CAPITOLO 13
(Aspetti particolari del dualismo antropico reale).

 

 

                           

13.1) L’avventura dell’esistenza (Vivere ed esperire).

 

    Perché abbiamo titolato “avventura” questo paragrafo, quando molto più semplicemente avremmo potuto continuare a parlare di “vita”, evitando così una superflua enfatizzazione? Ci sono almeno due buone ragioni per usare questo termine, la prima delle quali è che al termine “vita” sarà bene riservare quel significato biologico generale che riguarda il fenomeno nella sua universalità, la seconda è che la nostra esistenza coincide con lo stato vitale del corpo che ci supporta, ma non è caratterizzata soltanto da esso. Infatti, ciò che caratterizza l’esistenza, a nostro parere, non è tanto il “sussistere” in vita per un certo numero di anni, ma è la sequela dai fatti e delle esperienze che si snocciolano nelle più varie forme, i quali, negli effetti più significativi (quelli che marcano e determinano la nostra persona nella sua singolarità), assumono poi sempre il carattere di venture o di disavventure. Tuttavia, anche se la nostra esistenza è un’avventura, non necessariamente essa deve essere anche “avventurosa” nel senso corrente del termine, poiché non sono gli elementi esteriori (potremmo dire anche “cinetici”) che la determinano, ma le indescrivibili emozioni interiori che vengono esperite. Per qualcuno ascoltare la “Passione secondo S.Matteo” di Bach seduto in poltrona può produrre maggiori emozioni di un periglioso viaggio nella giungla tra animali feroci e rischi d’ogni genere .

    Noi infatti abbiamo voluto introdurre il concetto di “qualità esperienziale” per cercare di comprendere meglio che cosa sia veramente o “possa essere” la nostra esistenza, andando oltre quel concetto di quantità temporale a cui molto spesso si fa riferimento come valore assoluto. Come ognuno ben sa nel suo intimo, non è certo il numero degli anni vissuti che conta per il giudizio che possiamo dare della nostra vita, ma semmai il bilancio che ognuno di noi, nel profondo della sua coscienza, può fare delle esperienze avute e delle modalità con cui si sono presentate. Non è affatto detto che un’esistenza molto movimentata possa sempre fornire una ricchezza esperienziale maggiore rispetto ad una vita più tranquilla e sedentaria, poiché la “qualità” della vita sta nelle emozioni individuali del soggetto e non in astratte denotazioni oggettive più o meno spettacolarizzabili. Semmai alla base dell’esperienzialità vi è la libertà possibile o teorica (che a rigore dovremmo chiamare eleuteria) colla quale noi (vivendo) ci confrontiamo, ciò avviene attraverso la gestione del nostro corpo e della nostra sensibilità in riferimento al “mondo” esperienziale che ci concerne,  nella quotidianità e nell’ordinarietà come nella straordinarietà e nella casualità.

Se noi “viviamo”, ciò  significa che nella infinitesima parte della materia che noi rappresentiamo la vita continua e si realizza, ma non è ancora detto che per il fatto di “vivere” noi possiamo dire di avere un’esistenza “individualmente” autentica e completa. “Esistere” per un’individualità non significa un vivere generico, ma la realizzazione della sua specificità e irripetibilità. Sul significato di individualità in quanto specificità e irripetibilità è possibile una pluralità di opinioni, ma in ogni caso penso che tutti possiamo concordare sul fatto che la consapevolezza delle nostre “possibilità” esistenziali, così illimitate e differenziate, non può rimanere priva di significato nella prassi del vivere, con conseguenze progettuali e volitive che puntino alla realizzazione “al meglio” della nostra individualità di uomini.

    Non voglio certo dire che per il fatto di essere uomini ne derivino compiti o privilegi rispondenti ad un astratto “dover essere” qualcosa di più di animali come tutti gli altri, i quali (come noi) vivono e fanno figli, sfuggendo (per quanto è loro possibile) la sofferenza e la morte. Questo infatti sarebbe un discorso moralistico che è totalmente estraneo al DAR. Ognuno, finché non procura del male al prossimo e ne rispetta il diritto a vivere secondo eleuteria, può vivere come vuole (o come può), privilegiando magari soltanto i piaceri del corpo e stando il più lontano possibile dai problemi esistenziali. Io penso anzi che la ricerca del piacere, anche nella sua forma più “terra terra” che è quella di un assoluto edonismo materialistico [163], sia una filosofia di vita del tutto rispettabile e non priva di interessanti raffinatezze. Tuttavia, non per tutti è realizzabile tanta semplicità progettuale, in quanto le domande extrafisiche non è poi che uno se le vada proprio a cercare; potremmo anzi dire che “esse vengono” da sole e che è molto difficile eluderle. Nel momento però in cui esse “sono venute” diventa un poco difficile far finta di niente e continuare vivere come se le cose stessero ancora come stavano prima ed esse pertanto fossero nient’altro che meri fantasmi cogitativi. Né saprei dire se questa tendenza a porsi domande extrafisiche (che è probabilmente una eccezionalità dell’homo sapiens) sia un privilegio o una condanna per la nostra specie.

    Io tendo a pensare che la consapevolezza della necessità che ci lega e ci limita, del senso del tragico che ne deriva, della nostra ignoranza e della nostra insignificanza, possano essere dei segni rivelativi del fatto che ognuno di noi, forse, non è destinato soltanto a tornare integralmente alla materia da cui deriva. Non può essere infatti sottovalutato il fatto che il nostro accesso all’aiteria ci proietta in un orizzonte esperienziale che ci trasforma profondamente e che ci autorizza a pensare che questo “altro” dalla materia che noi interiorizziamo nell’idema non segua integralmente le leggi della materia stessa, le quali concernono l’idema, ma non necessariamente anche l’idioaiterio che in essa  si forma. Tuttavia, per accedere nel più profondo ed ampio modo umanamente possibile a questo “altro” dalla materia (di cui non possiamo “sapere” nulla ma soltanto intuire qualcosa) può darsi che risulti utile anche un atto di volizione, che comporti uno sforzo volontario e pertanto un poco gradevole dispendio di energie. Ciò potrebbe anche limitare le nostre possibilità di dedicarci appieno al conseguimento di ogni possibile piacere fisico (premessa indispensabile di un buon equilibrio psico-fisico), sia pure con la vaga promessa che forse ci potrà essere la compensazione dei piaceri extrafisici conseguibili almeno nel campo dell’estetica, i quali però non sono per nulla scontati. In altre parole, il “meglio un uovo oggi che la gallina domani” rimane valido anche nel nostro campo, ma ciò vale per chi vuole andare sempre sul sicuro, mentre il dualista deve saper rischiare qualcosa, o meglio saper “giocare” sul futuro e “giocarsi” la vita. Se i nostri immaginari progenitori Adamo ed Eva si sono (nella narrazione biblica) autocondannati alla sofferenza per aver osato mangiare il frutto proibito dell’albero della conoscenza, noi (che ai piedi di quell’albero non arriveremo veramente mai) renderemo forse loro omaggio tentando di conoscere appena “qualcosa” di ciò che trascende la nostra materialità di uomini, che da tali favolosi avi avremmo ereditato il gusto per la trasgressione dei limiti della necessità.

    Sentirsi uomini forse vuol dire anche sentire che noi non possiamo restare del tutto inerti di fronte ai segni dell “irriducibile” alla materia e forse qualcuno (andando oltre le nostre intenzioni) potrebbe anche farne una questione di dignità, ritenendo che per essere degni di chiamarsi uomini noi non possiamo accontentarci di vivere,  ma dobbiamo cercare e ancora sempre cercare ciò che forse….sta oltre le plaghe della vita materiale. E cercare sempre forse vuol dire persino cercare “ancora” Dio, dal momento che da migliaia d’anni ci viene detto che egli c’è, che è il nostro creatore e che è la nostra escatologica méta. Se poi però noi non l’abbiamo puntualmente trovato penso che non dovremmo, sempre per una questione di dignità, adagiarsi e conformarci alla credenza acquisita che ci è stata regalata dalla tradizione, ma riprendere a cercare in un'altra direzione, tracciando una nuova strada. Siccome tuttavia su questa nuova strada non c’è nulla da trovare se non esperienze che ci permettano, forse, soltanto di intuire ciò che trascende la materia che ci limita, noi non possiamo che esperire ed ancora esperire, interpretando in modo “proprio”, cioè da uomini, la tendenzialità che essa ci offre.

    Le esperienze, siano esse quelle proprie alla materia (dell’intelletto e della ragione) o quelle improprie ed eccedenti dell’idema, sono gli unici accadimenti dell’esistenza che possono caratterizzare e giustificare la nostra breve avventura di esseri umani, la quale forse potrebbe essere persino propedeutica ad esperienze di una realtà diversa, riservata a quel prodotto immateriale della nostra materialità che proprio l’idema è in grado di formare.

 

 

 

13.2) L’esistenza tra piacere e sofferenza (La disimmetria esistentiva).

 

    Che nel considerare l’esistenza umana il DAR privilegi l “esperire” rispetto al “durare” (ovvero la qualità e non la quantità di vita) non significa per questo che venga messo tra parentesi il fondamentale rapporto tra piacere e sofferenza, che nell’esistenza di ognuno si pone come un alternativa in gran parte indipendente dalla nostra volizione, ma in qualche misura a questa riferibile nell’esercizio dell’eleuteria. Il rapporto citato si pone pertanto sul crocevia in cui ognuno di noi progetta la propria esistenza nel breve e nel lungo termine; pertanto esso va considerato in modo razionale (e aggiungerei utilitaristico), poiché è evidente che tanto più si cercano nuove esperienze tanto più si possono scoprire nuove ragioni di piacere ma nel contempo tanto più si rischia di patire nuove forme di sofferenza. Ora, cercando la “qualità” esperienziale “a tutti i costi e sempre” è abbastanza probabile che nel migliore dei casi si sperimenti un’alternanza di soddisfazioni e frustrazioni, ma che nel peggiore si cada in un inferno di amarezza e dolore, col ché la qualità di vita si tramuta in condanna. Ciò accade perché prendendo in considerazione una sufficientemente ampia casistica di accadimenti possibili le probabilità che da essi derivi sofferenza per l’uomo sono senz’ombra di dubbio assai maggiori di quelle che potrebbero arrecargli piacere. Ma c’è di più: questo prevalere della sofferenza sul piacere appare come “strutturale” alla vita in generale e sembra quasi essere un’ineliminabile e infausta regola del vivere stesso.

    A partire da questo sostanziale disequilibrio tra le possibilità di godere e di soffrire, pur ribadendo che a nostro parere è l’attivo esperire e non il passivo sopravvivere ciò che da senso all’esistere, dobbiamo poi anche domandarci quale sia il prezzo da pagare nel fondare la propria esistenza sulla volizione esperienziale rispetto al perseguimento del “sicuro” e del “conveniente”, dal momento che le esperienze che esorbitano l’ordinaria routine che la nostra condizione e la nostra situazione ci offrono possono condurre a successi piacevoli e gratificanti, ma anche a disastri, se non esiziali, almeno deludenti e dolorosi. Allora rischia di diventare vuota retorica il sottolineare la dignità dell’atteggiamento che privilegia l’azione sull’inazione, il nuovo sull’acquisito, il difficile sul facile, ecc., senza domandarsi che cosa ne segua in termini di economia psico-fisica. Pertanto occorre affrontare la questione con razionalità e con pragmatico buon senso.

    Il piacere, diretto o indiretto come immediato o differito, è l’oggetto primario di ogni desiderio e inoltre, in relazione al procedimento partitivo da noi assunto, parrebbe necessario distinguere tra i piaceri del corpo, della psiche, dell’intelletto o dell’idema. In realtà tale distinzione sarebbe scorretta poiché il piacere, come d’altra parte il dolore, in qualsiasi parte del nostro essere abbia origine, anche la più estranea alla corporeità, viene ricevuto e tradotto sempre in stimoli nervosi che è la psiche a ricevere ed avvertire. Intelletto ed idema danno sì luogo ad una tipologia esperienziale specifica e possono sì risultare virtuale sede privilegiata di fatti mentali che non riguardano primariamente la psiche, ma soltanto a questa, con essi compresente e coordinata, arrivano i messaggi nervosi che essa elabora reattivamente, producendo così sensazioni di godimento o di pena.

    La prima considerazione da fare relativamente al problema del rapporto esistentivo piacere/sofferenza è che nel perseguire un’esperienza (il ché nella maggior parte dei casi significa poi soltanto fare una scelta tra più possibilità) occorre razionalmente sempre valutare a priori e per quanto possibile (cosa che gli altri animali fanno d’istinto) se le probabilità di insuccesso (in relazione ai danni, disagi o sofferenze che ne possono derivare) giustificano il fine a cui si tende. Non si deve mai dimenticare che essere in buona salute, appagati o soddisfatti e possibilmente anche decisamente di buon umore è un requisito auspicabile anche per il miglior sfruttamento delle funzioni più evolute e interessanti relative all’intelletto, alla ragione e all’idema. E ciò resta vero anche quando si ammetta che queste organizzazioni vengano molto spesso stimolate dalla sofferenza ad elevare il loro tono nei confronti del predominio mentale della psiche e che il soffrire, quando non sia distruttivo, è probabilmente una concausa dell’evoluzione della stessa struttura mentale. L “etica del sacrificio”, suggerita e praticata in alcuni contesti religiosi o laici, soprattutto del passato, può essere utile per raggiungere obbiettivi mistici od eroici, ma non è raccomandabile per un buon equilibrio psico-somatico, il quale resta “comunque” un valore assoluto sotto ogni punto di vista.

    La seconda considerazione riguarda il confronto tra le possibilità reali che ha il piacere (sia esso psichico, corporeo o misto) di verificarsi, di prodursi e di durare rispetto a quelle della sofferenza. E qui non è necessario sprecare molte parole per affermare che in quanto a intensità e durata le possibilità della sofferenza superano in modo incommensurabile quelle del piacere, sia attuali che potenziali. D’altra parte credo sia fuori discussione che razionalmente noi riusciamo ad immaginare una tortura infinita, ma non riusciamo a fare altrettanto per un godimento, a meno di pensare fideisticamente ad un escatologico paradiso. Inoltre, per quanto riguarda l’intensità, quella del piacere sembra ridursi man mano che esso si prolunga, come se i recettori deputati tendessero a perdere sensibilità (attraverso un processo di assuefazione), mentre nel caso del dolore avviene per lo più l’opposto. Come ognuno ben sa, al dolore non si fa affatto l’abitudine, anzi, la nostra capacità di sopportarlo tende a ridursi man mano che esso perdura, a meno che non intervengano forti giustificazioni intellettuali (o atteggiamenti masochistici) a mutare  il nostro stato mentale.

     Vi è un’altra osservazione da fare per quanto riguarda la “durata” reale del nostro esperire. Il tempo “dei sensi” (come d’altra parte quello “della coscienza[164] in cui esso confluisce ) non corrisponde per nulla al tempo “dell’orologio” (il tempo fisico), infatti nel caso del piacere esso tende a contrarsi mentre si dilata nel caso del dolore. Se quest’ultimo è molto intenso il tempo diventa tendenzialmente infinito, poiché non esiste frazione di esso così piccola da non essere caratterizzata dalla intollerabilità al dolore, mentre al contrario, nel caso del piacere, il tempo reale (la durata) tende ad azzerarsi. Va tuttavia tenuto conto che la cosiddetta “soglia del dolore” è  abbastanza variabile da persona a persona e che verosimilmente in ciò, oltre alla sensibilità nervosa, abbia un ruolo primario la psiche che differisce anche profondamente da una persona all’altra .

    Da quanto sopra detto consegue che sembrerebbe ragionevole ritenere che in alcuni casi, nella percezione del piacere o del dolore conseguenti all’accadimento traumatico o doloroso, possa anche prevalere l’elemento psicologico rispetto a quello fisiologico e che la psiche reagisca in un certo senso “interpretando” gli stimoli, in riferimento ad  uno schema psico/sensorio interno che imposta la “soglia” in base a una scala di tollerabilità precostituite. A questo proposito va rilevato un ulteriore aspetto del problema che è a tutti noto, vale a dire che allorché dal piano meramente corporeo ci spostiamo verso quello psichico le situazioni appaiono molto più complesse e la corrispondenza tra le cause e gli effetti diventa assai problematica e sfuggente. Ciò accade anche per il fatto che se (abbastanza spesso) di fronte ai dolori puramente fisici è possibile trovare lenimenti di rapida e soddisfacente efficacia, nel caso di quelli puramente psichici le soluzioni, quando vi sono, richiedono terapie spesso abbastanza incerte e comunque sempre molto prolungate.

    Al di là di queste ovvie considerazioni la questione di cui stiamo trattando delinea chiaramente uno scenario nel quale, anche confortati dalla comune esperienza della maggioranza di noi, si può trarre la ragionevole conclusione che sull’enorme diseguaglianza esistente tra la quantità di sofferenza e quella di piacere che ad un essere vivente in generale può toccare durante la sua vita non ci può essere alcun dubbio sul fatto che la prima risulti enormemente superiore alla seconda. Questa realtà sembra essere stata molto presente nella formulazione di filosofie come il Buddhismo che hanno fatto dell’abolizione della sofferenza il loro cardine teorico.

    Nel DAR a questa diseguaglianza è stato dato il nome di disimmetria esistentiva, per sottolineare il fatto che comunque, quali che possano essere le scelte progettuali effettuate da un individuo per il proprio avvenire, le possibilità che dalle esperienze che egli farà gli derivi sofferenza restano “strutturalmente” assai più elevate di quelle contrarie. Al punto che la sofferenza sembra essere un “effetto” inevitabile del vivere stesso, che va di pari passo con la sua instabilità e la sua precarietà. Ciò significa allora che la sofferenza non può essere ritenuta un elemento contingente ma piuttosto immanente della vita stessa (come avevamo già notato al paragrafo 6.3 trattando della moira). Quindi essa (lo ribadiamo) non può essere solamente respinta come detestabile, ma in un certo senso assunta come un ingrediente della realtà che ci inerisce, spingendoci a domandarci quale senso extrafisico essa possa eventualmente avere.

    Come si sa, le religioni ebraica e cristiana hanno potuto fornire una spiegazione di grande efficacia, col biblico “peccato originale” dei nostri progenitori. Ma se noi vogliamo affrontare razionalmente il problema siamo indotti a ritenere che il terribile e universale imperversare della sofferenza, la quale  colpisce talvolta in modo inversamente proporzionale ai peccati di chi la sperimenta, abbia un significato ancora diverso. Se noi consideriamo l’individuo e il suo rapporto con la sofferenza ci rendiamo conto che l’io pensante e l’io soffrente sono quasi la stessa cosa e che le modalità con cui il soggetto si confronta col negativo sono il frutto dell’interpretazione che egli dà di esso e non la sua realtà.  Allora alla sofferenza si associa la nozione che noi possiamo avere del nostro esistere “per esperire”, al punto che soffrire può venire anche interpretato come un ineliminabile correlato del “conoscere”. Ma se la sofferenza ci fornisce elementi cognitivi sul nostro esistere, che è sostanzialmente omogeneo con ogni altro essere vivente, essa diventa anche una finestra cognitiva sulla realtà generale della materia vivente. Va tuttavia rilevato che essa è anche l’unica forma per noi percepibile del male in generale; pertanto, se pure essa va evitata a tutti i costi (poiché noi dobbiamo perseguire per quanto possibile il piacere), nondiméno (quando non la possiamo evitare) essa ci apre anche rilevanti intuizioni esistenziali per una lettura non puramente biologica del fenomeno “vita”.

    Se tutta la nostra esistenza individuale e comunitaria tende ad un bene in generale, che si estrinseca in oggettivazioni pensabili, ma che rimane sostanzialmente astratto, il segnale del suo opposto può diventare un punto di partenza per quella ricerca extrafisica che il DAR persegue. Allora ritorna in ballo anche il concetto di “verità” e a tal proposito non possiamo che ripetere quanto avevamo scritto nel paragrafo 1.4 (L’ignoto e la “verità”) quando affermavamo che la verità può essere soltanto logica e mai metafisica. E tuttavia, se esiste una minima probabiltà che la verità abbia un senso che possa eccedere quelli di corrispondenza, coerenza e verificabilità si può ritenere che soltanto la sofferenza, forse, sia la penosa porta esistenziale che ci introduce a questo nuovo mondo di significati non pre-mistificati dall’uso metafisico che è stato fatto del termine “verità”.

    Ma vi è ancora un’altra considerazione da fare: il privilegio di vivere (ovvero di sperimentare un’esistenza) viene pagato da parte di ogni entità vivente con un “costo” medio di sofferenza che sembra sproporzionatamente elevato rispetto ai vantaggi reali che un’esistenza può offrire. A meno di rifugiarsi nella metafisica o nel campo dei significati morali la conclusione oggettiva e razionale sembrerebbe essere quella che “vivere non conviene”. Ma questa mia provocatoria affermazione vuole soltanto stimolare la riflessione sul quel “senso” del vivere che ognuno di noi deve trovare, interrogandosi sulla propria individualità, su ciò che essa “è” e su ciò che “potrebbe essere”, in una prospettiva esistenziale extrafisica che qui è stata adombrata, ma che è evidentemente ancora tutta da scoprire.

 

 

 

 

13.3) Il comico (il cortocircuito tra i riflessi mentali di necessità e libertà).  

 

    Siamo giunti al punto di occuparci di un argomento che nel DAR assume una particolare importanza, in quanto il comico non è soltanto ciò che ci fa ridere ma per noi è un concetto squisitamente filosofico, che ci permette di evidenziare come la necessità e la libertà (che hanno dato il titolo al nostro libretto) vengano con esso a collidere. Ciò non avviene però in modo diretto, non potendo essere evidentemente questi due elementi-base di realtà così diverse (come materia ed aiteria) a venire in contatto diretto, bensì soltanto i loro “riflessi” mentali. Riflessi che vengono trasferiti nelle cose e nei fatti della nostra quotidianità, come anche nei principi di valutazione o nei criteri di giudizio che continuamente attiviamo nel relazionarci ai fatti e alle cose. Riflessi, il cui rapporto con la realtà è da considerarsi qualcosa di simile a un’immagine dentro uno specchio, dove lo specchio è la nostra mente. Le nostre funzioni mentali (organizzazioni e infrastrutture) accumulano e traducono ciò che noi percepiamo della necessità e ciò che intuiamo della libertà nel “nostro” linguaggio concettuale, trasferendoli sui modi di pensare e di agire che il contesto antropico (sia a livello intimo sia a livello collettivo) elabora ed istituisce, fissandoli quindi in tradizioni, schemi di riferimento, modi di pensare e modelli culturali.

    Ma perché riflessi mentali? Perché nei confronti della necessità (che ci inerisce) e a maggior ragione della libertà (che ci avvolge)  noi possiamo per l’appunto agire soltanto come dei metaforici specchi, che raccolgono e riescono a possedere una mera immagine riflessa della realtà di esse. Tale immagine (il riflesso mentale) nella migliore delle ipotesi riesce ad essere relativamente coerente con la loro essenza, ma molto più spesso si può verificare mediazione o addirittura distorsione delle denotazioni di essi nell’esistenza corrente, il ché è poi in definitiva la modalità (il nostro modo d’essere) con cui siamo collocati entro la realtà stessa. Intendiamo dire che necessità e libertà, quali elementi intrinseci di materia ed aiteria, prescindono dal fatto che ci siano gli uomini a pensarli. In altre parole: i riflessi mentali sono parte della realtà antropica ma non di quella generale, di cui sono copie antropiche imperfette. Tuttavia, in quanto “pensati”, essi assumono una “funzione” particolare, che entra a far parte del nostro modo specifico di “essere uomini” e di rapportarci alla realtà, “attraverso” quegli schemi che si formano e si fissano nella nostra mente e per mezzo dei quali viene formulata la nostra personale concezione del mondo.

    Il comico è quindi una sorta di “sovraprodotto” del pensare umano, proprio in quanto prodotto dal nostro riflettere “soprà” la realtà, creato e consumato all’interno del nostro esistere. Tuttavia noi siamo già predisposti ad esso attraverso il senso del comico che possediamo (analogamente a quello del tragico) in quanto eredità filogenetica, il quale è una sorta di facoltà o prerogativa “latente” sempre pronta ad attivarsi appena un’immagine, una frase, un fatto un comportamento (per lo più di carattere banale, convenzionale o rigidamente schematico) si “ribellano” agli schemi mentali ispirati dalla necessità ai quali siamo esistentivamente legati. Questi si rivelano pertanto suscettibili di un sovvertimento, causato dall’irrompere di un criterio di libertà, ad essi estraneo e imprevisto, che si traduce nello “scacco”della loro capacità di guidare o almeno di condizionare il nostro modo corrente di rapportarci al mondo. Ecco allora che il comico, irrompendo all’improvviso in uno schema mentale rigido ma anche fragile, ne rivela la sua pura convenzionalità e la sua inconsistenza, che, come è abbastanza evidente, sono illusorie e scollegate dalla realtà oggettiva. In questa situazione erompe allora il riso, che è il modo di esprimersi di chi somatizza il capovolgimento liberatorio che si è verificato nella sua coscienza. Il quale riso emerge come il modo più significativo di “essere uomini” e che ci qualifica in quanto tali rispetto a tutti gli altri animali, coi quali condividiamo quasi tutto, ma non esso.

    Il comico è stato per lo più trascurato dalla filosofia (che su di esso ha anche spesso equivocato) limitandosi a considerarlo, prevalentemente e con poche eccezioni, una categoria estetica abbastanza secondaria. Il comico invece è un aspetto dell’esistenza umana profondo e complesso, che nasconde molto più di quanto riveli nello stesso riso (che ne è l’effetto somatico più noto e frequente); infatti esso può anche dare luogo al pianto, che può essere considerato una conseguenza estrema della comicità stessa. Il pianto, coincidente talvolta con lo “scompisciarsi dalle risa” (che allude ad un imbarazzante effetto fisiologico), deriva da una particolare sensibilità individuale al comico, la quale rende possibile un effetto complessivo che potremmo definire tranquillamente “shock comico”, derivante dal cortocircuito che si verifica nell’istante tra uno schema mentale e il suo stravolgimento. 

    Il comico si presenta quindi come un fattore fondamentale del DAR in quanto si colloca (unico tra le esperienze esistenziali) sullo spartiacque tra le forme riflesse di necessità e libertà (con la quantità e la qualità i più importanti attributi della materia e dell’aiteria ) o per usare un'altra metafora “sul filo della lama” che le divide in due versanti opposti della realtà antropica. Ma nel ribadire ancora una volta che nel comico la necessità e la libertà entrano in gioco “soltanto” in una loro forma riflessa in quel metaforico specchio che è la nostra mente, ci vediamo costretti ad essere un po’ più precisi. Per cui, a voler essere un po’ pignoli, ci toccherebbe precisare che la necessità (del cui contesto noi facciamo parte) si manifesta soprattutto attraverso il riflesso che la psiche rende di essa (e secondariamente dalle altre organizzazioni), mentre per quanto riguarda la libertà (sostanzialmente fuori contesto, o meglio fuori ambito) ciò avviene prevalentemente attraverso il suo riflesso nell’intelletto e nell’idema, dove per “riflesso”, oltre ad immagine speculare, si può anche intendere la “traduzione” che viene operata della realtà percepita o intuita. Questa affermazione però richiede un chiarimento immediato, poiché qualcuno potrebbe chiedersi se il “riflesso” antropico della libertà non possa essere l’eleuteria. Ebbene la risposta è: no! L’eleuteria entra in gioco nel comportamento “attivo” avendo la propria base nella volizione mentre “il riflesso antropico della libertà” entra in gioco in un comportamento automatico e “passivo”, quale specifica caratteristica della “reazione” al comico. Ciò significa che l’esercizio dell’eleuteria avviene nella consapevolezza (sinergia tra intelletto e coscienza) mentre la “presa” del comico è un fenomeno reattivo, che coinvolge in qualche modo tutte le funzioni mentali, ma il cui destinatario finale è la psiche. La quale, in questo caso (ed è l’aspetto più interessante del comico) nel ridere di qualcosa ride nel contempo di se stessa, quale soggetto mentale produttore, anzi istitutore, di schemi mentali rigidi.

    Quando il comico erompe, e talvolta si può dire “esplode” (nel riso), in un qualsiasi contesto rappresentativo o discorsivo, tutti i parametri della logica vengono sovvertiti e si apre una voragine di contrasto che crea un capovolgimento di senso tra ciò che ci si aspetta e ciò che invece arriva. Ma c’è di più: questo fatto spiazza non soltanto la psiche, che è il soggetto primario, ma  anche le altre due organizzazioni materiali (intelletto e ragione) mentre l’idema resta spettatrice relativamente periferica (ma non per questo estranea) all’accadimento, in quanto è l’organizzazione che ha aperto la porta all’intuizione della libertà, che il resto della mente accoglie come riflesso esistenzialmente “utilizzabile”. All’operazione di “spiazzamento” della psiche succede però quasi contemporaneamente un “rimpiazzamento”, ma in una logica capovolta che manda gambe all’aria tutte le coordinazioni delle organizzazioni. Ciò avviene in un fenomeno mentale istantaneo assai complesso, per cui nel comico non si verifica una normale concadenza delle organizzazioni, bensì un accavallarsi straordinario e inatteso di esse (una sorta di uscita dai loro binari funzionali) che innesca l’ilarità, che la psiche traduce in quegli stimoli nervosi che generano le contrazioni muscolari facciali tipiche del riso. Abbiamo qui adombrato l’elemento della “sorpresa” che è un ingrediente molto importante della comicità, ma non indispensabile al verificarsi di essa; infatti la sorpresa può essere anche del tutto assente, venendo rimpiazzata dall “attesa” [165] di riudire o rivedere la battuta o la scena comica.  Non è inusuale il voler rivedere un certo film più volte aspettando sempre e soprattutto “quella” scena particolare, per riprovare il piacere sperimentato la prima volta. Questa possibilità di risperimentare il comico a partire da una fonte di esso “già data e definita” non è illimitata ma dipende dalla “forza” (o meglio ancora dallo “spessore”) dell’espediente comico creato e utilizzato. D’altra parte questo può funzionare per poche o molte volte (a seconda del “dato” che si offre e del soggetto interessato che lo riceve) tendendo verso il su annullamento effettuale appena lo stravolgimento dello schema mentale si esaurisce nella noia del “già acquisito”. Tale esaurimento avviene perché la psiche ad un certo punto fissa quel “dato”di comicità come un ineliminabile “allegato” dello schema stesso che è risultato stravolto; succede infatti che ad un certo momento essa assimili la causa di rottura del suo ordine interno e nel far questo ne annulli l’effettualità.      

    Il comico è stato per lo più considerato quale effetto di ciò che di per sé sarebbe (in quanto ridicolo) causa di esso. In realtà il fenomeno si verifica non già a partire da ciò che (avendo la natura della comicità) lo provocherebbe, bensì dal suo opposto. È infatti in riferimento alle cose “serie” [166], ed a partire da esse, che si scatena il comico, ed il massimo grado di esso si verifica in contrasto con ciò che rappresenta il massimo grado (o enfasi) della “serietà”, cioè il drammatico (vedi paragrafo 6.3). Così, sia l’uno che l’altro, si qualificano per la specifica appartenenza alla sfera della “rappresentazione” [167], che è come dire dell “irrealtà” del puro rivelarsi e mostrarsi di una forma o di una situazione. Tuttavia, mentre il drammatico (che non è nelle cose e nei fatti, ma in un certo modo psichico “di vederli”) si contrabbanda per qualcosa di importante e grave afferente la realtà (di cui invece è soltanto rappresentazione psichica e spesso fittizia), al suo opposto il comico, proprio agendo sullo stesso palcoscenico della “rappresentazione”, smaschera lo “scenario” irreale che il drammatico determina. E mettendo in mostra l’inconsistenza della drammatizzazione ne smaschera soprattutto i presupposti schematici e canonici (che la psiche ha elaborato e fissato) diventando così uno straordinario demistificatore di ciò che è spesso falsamente qualificato come elemento grave e importante della realtà [168]. In questo senso, nel mostrare l’inconsistenza del “serio” il comico diventa  “rivelatore” della realtà stessa nella sua essenza, al di là della pura apparenza della rappresentazione.

    Per esemplificare quali siano i presupporti del comico che abbiamo indicato come schemi mentali legati alla “serietà” si pensi all’insieme delle norme comportamentali (leggi, regole sociali, consuetudini, abitudini, ecc.), vale a dire a ciò che in generale o istituzionalmente è ritenuto importante, irrinunciabile, sacro, perfetto, ecc.. Si pensi alle credenze in generale, a ciò che riceve unanime attenzione, a ciò che tradizionalmente richiede impegno o un certo tipo di atteggiamento e così via; si avrà un quadro dei veri elementi che sono all’origine del comico. Più in generale si può anche rilevare che il comico costituisce lo smascheramento di tutti gli schemi mentali e di tutti gli stereotipi accumulati dalla cultura umana attraverso i millenni in termini di regole, costumi, usanze, canoni, norme e in modo particolare di tutti i criteri di riferimento per i concetti di bello, di buono, di normale, di regolare, di perfetto, di lodevole, di desiderabile, ecc.  Nella misura in cui in un gruppo umano nascono degli schemi assiologici di riferimento, insieme con il dubbio e la critica sulla loro validità, nasce, accanto alla trasgressione attiva, la trasgressione virtuale che il comico opera, la quale consiste nel proiettare lo schema assiologico sul piano della “rappresentazione” e su questo piano operare la sua demistificazione. Il ribaltamento di valori che tale negazione opera è il più importante ed interessante aspetto esistenziale del comico.

    L’opposizione serio/comico ricalca quella più comprensibile di bello/brutto, dove il concetto di “brutto” si pone perché è stato già posto prima quello di “bello”, al quale si oppone in termini di rappresentazione. Infatti il bello e il brutto in realtà non posseggono una vera realtà, vale a dire che essi non esistono in quanto realtà oggettive afferenti le cose, ma “si mostrano”, ovvero “vengono rappresentati”, quali proprietà delle cose, in base ad un nostro canone estetico di riferimento. Vi sono tuttavia un paio di differenze sostanziali tra la coppia bello/brutto e quella serio/comico, che rendono la prima più debole dal punto di vista gnoseologico (ma per contro molto forte sul piano estetico).  In una certa misura non è del tutto illegittimo affermare che la bellezza appartiene alla realtà delle cose (per le ragioni che diremo) e quindi essa non si qualifica esclusivamente in base alla cultura (che ne fissa il canone) ma anche in base ad un senso estetico innato, che collima con il “piacevole”. La bellezza è tale principalmente in quanto afferisce ciò “che piace” ed infatti affinché qualcosa possa essere finito bello è necessario che esso presenti l’irrinunciabile prerogativa di risultare “comunque” piacevole. In senso lato (e non solo visivo) ciò che è bello possiede il requisito fondamentale di provocare godimento al percipiente, in primo luogo tramite i suoi sensi. Il canone del “bello” (che domina specificamente ogni contesto culturale e in modo assai diversificato) si sovrappone perciò all’innato “senso del bello” (ciò che “naturalmente” piace) e non lo elimina mai. Lo può modificare in maniera anche notevole, ma la base di partenza del concetto di bellezza, ancorché “fossilizzata”, rimane naturale e non culturale. Nel caso della coppia serio/comico la situazione si presenta in modo del tutto differente, poiché l’elemento naturale è quasi inesistente, mentre è invece determinante quello culturale. Questo rende una cosa “opportuna e lodevole”, oppure “inopportuna e disdicevole”, secondo un criterio di riferimento precostituito, quasi sempre su base sociale, possedendo pertanto tutti i caratteri della “convenzionalità”. È su tale distinzione/opposizione che si innesta il comico, il quale (facendo emergere la realtà/naturalità) mette in mostra ed enfatizza il secondo termine (l “inopportuno-didicevole”) smascherando così la pura convenzionalità del primo (l “opportuno-lodevole”).

    Emerge da quanto detto sopra la fondamentale funzione di smascheramento (e quindi di ripristino di una relativa “verità” concernente la realtà dell’accadere e del mostrarsi) della quale, da parte della cultura corrente e condivisa (o dominante), viene messa in opera una manipolazione a fini di utilità sociale e quindi operata una più o meno consapevole interpretazione/mistificazione. Il comico allora, molto più di ogni altro elemento etico od epistemologico, ripristina, attraverso l’ilarità, i termini reali in cui si presenta l’esperibile. Il comico, sia nella forma casuale/spontanea sia in quella artistica/intenzionale, è quindi un importantissimo mezzo di recupero (in forma più o meno rappresentativa e spettacolarizzata) della naturalità, che rivendica attraverso il riso i suoi diritti. Questo recupero di naturalità ha un’importanza fondamentale per il mantenimento e l’incremento della carica vitale (quale energia psico/somatica che regola il funzionamento di tutto il nostro essere) della quale parleremo nel prossimo paragrafo, insieme con la nichilìa, che ne costituisce la sua pericolosissima caduta.

    Il comico nella forma “casuale/spontanea” è quello che compare indipendentemente dall’aspetto sociale della rappresentazione e quindi può offrirsi anche ad una singola persona. La quale può scoprirlo improvvisamente nel comportamento di un'altra persona o semplicemente nel modo in cui si veste o si muove, ma ciò può accadere altresì in un qualsiasi aspetto di un accadimento qualunque, come pure in un gesto “proprio”, colto in uno specchio o in una registrazione filmica. La forma che abbiamo definita “artistica/intenzionale” è invece quella tipica dello “spettacolo” professionale, dove lo sceneggiatore, il regista e gli interpreti costituiscono un gruppo di persone che contribuiscono al confezionamento di un “prodotto” che funziona come “produttore di ilarità”.  Inutile dire che la prima forma è quella esistenzialmente più interessante, peraltro la seconda assolve una funzione socializzante di grande importanza e si deve ammettere che nelle sue migliori espressioni si rivela come un opera artistica degna di riconoscimento e stima non certo inferiori a quelli concernenti  opere “drammatiche” di pari qualità.

    Ma per capire meglio quale sia la genesi del comico e come esso si produca e funzioni occorre analizzare le modalità attraverso le quali esso si genera, vale a dire gli “strumenti” coi quali, per mezzo di un’alterazione della usuale (o data per acquisita) rappresentazione di un certo aspetto o momento della realtà antropica (il “rappresentato”), si genera l’ilarità. Tali strumenti sono piuttosto vari, ma per cercare di delineare un quadro sintetico di essi ne tenteremo una classificazione provvisoria. Potremo allora dire che, a grandi linee, si possano identificare due gruppi principali di strumenti del comico: quelli che determinano una “deformazione” del “rappresentato” (di un oggetto o di una “fase” della realtà antropica) e quelli che determinano una “delocazione” di esso o di un suo elemento caratterizzante. Per proseguire nel nostro tentativo classificatorio aggiungeremo che la deformazione comica potrebbe avvenire per 1)“caricamento”, per 2)“aggiunta”, per 3)“riduzione” e per 4)“sottrazione” e che la delocazione potrebbe avvenire per 1)“inversione”, per 2)“confinamento”, per 3)“sovrapposizione” e per 4)“sostituzione”. Essendo questo libretto un’introduzione al DAR e non un saggio sul comico una serie di esemplificazioni al riguardo sarebbero fuori luogo e peraltro neppure facilmente realizzabili, poiché gli esempi a cui penso e mi riferisco richiederebbero una lunga descrizione circostanziata e potrebbero anche essere poco condivisi data una certa inevitabile “personalizzazione” del comico. Ciò non tanto dal punto di vista concettuale, ma per quanto riguarda il giudizio di efficacia della rappresentazione che provoca o dovrebbe provocare ilarità, che non è mai generalizzabile essendo abbastanza spesso piuttosto individuale o contestuale (basti pensare alla satira politica o religiosa).

    Tuttavia qualche indicazione di massima si rende necessaria e cercherò di darla anche se il lettore dovrà scusare una certa sommarietà semplificatoria. Per quanto riguarda il primo gruppo di strumenti del comico (quelli di deformazione) diremo che il 1) caricamento potrebbe essere essenzialmente basato sull’accentuazione di un elemento del rappresentato che già di per se stesso risulti “fuori norma”, la 2) aggiunta nell’addizione di un elemento non compatibile con l’essenza del rappresentato, la 3) riduzione con un’operazione opposta ad 1) e la 4) sottrazione con l’eliminazione di un elemento del rappresentato a causa della quale esso diventa incompatibile col contesto in cui risulta inserito. Per quanto riguarda invece il secondo gruppo (quelli di delocazione) la 1) inversione potrebbe essere prevalentemente costituita dalla decontestualizzazione del rappresentato verso una sistemazione incongruente e incompatibile, il 2) confinamento dallo svuotamentp del contesto di appartenenza, in modo che al rappresentato venga a mancare il suo spazio di collocamento logico, la 3) sovrapposizione potrebbe nascere dall’accostamento al rappresentato di un suo contrario o di un diverso, incompatibili con esso nel contesto dato, la 4) sostituzione infine potrebbe consistere nello spostamento o nell’adombramento del soggetto primario della rappresentazione, mettendo al suo posto un elemento poco o per nulla conciliabile.

    Tale sommaria classificazione degli strumenti del comico non va considerata ovviamente né definita né esaustiva, poiché anzi la sua eventuale validità dipenderà soprattutto dalla sua applicabilità “generale”, essa deve cioè risultare valida sia per la comicità che abbiamo definito “naturale” (concernente la vita corrente) sia per quella “artificiale” (concernente le attività letterarie, grafiche o dello spettacolo in generale) e per tutti i contesti possibili (la famiglia, la strada, il luogo di lavoro o di svago, la letteratura, la grafica,.il cinema, la TV, ecc.).  Il lettore potrà fare mente locale sulle sue fonti di ilarità e verificare se i criteri classificatori che qui abbiamo abbozzato risultino applicabili ai suoi usuali o pregressi rappresentati che lo muovono o lo hanno mosso al riso. Tuttavia, questo schema potrebbe anche essere assunto in modo flessibile, e quindi aggiornato o completato in base alle personali preferenze. Anche se penso che l’importante sia trovare quante più possibili fonti ed occasioni di comicità senza poi preoccuparsi troppo di inquadrarle in uno schema: l’importante infatti è ridere più spesso che si può e se poi se ne è anche capaci (dote di eccezionale valore) saper “far ridere” (volontariamente) gli altri .

    La interpretazione che il DAR dà del comico e la sua assunzione ad aspetto fondamentale dell’esistere e del rapportarsi al mondo si offre ad un confronto con le interpretazioni canoniche di esso; dalla kantiana “attesa che si risolve nel nulla” [169], alla bergsoniana “reificazione dello spirito” col “sopravvento dell’anima sul corpo” [170], al freudiano “senso di piacere” nel vedere l “altro” che compie un eccessivo dispendio di energia fisica [171], al liberatorio trionfo del “non senso” in Baudrillard [172]o dello “spreco” in Bataille [173].   

    Per completare correttamente questo paragrafo sul comico dobbiamo però inserirgli un’indispensabile coda, per aggiungere qualche considerazione relativa al rapporto tra il riso in generale e la comicità, in quanto essi sono sì connessi ma non interdipendenti. Intendo dire che il comico fa sempre ridere, ma che si può ridere anche senza che si manifesti il comico o tutt’al più per effetto di una sua forma degradata di esso. Non si può infatti che sostenere la validità del vecchio proverbio che recita “il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi’’ ove si consideri che vi sono persone che ridono per un nulla e altri che sanno ridere solo di fronte alle scurrilità o alle più basse volgarità. Si badi bene, la scurrilità e la volgarità sono ingredienti importanti del comico ed è probabile che abbiano costituito una delle sue forme ancestrali, ma esse di per se stesse sono raramente generatrici di comico autentico, a meno che attuino in qualche modo una trasgressione di stereotipi sociali dominanti. In altre parole, la volgarità è un ottimo elemento della comicità, purché non diventi fine a se stessa. Per altro verso va detto che la satira e specialmente una sua forma “cattiva” (ciò che comunemente si chiama “sarcasmo”) provocano sì il riso (ma soprattutto in chi li fa più che in chi ascolta) però non necessariamente posseggono i caratteri del comico nei termini in cui l’abbiamo posto, poiché non sempre rilevano la collisione di necessità e libertà, ma piuttosto quella tra soggettività diverse, che in modo reciproco o unidirezionale cercano di danneggiarsi agli occhi degli altri. Il sarcasmo è quasi sempre fenomeno interpersonale (colpisce la persone più che gli schemi mentali generali) e la satira ha abbastanza spesso una base ideologica o comunque di parte; entrambi richiedono comunque un elevato grado di artificiosità e di elaborazione che in generale mancano alla comicità nella sua forma più autentica.   

                   

                          

 

  

                        

13.4) La carica vitale e la nichilìa.

 

    Qualsiasi persona in buone condizioni di salute psico-fisica ha voglia di vivere. Questa voglia di vivere, che nel DAR viene chiamata carica vitale, è normalmente avvertita come quel senso di pienezza e di integrazione col mondo che ognuno di noi avverte o ha avvertito (si spera) in modo fluttuante e variabile nel corso della sua vita. L’analogia con la quantità di energia posseduta dalle comuni batterie che alimentano i nostri elettrodomestici portatili rende abbastanza bene, in senso analogico, che cosa noi intendiamo, anche se nel nostro caso nessuna unità di misura ci permette di calcolarla ed essa rimane un espressione puramente convenzionale (ma riteniamo efficace) di indicare la quantità di “energia vitale” che alimenta la nostra macchina biologica psico-somatica. Riprendendo quanto era già stato detto al paragrafo 7.3 (dove abbiamo trattato del corpo) ribadiamo che quando si parla di salute è per noi impossibile disgiungere la parte corporea dalla parte senziente-pensante, quindi il concetto di carica vitale si riferisce implicitamente anche al nostro “insieme” corporeo (liquidi, tessuti, organi e funzioni) in quanto direttamente implicato nel nostro stato mentale

    Abbiamo introdotto questo nuovo concetto, che riprende la già citata “voglia di vivere”, perché abbiamo voluto meglio caratterizzare il rapporto “energetico” tra funzioni vitali e tra esistentività ed esistenzialità nella prospettiva che il DAR pone, ovvero della dualità esperienziale che caratterizza la nostra prensione della realtà durante il fluire dell’esistenza con tutti i suoi aspetti relativi ai comportamenti e alle reazioni, alle opinioni e ai giudizi, ai progetti e alle aspettative. Dualità esperienziale nella quale sull’unico supporto corporeo si innestano di volta in volta funzioni diverse della mente e non sempre concorrenti verso un esperienza coerente ed unitaria. Per questo motivo occorre stare molto attenti a non confondere lo stato psico-somatico conseguente all’elaborazione dei dati esperienziali da parte della coscienza (in termini di netti benessere e malessere o di equivoche miscele dei due) come la mera conseguenza di una sintesi “già” realizzata nell’esperienza stessa. In realtà l’esperienza è vissuta non da un blocco univoco corpo-mente ma da un insieme complesso di relazioni tra il supporto corporeo e motorio e le differenti funzioni mentali.

    L’orizzonte dualistico richiede quindi anche una rideterminazione dei termini di “vita” e di “esistenza”, poiché secondo il DAR non è più una supposta sinergia funzionale tra corpo e psiche che dà forma “sempre” ad esperienze “unificate”, ma è (al contrario) una previa “disgiunzione” di due attori dell “esperienza” (psiche ed idema) che determina una sorta di “polarità” tra due blocchi corporeo-mentali (“corpo-psiche” e “corpo-idema”) tra i quali corre la carica vitale. Allora il concetto di carica vitale complessiva, quale effetto energetico  risultante dalla relazione tra “corpo-psiche” e “corpo-idema” aiuta la nostra ricerca nella comprensione di quel complesso problema costituito dalla maggiore o minore “voglia di vivere”, rapportandola alla complessità della realtà che ci concerne, la quale, soltanto a posteriori (nella “risultante” che ci rende la coscienza), può venire surrettiziamente immaginata come “unitaria”. Allora, per una corretta lettura dell’esperienza, non si deve più partire da una fantomatica “sintesi”esperienziale  psico-somatica, ma dalla bipolarità della realtà, che in quanto tale può essere colta nella sua interezza da funzioni differenziate del nostro biologico “essere uno”, con conseguenze a volte concorrenti e a volte divergenti. Non per nulla la coscienza è infatti quell’infrastruttura della mente che completa ed integra il lavoro delle organizzazioni, offrendoci una “risultante” che può indurci a pensare ad unità mentale che nella realtà non esiste. Forse non saremo molto lontani dal vero nel ritenere che sia proprio in virtù di questa funzione della coscienza (che non ci rende separatamente le diverse prensioni della realtà da parte delle organizzazioni ma ce ne dà la “risultante”) se la maggioranza degli uomini non rischia continuamente la schizofrenia e che possano essere proprio malfunzionamenti della coscienza all’origine della schizofrenia. Probabilmente accade un po’ come se il corpo di volta in volta “si accompagnasse” a funzioni mentali differenti nel cogliere la realtà e che l’esito di questi differenti “accompagnarsi” e le loro risultanti determinino quella maggiore o minore voglia di vivere che la carica vitale all’incirca rappresenta.

    Da quanto sopra detto risulta che la carica vitale potrebbe essere resa bene anche con la vecchia espressione di “voglia di vivere”, ma poiché la volontà (di vivere) nel DAR non corrisponde a quella teorizzata da Schopenauer (anche se ne deriva), in quanto è considerata sempre e solo individuale, bisognerà ridelineare i termini di questo aspetto del nostro stare al mondo che può coincidere oppure no col desiderio di starci. Si rende allora necessario spendere qualche altra parola per chiarire in quale rapporto stia la volontà (di vivere) con la carica vitale e col desiderio di realizzare se stessi. Potremmo semplicemente dire che la prima è un “fondamento” biologico, la seconda un concetto valutativo di carattere psicologico e che il terzo è l’indicatore della tendenza di ogni individuo a conseguire degli obbiettivi specifici all’interno del flusso vitale. Partendo da questa considerazione possiamo allora precisare che quell’altra espressione del linguaggio comune che è “desiderio di vivere” è dal DAR ritenuta abbastanza impropria, perché noi riteniamo che si possano desiderare delle cose definite da conseguire nell’avvenire, ma non un astratto contenitore che le racchiuda. Questo (il vivere, la vita) è l’oggetto di una volontà del tutto inconsapevole, che ha le sue radici nel fatto stesso che ogni vivente è contemporaneamente un’espressione della vita, una parte della vita e una causa/effetto di vita. In altre parole la vita ognuno di noi contemporaneamente la rappresenta, la costituisce e la produce. Nei confronti di questa totalità di ciò che vive, nella quale sempre “già si è”, un’istintiva e inconscia volontà d’essere è del tutto sufficiente per indicare il rapporto che con essa può avere una singola unità che vive. Ma per un individuo consapevole di stare vivendo si pone il problema di dare un “senso” al suo esistere qui ed ora (a meno di ricavarlo da un’ideologia religiosa che lo definisca dogmaticamente a priori) ed allora è la carica vitale deputata a fornire l’energia necessaria per la ricerca della propria weltanschauung fuori dagli schemi precostituiti dalla tradizione culturale . 

    Il temibile effetto della caduta della carica vitale consiste in una condizione mentale che produce un effetto di decompressione/compressione che svuota dall’interno l’individuo e nel contempo lo grava di una cappa pesante che lo comprime e paralizza le funzioni della volizione e del desiderio. Siccome di ogni fenomeno che ci concerna cerchiamo una definizione che ci permetta di capire di che cosa si parla (riferendolo a una causa o a un’origine definita) il DAR, pur senza prescindere da cause cliniche, in considerazione del fatto che la perdita della carica vitale rappresenta praticamente l “annullamento” dell’individuo nelle sue capacità di volere e di sentire ha ritenuto accettabile l’attribuzione ad un metaforico nulla la possibile causa del temibile fenomeno che si verifica in un individuo che abbia perduto la carica vitale fino al limite estremo dove potrebbe non esserci più “ricaricabilità”.  Rimandiamo per ora una trattazione specifica del concetto di nulla e ci limitiamo qui a dire che, in modo approssimativo e vago, esso può essere definito come l’essenza del “non-essere” e aggiungere che l’offesa che può arrecarci consiste nello svuotare dall’interno l’essere che ci concerne, determinando un senso di “vuoto” nella nostra esistenza, e nello stesso tempo nel bloccare (o almeno ostacolare) l’uscita da questa situazione con una compressione paralizzante sulle nostre capacità di progettare e decidere relativamente al presente e all’avvenire.  

    Avrete già capito che stiamo parlando di ciò che nel linguaggio sia comune che scientifico viene indicato come “depressione”, una malattia che può essere gravissima, ma con un gradiente di pericolosità piuttosto ampio e il cui estremo limite coincide con la decisione suicidaria. Il depresso grave (il nichilitico) si suicida perché la sua carica vitale è ormai nulla e quindi non ha più nessuna buona ragione per vivere.

    Ci si domanderà però che bisogno c’era, anche qui, di introdurre un termine nuovo e di non utilizzare il termine corrente e noto. Ebbene, anche in questo caso, il motivo sta nell’intento di essere il più chiari possibile nell’intreccio delle nostre argomentazioni e nel desiderio di evitare equivoci, nonché al fine di cercare di fornire la migliore ed esaustiva definizione dell’oggetto d’analisi che ci siamo posti. Riteniamo il termine depressione troppo vago (viene riferito sia allo stato depressivo passeggero e lieve che a quello molto grave) e che nello stesso tempo abbia il limite di mettere in evidenza soltanto un aspetto del fenomeno (lo svuotamento) e non la compressione, senza la quale non si capisce la reale fenomenologia del disagio di cui parliamo. In effetti gli psicologi e gli psichiatri hanno molte buone ragioni per tenere in poco conto le questioni definitorie, dovendosi preoccupare dei “pratici, contingenti e pressanti” problemi diagnostici e terapeutici, ma noi che dobbiamo fornire un quadro coerente e chiaro del rapporto tra la nostra weltanschauung e la prassi del vivere quotidiano (a cavallo tra salute e malattia) abbiamo altrettante buone ragioni di cercare che il nome di un fatto reale sia il più possibile coerente ed organico all’interno della filosofia che lo pone.

    Chi (come lo scrivente) ha realmente sperimentato la nichilìa ed è qui a parlarne, essendone uscito bene, conosce l’effetto devastante che quello che potremmo anche chiamare l “assedio del nulla” produce sulla vita di un individuo. Il quale assiste impotente al chiudersi di tutte le porte e allo spegnersi a poco a poco di tutte le fonti di luce, fino a trovarsi immerso in un metaforico carcere pneumatico/iperbarico dove l’unica via d’uscita per non patirlo è il non essere più. Sarà perché personalmente ho trovato accanto a quella farmacologica un “altra” via d’uscita (quella filosofica), ma la mia convinzione rimane questa: il mezzo farmacologico può essere considerato essenziale per la cura della nichilìa-depressione, poiché poche sono le persone che pensano alla possibilità di una via d’uscita filosofica, ma esso è utile a curare il male, non a prevenirlo. Non solo, una volta risolta la crisi acuta della nichilia è indispensabile che vengano rideterminate le coordinate esistenziali che fanno sì che in un individuo torni la voglia di vivere e per ottenere questo i farmaci servono a poco. A questo scopo soltanto un modo “funzionante” di approccio esistenziale al mondo e alla vita può evitare la ricaduta della carica vitale.

    Di fronte a questi problemi anche la psicoanalisi può offrire un validissimo aiuto, poiché aiuta a comprendere che cosa e quanto del nostro passato possa condizionare il presente, possedendo inoltre valide procedure per sbarazzarsi delle eventuali negative conseguenze, ma essa non ci dice nulla sul quadro esistenziale in cui poter collocare il nostro avvenire. Ora, noi sappiamo che su questo terreno le religioni godono di una sorta di monopolio, in virtù delle loro visioni del mondo molto definite e organizzate, nelle quali dalla A alla Z si trovano tutte le risposte (per lo più abbastanza chiare) su che cosa siamo, che cosa possiamo sperare e dove andremo. La filosofia non ha questa forza, poiché più che dare risposte pone problemi e avanza ipotesi, tuttavia il DAR ad esse si contrappone con la presunzione di poter offrire orizzonti certamente meno esaurienti ed allettanti, ma in compenso più consoni all’esercizio di quelle facoltà mentali attive (ragione, intelletto ed idema) che compensano la pressione e l’onnipresenza di quella reattiva (la psiche), la quale cerca sempre la via meno perturbativa della sua omeostasi, e questa via è molto spesso soltanto quella culturalmente più sperimentata o più accessibile.

 

 

 

 

                                   

 

13.5) Il superamento.

 

    Nel DAR il superamento (che non ha nulla a che vedere con l’Aufhebung [174] hegeliana (normalmente tradotta con questo termine) risponde ad un modo naturale (ma decisamente “virtuoso”) con cui l’uomo può affrontare un ostacolo esistentivo o una difficoltà concettuale, cercando una soluzione che lo porti “al di là” dell’ostacolo, cioè di ciò che lo ha momentaneamente fermato. Per comprendere la ragione per la quale il superamento concerne specificamente l’uomo e non gli animali in genere, occorre tenere presente che questi agiscono quasi esclusivamente sulla base di ciò che viene geneticamente loro trasmesso e solo in rarissimi casi (ad esempio negli scimpanzé) si può ritenere che un soggetto che ha risolto un problema pratico sia in grado di trasmettere ciò che ha appreso od attuato ad altri suoi consimili. Nel caso dell’uomo, per contro, l’istintualità si applica soltanto dove la comparsa dell’ostacolo è così improvvisa e l’azione conseguente deve essere messa in opera in tempi così stretti che non c’è tempo per riflettere. Ma, dove questo tempo esista, con la riflessione sul da farsi entra sempre in gioco la cultura (o l’esperienza) che il soggetto possiede e l’azione risulta sempre conseguente ad una mediazione tra istinto e cultura. Ciò significa che il modo di affrontare le difficoltà da parte di un individuo segue certi schemi che caratterizzano il modo strettamente “personale” con cui egli si rapporta alle difficoltà, dando luogo ad una modalità abbastanza costante con la quale vengono messe in atto, sotto forma di volizioni attuate, le reazioni e le azioni. L’atteggiamento che ne deriva (anch’esso piuttosto costante) può condurre abbastanza spesso o perlopiù a decisioni di rinuncia, di elusione, di aggiramento dell’ostacolo o invece quello, appunto, del superamento di esso mettendo in atto soluzioni adeguate, nuove o già sperimentate.

    Nel frangente in cui un uomo venga posto di fronte a una difficoltà imprevista e alla prospettiva di un mutamento (di situazione, di condizione, ecc.) tendenzialmente peggiorativo rispetto a ciò che gli compete nello stato in cui si trova (oppure la perdita di qualche beneficio di cui ha fin’ora beneficiato) egli ha due scelte estreme (entro le quali si pongono però delle varianti intermedie) che sono: la difesa (o il ritorno o il ripristino per quanto possibile) della condizione/situazione considerata acquisita (ritenuta soddisfacente o almeno accettabile) oppure il suo superamento verso un nuovo stadio esistentivo. È evidente che debba esistere una qualche prospettiva per cui tale superamento dell’ostacolo risulti preferibile rispetto al restarne “al di qua” e che ci sia anche la prospettiva di qualche ragionevole vantaggio. Tuttavia si constata che ai due estremi comportamentali si trovano persone che sistematicamente preferiscono il sicuro all’incerto e che quindi tendenzialmente rinunciano al superamento e altre che invece quasi sempre lo tentano.

    Alla base di tali atteggiamenti estremi (oltre al già citato elemento caratteriale) vi è però anche un forte elemento culturale, che potremmo definire nell’un caso “statico e conservatore” e nell’altro “dinamico ed acquisitore”, i quali spesso fanno riferimento a weltanschauungen tra loro alternative ed inconciliabili, nel senso che nel primo caso viene cercata l’unità, la costanza e l’omogeneità dell’esistere e nel secondo si accetta la pluralità dell’esperienza, la sua variabilità e la sua differenziazione. Date le premesse a cui il DAR si ispira è inutile dire che il dualista coerente sembrerebbe chiamato ad optare sempre per il superamento, salvo nel caso in cui un calcolo preventivo dei rischi/benefici induca alla rinuncia. In altre termini, le scelte indotte dalla ragione non è detto che debbano sempre prevalere, ma nell’economia di un’esistenza  è opportuno che le scelte siano quanto più possibile razionali e che in ogni caso il coraggio non debba diventare temerarietà pura. Ricordiamo qui quanto già enunciato relativamente all’eleuteria (paragrafo 6.4) per rilevare che il superamento può essere considerato connesso all’esercizio di essa e alla sua miglior realizzazione, ma sempre compatibilmente col progetto destinale a cui ognuno di noi va soggetto e con cui deve fare i conti.

    Un rapporto piuttosto interessante viene a instaurarsi tra il darwiniano adattamento (che è alla base della selezione naturale in generale e quindi anche dei comportamenti della nostra specie) e il superamento posto dal DAR, poiché questo si presenta come una modificazione antropica di quello dettata dall’eleuteria che in qualche modo si colloca sull’estremo confine della necessità e in qualche caso riesce persino a metterla in mora. Infatti il superamento richiede modalità di interpretazione del problema e di invenzione della soluzione individuale che qualificano il comportamento umano come un tipo di adattamento specificamente attivo e creativo, quindi non soltanto reattivo e adattativo, alle novità ambientali in qualunque forma esse si presentino. Questo non significa soltanto che le facoltà umane consentono tutto ciò, ma che profondamente diverso è l’atteggiamento dell’uomo nei confronti delle difficoltà rispetto a quello degli altri animali. Infatti, la messa in opera del superamento è probabilmente possibile anche per la presenza di un idema molto evoluta, che già di per se stessa (nel suo accedere all’aiteria) si colloca un poco “oltre” la necessità che guida e controlla l’adattamento. 

 

                               

 

                

13.6) Ancora qualcosa sull’aiteria.

                               

    Ci avviamo ormai alla conclusione del nostro trattatello di filosofia spicciola e non sono del tutto sicuro che i miei propositi di semplicità e chiarezza esposti all’inizio mi sia poi riuscito di rispettarli del tutto; avverto questo rischio, ma nello stesso tempo mi rendo conto che al momento non sono in grado di far meglio. Inoltre il libretto è inopinatamente cresciuto di volume, diventando quasi un libro, e ad uno che non scrive di mestiere succede che ogni volta che rilegge apporta correzioni, per cui alla fine subentra una certa stanchezza per un compito che sembra interminabile e ad un certo momento si decide di chiudere. Il rivolgersi ad un lettore immaginario tradisce la speranza che la bottiglia col mio messaggio approdi a qualche spiaggia e che qualcuno leggerà queste pagine. Credo di averci messo dentro quanto basta perché il generoso lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui abbia capito sufficientemente lo scenario che il DAR propone e se ne sarà rimasto deluso, o addirittura penserà che sia un cumulo di sciocchezze, pazienza! Il fatto è che queste sciocchezze lastricano la strada sulla quale cammino ormai da molti anni e penso proprio che nessun insulto potrebbe farmi cambiar strada.

    Il confine che mi sono posto è stato quello di trattare soltanto gli argomenti che hanno buone probabilità di essere compresi e valutati con la ragione o almeno con un sano buon senso. Al paragrafo 7.3 abbiamo trattato dell’aiterialità con una certa ampiezza e tuttavia mi corre il dovere di dire ancora qualcosa sull’aiteria. So però bene che un conto è accennare a ciò che sta oltre il confine della materialità e un conto è metterci i piedi dentro. Già, perché il terreno qui non è più solido ma un polvere soffice e impalpabile che solleva nuvole e su queste nuvole a volte inaspettatamente ci si scopre seduti e si viene presi da un po’ di vertigine.

    Allora facciamo un passo avanti e cerchiamo di delineare una possibile natura dell’aiteria, di questa realtà nel definire la quale abbiamo dovuto fare un notevole ricorso all’immaginazione, ma che tuttavia abbiamo ritenuto così importante da costituire, insieme con la materia, il fondamento di una concezione del mondo e di una relativa filosofia che potrebbero aprire un nuovo e promettente orizzonte antropico.    Vi è un’unica realtà che ci sia dato conoscere ed è la materia, poiché di essa siamo fatti, da essa siamo circondati e in essa compresi; tutto il resto ci è ignoto. Ma dell’ignoto una certa parte, prima o poi, la conosceremo, quasi certamente quella “materia oscura” che costituisce il 90% dell’universo, ma ve ne sono altre che invece molto probabilmente non conosceremo mai, e sono quelle relative all’aiteria. Quindi il problema gnoseologico che si pone è quello di stabilire se dobbiamo ritenere inesistente ciò di cui non ci è data conoscenza o se si possa ritenere sufficiente intuirlo per decretarne la realtà. Abbiamo già risposto ripetutamente a questa domanda, asserendo che riteniamo l’intuizione intellettiva deve essere considerata un agente sufficientemente credibile quale rilevatore dell’esistenza di un ente come di una pluralità di enti non conoscibili; ciò che sono appunto gli aiteri, nominati collettivamente come aiteria.

    Dopo esserci lungamente intrattenuti a trattare delle caratteristiche e degli attributi dell’aiteria dobbiamo però ora tentare di corredarla di qualche determinazione in più e a questo proposito come abbiamo anticipato (conoscendo noi soltanto la materia) dovremo procedere con un criterio analogico; ma prima bisognerà anche stabilire entro quali limiti tale criterio sia applicabile e legittimo. Cominceremo col dire che ogni reale (a meno di considerarlo eterno) deve avere un’origine e che inoltre deve produrre sul soggetto che lo prende in considerazione un’effettualità reale certa, vale a dire che gli effetti da esso prodotti non debbono essere casuali, isolati o con caratteri di eccezionalità, dovendo rispondere ad alcuni criteri, che nel nostro caso sono quelli già esposti al paragrafo 3.1, vale a dire l’universalità, la ripetibilità,  la costanza, e la normalità. Aggiungiamo che non si possono escludere realtà sprovviste di queste caratteristiche, ma che siamo costretti a lasciarle da parte, perché dobbiamo definire il campo del quale ci stiamo occupando tracciando dei confini precisi. Abbiamo visto che le esperienze aiteriali (in quanto comuni a tutti gli uomini) sono entro questi confini, mentre non lo sono, per esempio, le esperienze extrasensoriali del cosidetto paranormale, i quali presentano sempre caratteri di eccezionalità.

    Abbiamo detto che quando viene posto un reale, ed è stata definita la sua effettualità, risulta inevitabile porsi delle domande circa la sua origine. Ora, se pure questo elemento non è fondamentale per una filosofia dell’esistenza come il DAR (e che in quanto tale privilegia l’aspetto pragmatico rispetto a quello teorico) cercheremo comunque di proporre un’ipotesi. Ma preliminarmente dobbiamo porci la seguente domanda: si può pensare che l’aiteria sia presente in tutto l’universo o solamente sulla Terra? A favore della prima ipotesi sta il fatto che, essendo gli enti aiteriali irriducibili alla materia, sembrerebbe corretto pensare che i pneumi (i loro supposti costituenti primi) si siano originati separatamente da essa. Siccome però è verosimilmente col big-bang che è nata la materia (e con essa lo spazio-tempo), se l’aiteria fosse nata dopo, bisognerebbe pensare che dalla materia derivi, il ché abbiamo escluso in virtù della sua evidente irriducibilità ad essa. Restano allora due possibilità: o l’aiteria preesiste alla materia (ma in tal caso sorge il problema di quando e come essa sia diventata compresente e coestesa con essa) oppure essa si è originata nel big-bang contemporaneamente alla materia e in tal caso essa forse ha avuto un’evoluzione “sua propria” ma insieme o accanto a quella della materia, seguendone quindi le varie fasi evolutive, compresa l’espansione tuttora in corso. Precisiamo tuttavia subito che in tutte queste fasi primordiali non si può pensare all’esistenza di aiteri, ma verosimilmente solamente a pneumi in qualche loro denotazione primitiva, che non sappiamo quanto rapportabile a quella posteriore ed odierna degli aiteri che si offrono alla nostra intuizione. Resta da vedere se i primitivi pneumi sono pensabili come già provvisti di caratteri o ancora privi di essi, ma questo è un dettaglio piuttosto irrilevante.

    Ci pare per contro importante avanzare un’ipotesi circa la funzione delle ideme umane sull’evoluzione dell’aiteria, completando quanto già esposto al paragrafo 7.3. Da quanto è stato detto dobbiamo pensarle come delle macchine biologiche elaboratici di pneumi già provvisti di caratteri, poiché dobbiamo escludere che la materiale idema abbia qualche possibilità di agire sulla sostanza dell’aiteria determinandone i suoi elementi, bensì soltanto quella di determinare nuovi stati di aggregazione e configurazione di essi.

    Dopo le riflessioni appena fatte ci troviamo ormai nella condizione di formulare ragionevolmente un’ipotesi sulla nascita dell’aiteria nei termini seguenti: essa è probabilmente nata contemporaneamente alla materia e ne ha accompagnato l’evoluzione fino alla situazione attuale in una forma elementare che abbiamo immaginato costituita da pneumi già “caratterizzati” e diffusi (uniformemente o meno) ai margini della materia. Non siamo in grado di spingerci oltre per chiederci se gli aiteri (in quanto “qualitativamente” determinati) preesistano all’intervento su di essi dell’idema umana o no, ma possiamo semplicemente ritenere che quelli che esistono al margine di cose definite, esseri viventi, insiemi o contesti ambientali, siano quelli probabilmente elaborati dalle ideme umane attraverso i millenni e che questi caratterizzino tutti gli ecosistemi in cui l’uomo è presente. Potremmo ancora aggiungere che nelle attuali condizioni della nostra specie sulla Terra, e diffusa praticamente quasi ovunque, una sovrapposizione di azioni e retroazioni tra ideme ed aiteri abbia dato luogo a una complessità aiteriale con la quale quasi ogni ente materiale definito e definibile va ritenuto avvolto da aiteri, singoli o complessi, che si offrono alla nostra intuizione e determinano le esperienze idemali relative alle cinque categorie analogiche (che abbiamo riferito ad altrettanti caratteri dell’aiteria).

    Possiamo allora tirare le somme e immaginare un universo in cui siano presenti pneumi allo stato elementare diffusi in qualche modo. Sulla Terra essi sono invece sicuramente presenti sia in forma elementare che in forma evoluta ed elaborata per costituire gli aiteri, semplici o complessi, individuali (idioaiteri umani e di altre specie), cosali, insiemali, locali, ambientali, ecc.). Lo scenario che abbiamo così delineato ci fa immaginare una situazione per la quale, scelto a caso un ambiente qualsiasi, possiamo pensarlo saturo di aiteri di vario tipo. Tutti a disposizione della nostra idema, che può percepirli forse anche senza introiettarli, che su di essi può agire (forse) lasciandoli al margine degli enti materiali che accompagnano, avendo loro apportato qualche trasformazione o modifica a seconda della superficialità o profondità colle quali si è verificato il rapporto, in un evento considerato, tra l’aiterio afferente l’ente materiale e l’idema.  Come abbiamo già accennato ci troveremmo qui in una situazione simile a quella del primitivo animismo, che sarebbe in tal caso una straordinaria anticipazione (in forma prevalentemente psichica e di tipo emotivo) degli eventi che l’uomo contemporaneo esperisce comunemente nelle forme delineate dalle categorie analogiche e che soltanto ora il DAR ha provato a studiare.




[163] Per edonismo si intende una filosofia di vita che induce alla pura ricerca del piacere in ogni sua forma e che identifica con esso  il bene assoluto.

[164] Il problema della “durata” in senso filosofico risale ad Aristotile. Nel XVII secolo se ne sono occupati Cartesio, Locke e Leibniz. In tempi più recenti Bergson (L’evoluzione creatrice – 1907) ha definito il tempo oggettivo come “spazializzato”, contrapponendo ad esso il tempo “vissuto”, come tempo realmente percepito nella coscienza.  
                                                          

[165] Da questo punto di vista ciò che avviene è esattamente il contrario di ciò che pensava Kant, il quale aveva definito il comico come l’effetto di un’attesa “che si risolve nel nulla”.

[166] A questo proposito è significativo che Aristotile, uomo di mondo e rispettoso di leggi e tradizioni, considerasse il comico «qualcosa di sbagliato e di brutto che non procura né dolore né danno» (Poetica, 5, 1449 a, 32 e sgg.)

[167] Potremmo definire la “rappresentazione” semplicemente come la “forma” percepibile ed intelligibile di un elemento della realtà antropica.

[168]  Non sfuggirà qualche analogia con la tesi di Jean Baudrillard secondo il quale si ride del comico in quanto con esso si verifica un dissolvimento del “senso”. In altre parole il comico sarebbe effetto dell’apparire del “non-senso”.

[169]  Kant definisce il riso «un’affezione che deriva da un’aspettativa tesa, la quale d’un tratto si risolve nel nulla» Critica del Giudizio, § 54)

[170]  Henry Bergson in Le rire (1900) conduce un’estesa analisi del comico, visto come un importante fenomeno sociale, che si oppone alla meccanizzazione della vita quale stimolo delle facoltà immaginative e creative.

[171]  Freud tratta del comico ne Il motto di spirito del 1905 e in L’umorismo del 1927. Sostanzialmente il suo punto di vista è che il riso è piacevole perché con esso si recupera l propria infantilità perduta (per F. l’infanzia è l’epoca in cui si vive con minima spesa di energia psichica) e che si ride quando si gode di un risparmio di energia psichica. Infatti, noi, nel rapportarci al mondo, dobbiamo spendere energia, ma quando ci troviamo improvvisamente in una situazione o di fronte a qualcosa che rende superfluo tale dispendio l’energia così risparmiata viene scaricata col riso.

[172]  Per Jean Baudrillard «il godimento è l’emorragia del valore» ed esso c’è quando si verifica la «liberazione del non-senso », dove nulla più si risparmia ma tutto si disperde nel ridere, che assume anche il carattere di uno “scambio simbolico” con gli altri, poiché, secondo B., si ride sempre in compagnia.

[173]  Georges Bataille considera il riso quasi un’esperienza mistica, simile all’estasi, all’erotismo, al sacrificio, all’ubbriachezza, ecc. Tutte esperienze che B. qualifica come “esperienze interiori”, nelle quali domina lo sperpero di ogni riserva di logica e di ricchezza inutilmente accumulate e che sono pertanto destinate alla loro dilapidazione.

[174] Nella filosofia hegeliana con Aufhebung si intende un concetto assai complesso, che significa nello stesso tempo “conservare” e “mettere fine”. Essi vengono posti in “rapporto dialettico” e nella reciproca negazione non si annullano, ma si ritrovano in un unità di livello superiore, resa appunto con la parola A..