna sottolineare - separare in Heidegger il pensiero dalla paura; è quasi impossibile separarlo dalla morte, per i presupposti che esso esprime in opere fondamentali come Sein und Zeit.
[3] HEIDEGGER, La questione della tecnica [1953] - trad. it. in ID., Saggi e discorsi (a cura di G. Vattimo) -, Milano 1991, p. 16.
[4] Ivi, p. 17.
[5] HEIDEGGER, L'origine dell'opera d'arte [1935] - trad. it. in ID., Sentieri interrotti (a cura di P. Chiodi) -, Firenze 1997, p. 60. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[6] C. ANGELINO, Il Religioso nel pensiero di Martin Heidegger: Introduz. a HEIDEGGER, L'abbandono - trad. it. a cura di A. Fabris -, Milano 1983.
[7] Cfr. HEIDEGGER, Oltrepassamento della metafisica, X - trad. it. in Saggi e discorsi -, p. 52.
[8] HEIDEGGER, Tempo ed essere - trad. it. a cura di E. Mazzarella -, Napoli 1988, p. 119.
[9] Cfr. ad es. E. GRASSI, Heidegger e il problema dell'umanesimo, Napoli 1985; il quale, ricostruttivamente in senso storico, ha colto nell'attenzione rivolta da Heidegger al linguaggio ed alla parola poetica la tradizione del vero umanesimo: sarebbero cioè quegli aspetti del pensiero di Heidegger apparentemente più antiumanistici ad accostare sorprendentemente il filosofo tedesco alla tradizione umanistica italiana: dei Pontano, dei Salutati, ecc. (ivi, p. 22).
In un senso favorevole all'umanismo di Heidegger sembrano volgere anche l'interpretazione di J. DERRIDA (Fini dell'uomo - trad. it. in ID., Margini della filosofia -, Torino 1997, pp. 170 e ss.) e di W. FRANZEN (Ripensamenti. Breve esame a distanza della filosofia heideggeriana - trad. it. in AA.VV., Heidegger e la metafisica - a cura di M. Ruggenini -, Genova 1991, pp. 156 e ss. ).
Il cenno al "magnetismo" del "proprio dell'uomo" è tratto da DERRIDA, Fini dell'uomo, p. 171.
[10] Un rilancio, ed una riscoperta della sua attualità, si sono avuti in questi anni, in opere di cultura anglosassone come Heidegger's Confrontation with Modernity: Technology, Politics, Art, di M. ZIMMERMANN, Indianapolis 1990; RUATV? Heidegger and the Televisual, di A. KROKER (a cura di Th. Fry), Sydney 1993 (scritto in cui alla metafisica heideggeriana si ricorre per esplorare la televisione ed il medium cibernetico); Heidegger and Virtual Reality: The Implications of Heidegger's Thinking for Computer Representations, di R. COYNE ("Leonardo: Journal of the International Society for the Arts, Sciences, and Technology"), ed altre, che saranno qui via via citate.
[11] La svolta, p. 11.
[12] Cfr. A. FEENBERG, From Essentialism to Constructivism: Philosophy of Tecnology at the Crossroads, 6 (consultabile in Web presso l'indirizzo http://www-rohan.sdsu.edu/faculty/Feenberg/talk4.html
In questo scritto la filosofia heideggeriana della tecnica viene classificata come essenzialismo perché in essa vi sarebbe (a detta dell'autore) la contrapposizione fra essenza e storia (ivi).
Il che, detto in altri termini, significa introdurre la, invitare alla, comprensione "tecnologica" dell'essere: H. L. DREYFUS, Highway Bridges and Feasts: Heidegger and Borgmann on How to Affirm Technology, Cambridge Mass. 1997 (: I. The Essence of Technology).
[13] Aspetto ricordato da M. HEIM, filosofo cosiddetto "del Cyberspace", autore di opere come Electric Language (Yale 1987), The Metaphisics of Virtual Reality (Oxford 1993), The Doors of Perception (conferenza del 1993), Virtual Realism (Oxford 1998).
[14] Torna utile a questo riguardo accostare la nomenclatura derridiana (Fini dell'uomo) con quella simmeliana dell'uomo come fine - in contrapposizione al mezzo, alla società "dei mezzi" ed in ciò in primis del danaro - quale si ha in G. SIMMEL, Il dominio della tecnica - trad. it. in AA.VV., Tecnica e cultura (a cura di T. Maldonado) -, Milano 1987.
[15] Cfr. E. MAZZARELLA, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Napoli 1981, p. 44.
[16] Ad esempio: "L'affermazione che ogni pensiero in quanto pensiero è oggettivante, è senza fondamento. Essa si basa su una disattenzione per i fenomeni e tradisce una mancanza di coscienza critica" (HEIDEGGER, Fenomenologia e teologia - trad. it. in Segnavia (a cura di F. Volpi) -, Milano 1987, p. 30).
[17] Ivi, pp. 28 e ss.
[18] È interessante, guardando al concetto di fésiû, il nesso di alleanza colto da Gadamer tra l'ARISTOTELE della Fisica e della Etica Nicomachea ed il pensiero di Heidegger. Tale nesso, secondo l'illustre autore, aiuta a comprendere anche il rapporto critico di Heidegger verso Platone e verso i pitagorici (H.G. GADAMER, Platone - trad. it. ne I sentieri di Heidegger -, p. 72; ID., Il linguaggio della metafisica - trad. it. nella medesima raccolta -, p. 61).
[19] HEIDEGGER, Essere e tempo - trad. it. a cura di P. Chiodi -, Milano 1976, p. 496.
[20] HEIDEGGER, Sull'essenza del concetto della fései - Aristotele, Fisica 13 1 - trad. it. in Segnavia -, p. 238.
Sul concetto di t¡loû si veda anche La questione della tecnica, pp. 7 e s.
[21] Ciò a cui corrisponde l'indebolimento della categoria interpretativa del tempo (del quale siamo usi fare oggetto diretto del pensiero senza interrogarci su di esso) a vantaggio dello spazio; ed in cui si crea una nuova tensione nel pensiero che pensa.
[22] In generale e volendo riassumere subito la cosa: secondo la ricostruzione fattane dalla ermeneutica filosofica (essenzialmente da H. Gadamer) sarebbe stato l'illuminismo, nel suo avere data autonomia alla estetica, a preparare il terreno acché l'opera d'arte si mostrasse in quanto opera, ed affinché ogni opera, ogni mezzo, fosse tale da racchiudere in sé non una sua verità, ma la verità. Non una verità cioè separata da altre verità, ma una verità che è la stessa di o quanto meno che ha che fare con le, altre. E sarebbe stato, sempre secondo quella lezione, Heidegger a riprendere e trarre quelle conclusioni, non solo attraverso i suoi scritti sull'opera d'arte, ma anche in quelli sulla tecnica.
Il guadagno procurato da Heidegger quindi consisterebbe essenzialmente nell'avere abbattuto le barriere separatorie che l'umanismo aveva erette: fra ciò che è umano e ciò che tale non è; fra l'opera ed il suo autore; fra il mezzo tecnico e la verità dell'uomo. In una parola: Heidegger avrebbe abbattuto la grande barriera fra il sensibile e l'intellegibile.
Negli anni sessanta nasceva la lezione di McLuhan, nella quale tutto veniva ripensato - la storia veniva suddivisa e ridenominata - alla luce del medium.
Ma, più o meno contemporaneamente, veniva introdotta, nella conferenza heideggeriana del 1962 su Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico (v. infra), la distinzione, nell'ambito dell'età industriale, fra una prima ed una seconda rivoluzione tecnica.
[23] L'origine dell'opera d'arte, pp. 14 e s.
[24] GADAMER, Il linguaggio della metafisica, p. 72.
[25] L'origine dell'opera d'arte, p. 21.
[26] Ivi, alle pp. 18, 19 e 20.
[27] Ivi, p. 20.
[28] HEIDEGGER, Il concetto di tempo - trad. it. a cura di F. Volpi -, Milano 1998, p. 44.
[29] Essere e tempo, p. 494.
[30] Il concetto di tempo, p. 44.
[31]d HEIDEGGER, Concetti fondamentali - trad. it. a cura di F. Camera -, Genova 1989, p. 140.
[32] Tempo ed essere, p. 113.
[33] Essere e tempo, pp. 492 e ss. (: § 80).
[34] Tempo ed essere, p. 114.
[35] Ivi.
[36] L'abbandono, p. 39.
[37] Ivi.
[38] HEIDEGGER, Scienza e meditazione - trad. it. in Saggi e discorsi -, p. 39.
[39] HEIDEGGER, La svolta [Die Kehre: 1949], trad. it. a cura di M. Ferraris -, Genova 1990, p. 11.
[40] HEIDEGGER, La cosa - trad. it. in Saggi e discorsi -, p. 118 (cfr. anche la p. 109). Ma si veda, su questo punto, la prospettiva del "dis-allontanamento", tracciata in Sein und Zeit (pp. 137 e ss.).
[41] L'abbandono, p. 36.
[42] La cosa, p. 110.
[43] HEIDEGGER, Seminari - trad. it. di M. Bonola (a cura di F. Volpi) -, Milano 1992, pp. 106 e ss. Il seminario è quello di Le Thor del 1969.
[44] HEIDEGGER, Lettera sull'"umanismo" - trad. it. a cura di F. Volpi -, Milano 1995, p. 70.
[45] La questione della tecnica, pp. 6 e ss.
Per la teoria delle quattro cause (materialis, formalis, finalis, efficiens) - risalente ad Aristotele - si possono anche rileggere i passi di BACONE: Novum Organum, II, cap. II.
[46] La questione della tecnica, pp. 5 e ss.
[47] HEIDEGGER, Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico [1962] - trad. it. (a cura di C. Esposito) -, Pisa 1997, p. 35.
[48] Ivi.
[49] Ivi, p. 34.
[50] Ivi, p. 35.
[51] La questione della tecnica, p. 17.
Cfr. anche, sempre con riferimento alla tecnica meccanica, il cenno contenuto in una conferenza del 1938: "Una delle manifestazioni essenziali del Mondo Moderno è la scienza moderna. Una manifestazione di egual peso è la tecnica meccanica. Non si cada però nell'errore di intendere quest'ultima come la semplice applicazione alla prassi della moderna scienza matematica della natura. La tecnica meccanica è essa stessa una trasformazione autonoma della prassi, tale da importare prima di tutto l'impiego della scienza matematica della natura. La tecnica meccanica è il primo frutto dell'essenza della tecnica moderna, che fa tutt'uno con l'essenza della metafisica moderna" (HEIDEGGER, L'epoca dell'immagine del mondo - trad. it. in Sentieri interrotti -, p. 72).
[52] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 41.
[53] Ivi, pp. 41 e s.
[54] Ivi, p. 42.
[55] Ivi.
[56] Ivi.
[57] Ivi, p. 40.
[58] Ivi, p. 43. Le parole fra parentesi quadre sono mie. Cfr. anche La questione della tecnica, p. 10.
[59] HEIDEGGER, Filosofia e cibernetica - trad. it a cura di A. Fabris -, Pisa 1988, p. 32.
[60] La questione della tecnica, p. 6.
[61] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 36.
Per la critica in generale della concezione antropologico-strumentale della tecnica in questa conferenza si vedano le pp. 34 e ss.
[62] La questione della tecnica, p. 6.
[63] Ivi.
[64] BACONE, Novum Organum, I, cap. LXXXIV.
[65] Concetti fondamentali, p. 28.
[66] G. SIMMEL, Il dominio della tecnica, p. 38.
[67] Così, nel dibattito sulla tecnologia elettronica della comunicazione, viene ripresentata la distinzione (A. FEENBERG, in Critical Theory of Technology: 1991) fra teoria "strumentale" e teoria "sostanziale" (essendo la sostanza, per una definizione tradizionale, ciò su cui si basa l'essenza). Secondo Feenberg, Heidegger, al pari di Ellul - per avere questi proclamata l'autonomia della tecnica -, sarebbe da includere fra i "sostanzialisti".
[68] Epoca venuta a definirsi, in questi ultimi anni, nel passaggio dalla cosiddetta Modern Hard Technology alla Postmodern Soft Technology, secondo la distinzione tracciata di recente da A. BORGMANN (Crossing the Postmodern Devide, Chicago 1992).
[69] Tempo ed essere, p. 116.
[70] Cfr. Lettera sull'"umanismo", pp. 70 e s.
[71] ERACLITO, frg. n. 123: cfr. HEIDEGGER, Alétheia - trad. it. in Saggi e discorsi - pp. 184 e ss. Cfr. anche i Seminari, alla p. 111.
[72] La questione della tecnica, p. 10.
[73] Ivi, p. 9.
[74] Ivi, p. 10.
[75] Ivi.
[76] Tempo ed essere, p. 107.
[77] Lettera sull'"umanismo", pp. 70 e s. La messa in corsivo è mia.
L'accostamento del materialismo storico alla essenza della tecnica, denotativo forse della cultura di una Nazione, giunta a certi livelli di sviluppo tecnologico, ha un suo corrispettivo, interessante, nella filosofia della tecnica tedesca degli anni venti, per la quale la "interpretazione tecnologica della storia ", secondo cui "tutta la storia dell'umanità, e quindi tutta l'evoluzione della cultura, non sarebbe stata altro […] che una funzione della tecnica", "ha trovato la sua interpretazione classica nella concezione materialistica della storia" (cfr. W. SOMBART, Tecnica e cultura - trad. it. in AA.VV., Tecnica e cultura -, pp. 146 e s.).
[78] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, rispettivamente alle pp. 38 e 39.
[79] La questione della tecnica, p. 10. Cfr. anche L'origine dell'opera d'arte, p. 44.
[80] La questione della tecnica, p. 10.
[81] Ivi, p. 9.
Sulla differenza, posta da Aristotele, fra i "fései önta" ed i "t¡xnh önta" cfr. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro - trad. it. in Sentieri interrotti -, pp. 301 e s.
[82] Il riferimento è al Simposio di Platone (205 b): La questione della tecnica, p. 9.
[83] PLATONE, Simposio 219 b-c; brani evidenziati nel saggio di E. SEVERINO, La terra e l'essenza dell'uomo, in ID., Essenza del nichilismo, Milano 1995, pp. 196 e s. (e cit. in U. GALIMBERTI, Psiche e techne - L'uomo nell'età della tecnica, Milano 1999, p. 347, nt. 6) in quanto lì già si mostrerebbe, secondo l'illustre autore, il nichilismo (metafisico) che caratterizza/accompagna la storia dell'occidente.
[84] La questione della tecnica, p. 9.
[85] Ivi.
[86] Cfr. le considerazioni svolte da HEIDEGGER ne La questione dell'essere - trad. it. in Segnavia -, alle pp. 347 e ss. Si veda ad esempio la p. 348, nella quale fra l'altro si legge: "Qual è la determinazione dell'essenza della tecnica che ne risulta? È "il simbolo della forma del lavoratore" […]. La tecnica, "in quanto mobilitazione del mondo attraverso la forma del lavoratore" […], si fonda evidentemente sul rovesciamento della trascendenza nella rescendenza della forma del lavoratore, per cui la presenza di questa forma si dispiega nella rappresentazione della sua potenza".
Si vedano, anche, i Concetti fondamentali, alle pp. 48 e ss.
[87] La questione della tecnica, p. 11.
[88] Ivi.
[89] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 45.
[90]La questione della tecnica, p. 11.
[91] Ivi, p. 12.
[92] Ivi, p. 11.
[93] Ivi.
[94] Concetti fondamentali, p. 18.
[95] La questione della tecnica, p. 11.
[96] Ivi, pp. 11 e s.
[97] L'abbandono, p. 34.
[98] Ivi, p. 35.
[99] Lettera sull'"umanismo" , p. 70.
[100] Filosofia e cibernetica, p. 36.
[101] Ivi, pp. 35 e s.
[102] Ivi, p. 36.
Interessante è tracciare un legame fra impiegabilità e consumabilità, impiego e consumo, migrando - anche - sul terreno della teoria sociale.
[103] Seminari, p. 141.
[104] Ivi.
[105] Cfr. i Seminari, alle pp. 140 e s.
[106] La questione della tecnica, p. 13.
[107] Ivi.
[108] Lettera sull'"umanismo", p. 73.
[109] Filosofia e cibernetica, p. 39.
[110] Ivi, p. 35.
[111] Scienza e meditazione, p. 38.
[112] La questione della tecnica, p. 17.
[113] Ivi, p. 13.
[114] Ivi.
[115] Ivi.
[116] Filosofia e cibernetica, p. 39.
[117] L'abbandono, p. 35.
[118] Ivi, rispettivamente alle pp. 35 e 34.
[119] Ivi, p. 34.
[120] Th. HOBBES, Leviatano, cap. V: "La ragione e la scienza" (trad. it., Bari 1989, p. 35).
[121] L'abbandono, p. 34. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[122] La questione della tecnica, p. 11.
[123] Cfr. GALIMBERTI, Psiche e techne, pp. 350 e s.
[124] La questione della tecnica, p. 12. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[125] Scienza e meditazione, p. 38. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[126] Ivi, p. 37.
[127] Tempo ed essere, p. 115.
[128] GALIMBERTI, Psiche e techne, p. 348.
[129] La tecnica di costruzione dei primi calcolatori meccanici risale agli orologiai (cfr. V. PRATT, Macchine pensanti - L'evoluzione dell'intelligenza artificiale - trad. it. -, Bologna 1990, p. 61).
[130] Si pensi all'importanza, nella cultura anglosassone, dei mulini a vento quali (prototipi di) macchine.
[131] La questione della tecnica, pp. 12 e s.
[132] Ivi, p. 12.
[133] Cfr. Filosofia e cibernetica, p. 32.
[134] Nei Seminari si legge: "Il marxismo e la sociologia definiscono "coercizioni" (Zwänge) ciò a cui la realtà odierna costringe. / Heidegger ne definisce l'insieme nella parola impianto (Ge-stell). L'impianto è la raccolta, l'insieme di tutte le modalità del porre, che si impongono all'essere umano nella misura in cui quest'ultimo e-siste oggi. Così l'impianto non è in alcun modo il prodotto della macchinazione umana: è, al contrario, la figura estrema della storia della metafisica, cioè del destino dell'essere" (p. 165).
[135] Cfr. La questione della tecnica, p. 5.
[136] G. VATTIMO, Al di là del soggetto, Milano 1990, p. 66; ID., La fine della modernità, Milano 1985, p. 48.
Nella cultura francese, il termine Ge-stell è stato reso (da A. Préau) con arraisonnement.
[137] La questione della tecnica, p. 17. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[138] Ivi, p. 22.
[139] Ivi, p. 23.
[140] Ivi, p. 17.
[141] Ivi, p. 19.
[142] VATTIMO, La fine della modernità, p. 34
[143] La questione della tecnica, p. 15.
[144] Ivi, pp. 21; 23.
[145] Lettera sull' "umanismo", p. 56.
[146] La questione della tecnica, p. 23.
[147] Ivi, p. 10. Il "fabbricare" ha in sé un senso pur sempre soggettivo ed artigianale.
[148] Ivi, p. 15.
[149] Ivi, p. 20.
[150] Ivi, p. 21.
[151] Ivi.
[152] Ivi, p. 21. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[153] Ivi, p. 20.
[154] Ivi, p. 21. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[155] Nello scritto di H. L. DREYFUS (Highway Bridges and Feasts, cit.), al quale si può attingere, con riferimento al brano sulla centrale sul Reno, l'impressione di una fede presumibile di Heidegger nei confronti della elettricità, viene colta, tale fede, come il limite interpretativo heideggeriano nei riguardi della tecnica. Come dire, per stare allo schema fornito da Borgmann, che Heidegger apparterrebbe ancora al mondo della Hard Modern Technolology e non a quello della Soft Postmodern Technology. Subentra quindi, mentre viene fornita una indicazione concreta sulla filosofia della tecnica di Heidegger, il concetto di limite, connaturato con la elettricità in quanto tale, in quanto mero prodotto o come risolventesi in sé.
(Di Dreyfus possono essere ricordati in generale gli studi sul pensiero occidentale: Husserl, Intentionality, and Cognitive Science, Cambridge Mass. 1982; Beeing-in-the-World: a Commentary on Heidegger's Beeing and Time, Cambridge Mass. 1991).
[156] Così DREYFUS, Highway Bridges and Feasts.
[157] L'abbandono, p. 35.
[158] Ivi.
[159] Così FEENBERG, From Essentialism to Constructivism, cit.
[160] Le espressioni "èra elettrica" ed "èra elettronica" sono mutuate direttamente dall'uso fattone da M. MCLUHAN. Vi è ad esempio un brano significativo del suo Gli strumenti del comunicare, trad. it. - a cura di E. Capriolo - di Understanding Media (Milano 1995), che dice: "Il termine "comunicazione" è stato ampiamente usato con riferimento alle strade, ai ponti, alle rotte navali, ai fiumi e ai canali, prima di trasformarsi con l'era elettronica in "movimento d'informazione". Forse non c'è modo più adatto a definire il carattere dell'era elettrica che lo studiare prima l'idea del trasporto come comunicazione, poi il passaggio all'idea d'informazione mediante l'elettricità" (p. 99). Sotto questo profilo si vedano anche, della medesima opera, le pp. 68 e 120.
[161] Cfr. Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 49.
[162] Per tutti, per averne riassunto il pensiero, v. MCLUHAN, La galassia Gutenberg. Nascita dell'uomo tipografico - trad. it. -, Roma 1995.
[163] Che viene poi seguita ad esempio da quella cosiddetta della Intelligenza Artificiale, per cui pur conservandosi il senso dell'avvio di un'epoca, ciò che la prima non è riuscita a fare, può essere tentato dalla seconda.
[164] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 33.
[165] Ivi, p. 52.
[166] HEIDEGGER, Hölderlin e l'essenza della poesia [1936] - trad. it. in ID., La poesia di Hölderlin (a cura di L. Amoroso) -, Milano 1988, p. 47.
[167] Lettera sull'"umanismo", pp. 31; 60 e s.
[168] HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio - trad. it. a cura di A. Caracciolo -, Milano 1973, p. 132.
[169] HEIDEGGER, La fine della filosofia e il compito del pensiero - trad. it. in Tempo ed essere -, p. 172.
[170] Filosofia e cibernetica, p. 33.
[171] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 54. Il brano è tratto da Mensch und Menschmachine di N. WIENER.
[172] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 52.
[173] Ivi, pp. 49 e 50.
[174] Ivi, pp. 50 e s.
[175] Ivi, p. 52.
[176] Ivi, p. 49.
[177] Ivi, pp. 51 e s.
[178] Ivi, p. 54.
[179] Ivi, p. 53.
La frase è tratta da N. WIENER, Mensch und Menschmachine (p. 63 [trad. it.: Introduzione alla cibernetica, Torino 1966, p. 84]). Colui che è stato tra i padri fondatori della cibernetica così chiarisce immediatamente il principio: "Nella sua forma più semplice, il principio della retroazione significa che il comportamento viene periodicamente confrontato con il risultato da conseguire, e che il successo o il fallimento di questo risultato modifica il comportamento futuro" (ivi).
[180] Filosofia e cibernetica, p. 32.
[181] Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, p. 52.
[182] Filosofia e cibernetica, p. 34.
[183] La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 171.
[184] HEIDEGGER, Ormai solo un Dio ci può salvare (Intervista con lo Spiegel) - trad. it. a cura di A. Marini -, Parma 1987, p. 142.
[185] La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 171.
[186] Filosofia e cibernetica, pp. 31; 33. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
Cfr. anche La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 171 e Ormai solo un Dio ci può salvare, p. 140.
[187] Filosofia e cibernetica, pp. 35 e s.
[188] Ivi, p. 35.
[189] Ivi, p. 37.
[190] Ivi.
[191]Ivi, p. 40.
[192] La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 172.
[193] Ivi, p. 173.
[194] Ivi.
[195] Ivi, p. 172.
[196] Filosofia e cibernetica, p. 39.
[197] Io penso qui al modello dialettico-enciclopedico per quello che è il senso della sua trasformazione nel passaggio dall'illuminismo francese al romanticismo ed idealismo tedeschi.
[198] Filosofia e cibernetica, p. 37.
[199] La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 172. Le parole fra parentesi quadre sono mie.
[200] Filosofia e cibernetica Ivi, p. 32.
[201] La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 174.
[202] Ivi.
[203] Ivi.
[204] Ivi, pp. 175 e s.
[205] Ivi, p. 176.
[206] Ivi, p. 176.
[207] Ivi, p. 177.
[208] Ivi.
[209] Ivi, p. 178.
[210] Ivi, p. 180.
[211] Ivi, p. 186.
[212] Ivi, pp. 186 e s.
[213] Concetti fondamentali, p. 22.
[214] Ivi, p. 23. Il corsivo è mio.
[215] In questo, attenendosi al valore dell'esistenza, ci si può riallacciare al pensiero dello Ereignis, considerando il fatto che l'evento (dell'essere), l'Ereignis (des Seins), è - come è stato notato - concetto proteso nel futuro, è la protensione stessa del pensiero nel futuro (MAZZARELLA, Tecnica e metafisica, pp. 37 e s.); di modo che il pensiero non è il semplice pensiero, ma il pensiero che è già avvolto nel "da-pensare", ovvero che la tecnica non è il semplice oggetto della conoscenza, ma (anche) è un futuro che si avvicina come ad-venire, recando in sé l'essenza.
[216] La questione dell'essere, p. 348.
[217] La fine della filosofia e il compito del pensiero, p. 173.
[218] Ivi, p. 174.


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