CAPITOLO 5 (Essere dualisti)


5.1 ) Homo sapiens dualis

Per la scienza l'uomo è a tutt'oggi il migliore (o almeno il più interessante) prodotto dell'evoluzione delle specie. Il mammifero che con l'assunzione della posizione eretta ha liberato le due zampe anteriori dagli impegni della deambulazione, riqualificandole, come mani, verso funzioni assolutamente straordinarie di presa e manipolazione, che sono alla base di quasi tutte le attività umane e causa primaria di grandi sviluppi intellettuali. Ma è il suo cervello ad essersi sviluppato in massa e facoltà rispetto allo scimpanzé, col quale condivide l'antenato comune. Esso ha così affinato le sue funzioni e ampliato le proprie capacità di prensione e intuizione della realtà verso orizzonti intuitivi, immaginativi e logico-computazionali preclusi ai suoi cugini primati, che ha finito per consentire all’uomo di travalicare i limiti della sua natura materiale,.

Però le indiscutibili doti mentali dell’uomo hanno creato nella sua psiche anche quel complesso di superiorità che gli ha fatto dimenticare le sue origini e quindi il fatto di rimanere ancora, sempre e irrimediabilmente, un animale, ancorché un pò più evoluto degli altri. La sua presunzione non gli ha impedito di autonominarsi principe della terra e di proiettare la propria eccellenza ideale in un Dio "super-umano", che ha poi collocato in una fantastica e celeste trascendenza. Proiezione topologica che persiste neanche tanto metaforicamente, a dispetto della consapevolezza che nel cielo è un pò difficile che Dio possa starci e che è diventato altrettanto difficile dargli un qualsiasi altro posto dove stare, a meno di immaginarlo in un altro universo oppure, panteisticamente, diffuso in questo. È abbastanza curiosa questa sufficienza di immaginarci un nostro creatore e padre trascendente e poi di disegnare l’universo in base alla sua presenza, come molti teologi contemporanei continuano a fare.

Abbiamo già detto che recenti ricerche sulla materia elementare e sul cosmo abbiano permesso di ipotizzare che l’universo nel quale viviamo non sia che uno dei tanti esistenti, e che all’interno di questo possano esistere dimensioni spaziali nascoste che sfuggono a tutti i nostri mezzi di osservazione e di indagine (82). Ancorché queste teorie fisiche e cosmologiche siano per il momento lontane dall'essere confermate, dovrebbero comunque farci venire il dubbio che il nostro primato metafisico sia, in definitiva, difficilmente difendibile. Intendo dire che la nostra possibilità (già piuttosto opinabile) di raggiungere i limiti della nostra galassia in "questo" universo (che peraltro non muterebbe di molto il rapporto esistente tra la nostra nullità e la realtà della totalità) verrebbe decisamentre ridicolizzata dalla scoperta di altri universi (dove magari c’è vita), al punto che ogni presunzione diventerebbe risibile oltre ogni misura. Ma c’è di più; tutto ciò che noi definiamo "oggettivo" dovrebbe essere più correttamento definito "antropico", poichè noi leggiamo il libro dell’universo ancora sempre con occhi umani e la realtà a cui abbiamo accesso resta irrimediabilmente limitata al nostro piccolissimo raggio d’azione. Il ché, sia chiaro, non cambia neppure quando si sia fatto il piccolo passo avanti che comporta il nostro DR, il quale tuttavia apre una breccia non da poco nelle mura di quel sigillato "castello antropico" che il monismo ha costruito pervicacemente nel corso dei millenni.

Fin dall’era neolitica l'uomo, aumentato nel numero e nelle sue esigenze, ha iniziato una sistematica trasformazione della Terra ai propri fini, con operazioni di predazione delle risorse esistenti spesso cieche e sconsiderate. La tronfia nobilitazione della nostra specie si è spinta al punto da staccarla geneticmente dal resto della biosfera, la quale, madre asservita e sfruttata, ha finito per costituire un parco di risorse a disposizione, senza che nessun freno morale ponesse dei limiti al suo utilizzo arbitrario. Così il genere umano, giunto oggi al numero di sei miliardi di individui, deve fare i conti con un degrado dell'ambiente e dell'atmosfera inquietanti. E tutto ciò è avvenuto senza che al suo interno sia neppure stato trovato un modus vivendi intraspecifico tale da far venir meno le crudeli regole dei conflitti per la supremazia, la selezione e la stratificazione tra gruppi e individui, in un’implacabile logica di predominio e di asservimento. Anzi, proprio le sue doti intellettuali gli hanno fornito i mezzi e le capacità per ogni tipo di sopraffazione intraspecifica, di cui le guerre, locali o regionali, sono l'aspetto più significativo. E tuttavia queste considerazioni non devono indurci ad avviarci su un percorso moraleggiante assolutamente fuori luogo. Si tratta invece di valutare il passato, il presente e il futuro a breve termine ancora sempre nell’ottica di un essere vivente il quale, malgrado i suoi progressi intellettuali ed etici, rimane fondamentalmente una bestia tra le bestie. Si direbbe anzi che l’uomo utilizzando gli strumenti che gli sono propri si autopromuova sia "secondo" sia "contro" la ragione biologica che regola la biosfera. D'altra parte, da un punto di vista etologico, non si vede neppure perché dovrebbe, al suo livello di evoluzione, aver superato ed eliminato gli istinti afferenti la sua natura, che resteranno probabilmente in gran parte fissi e immutabili anche in avvenire, se pur correggibili con il raggiungimento di livelli di civilizzazione sempre più avanzati.

Nasce allora la clamorosa contraddizione di un animale che da un lato si è attribuito un investitura divina e nello stesso tempo non è stato capace di andare molto oltre le logiche predatorie e spietate di tutti gli altri esseri viventi, dai quali si distingue per il livello evolutivo, ma non già per la natura. Le capacità immaginative e astrattive della sua mente sono certamente straordinarie proiezioni oltre i limiti della sua intuizione della realtà, e non meno importanti e significative delle spesso sopravvalutate capacità della ragione, ma tutto ciò non lo ha per nulla staccato dalla materialità che lo costituisce e lo condiziona. Pertanto, ciò malgrado e dal più al meno, l’uomo continua a rimanere legato, come ogni altro animale, a quelle universali leggi della necessità, che concernono i quarks come ogni suo neurone. Ma, va detto, senza quelle eccezionali capacità proiettive non sarebbe neppure stato creabile, ed ora interpretabile, quello straordinario fenomeno storico, a un tempo antropologico (naturale) e culturale (artificiale), che è il sorgere del "senso del sacro", a cui ha fatto seguito, attraverso passaggi per lo più sconosciuti, la creazione e l'instaurazione delle religioni organizzate.

Il fatto religioso assume pertanto un’importanza antropologica particolare, poichè getta luce sulla struttura mentale dell'uomo e sulla sua esigenza di dotarsi di riferimenti ideali ed assiologici, i quali, proiettandolo in un orizzonte esistenziale che va oltre il piano animale, sono stati in grado di soddisfare esigenze psichiche specificamente umane, peraltro riscontrabili già in specie che hanno preceduto quella dell'homo sapiens. Per evitare allora di "gettare il bambino con l’acqua sporca" una filosofia dell’esistenza che voglia giungere ad una concezione dell'uomo esaustiva e corretta, ma che nello stesso tempo contempli e superi tali ancestrali esigenze psichiche, deve prendere in considerazioni anche questa importante realtà storica del sentimento religioso, per interpretarlo correttamente e collocarlo in modo adeguato nel contesto antropico. Tenere conto di ciò non significa peraltro farci condizionare dall’esigenza psichica che la religione soddisfa, ma semmai coglierne il più profondo significato, in una lettura filosofica dell’importantissima funzione conservatrice e protettrice della psiche (che si protegge contro i rischi dissociativi e disgregativi) all’interno di quel complesso funzionale a cui concorrono le altre tre organizzazioni mentali da noi considerate.
In altre parole la ragione biologica ha "programmato" la nostra psiche per funzionare così e non altrimenti, pertanto bisogna fare i conti con questa realtà, per vedere che cosa significhi e quali indirizzi euristici possa fornire. Il punto di vista scientifico in senso stretto, che attiene principalmente alla struttura e al funzionamento dell’organismo umano, nei suoi rapporti col tutto, non ha molto da dirci in questo campo, a meno di considerare tout court scienze la psicanalisi e la psicologìa in generale, che restano comunque utili (ma limitati) strumenti di indagine funzionale. L’importante è che si riesca a recuperare l’autentica realtà aiteriale, sottostante (ma equivocata o nascosta) all’interno delle ipostasi spiritualistico-religiose, riconoscendola in trasparenza come oggetto di un’intuizione vera, di cui è stata data (ingenuamente o furbescamente) una lettura scorretta.

Sostituendo al falso "spirito" divino teista l’aiteria, ed eliminando ogni elemento di fantasiosa trascendenza, il DR tenta di recuperarne la traccia autentica e nello stesso tempo di cancellare quell’orma contingente e impropria che si è impressa nella psiche attraverso i millenni. Nell’idema, nucleo dell’individualità, l’aiteria viene percepita, introiettata ed elaborata in un prodotto umano, ma nello stesso tempo anche extracorporeo, spendibile nell’etica, nell’estetica e in tutte le altre forme in cui si sarebbe espressa, secondo la tradizione teista, l’anima d’origine divina. Quindi col DR si passa da quell’interpretazione trascendentalistica e impropria, che considera l’anima come emanazione dello spirito di Dio, a quella che considera l’idema costituita dalla stessa materia del corpo e quindi ad esso omogenea. Non solo, ma va anche sottolineato che l’aiteria non è un "altrove" rispetto alla materia, ma le sta "al margine" (83), in uno strettissimo rapporto "topologico" a dispetto della sua totale estraneità "sostanziale".

L'homo sapiens diventa allora nella prospettiva dualistica la straordinaria fase di un'evoluzione della materia che la spinge verso un suo avvicinamento a quella che potrebbe essere una metaforica "sorella" d'origine, da cui è separata forse dalla nascita o forse da un precedente e ignoto evento cosmico. L'idema, che è presente, a diversi gradi di evoluzione, in tutto il mondo animale, ma fors'anche, elementarmente, in quello vegetale, diventa così elemento "interno" della biosfera in generale, quale frutto avanzato dell’evoluzione. L'idema, nella prospettiva dualistica, espunge la vecchia ipostasi dell "anima", ma in quanto prodotto emergente della vita sulla Terra nella sua generalità, perde anche quel carattere specificamente antropico che la presunzione umana aveva conferito all’anima stessa. In quanto teoricamente comune a tutto il mondo vivente essa, forse (e sottolineo il forse), ha raggiunto nell'homo sapiens il più elevato livello di funzionalità ai fini del passaggio dalla pura materialità a una certa forma di partecipazione ad una realtà, quella aiteriale, probabilmente preclusa ai più bassi gradi evolutivi.

È tuttavia evidente come l'idema umana resti uno strumento della materia in ogni caso molto rozzo per aver commercio con l’aiteria, ma nessuno ci vieta di pensare che in altri pianeti fuori del sistema solare o nello stesso avvenire della Terra esistano o esisteranno esseri viventi dotati di un’idemaassai più evoluta della nostra e in grado quindi di avere un rapporto con l’aiteria molto meno confuso e precario di quello che possiamo sperimentare noi. Questa considerazione ci rende anche consapevoli del lungo cammino che potrebbe attendere la biosfera, prima che possa ragionevolmente raggiungere livelli da produrre un essere vivente capace di costituire un vero ponte di comunicazione con l’aiteria o con gli altri presumibili reali che abbiamo ipotizzato.

Ma, come è già stato detto, la reciproca "estraneità" di aiteria e materia è assai lontana dal concetto di trascendenza dello spirito rispetto alla materia posto dalla religione, che presuppone un rapporto gerarchico tra ciò che trascende e ciò che è trasceso. Nel DR i due ambiti, e ciò che li costituisce, sono reciprocamente indipendenti e con la stessa dignità ontologica. L'essere dinamico(o divenire) della materia, nella sua provvisorietà, sembrerebbe (ma questa potrebbe essere solo una mia "inevitabile deformazione antropica") rivelare tuttavia un "muovere fuori di sé verso altro" molto più spiccato rispetto all'essere, probabilmente più stabile, dell’aiteria. Ciò equivale a dire che la materia rivelerebbe in più la capacità tendenziale di superare i propri confini e le proprie dimensioni strutturali, proiettandosi verso la pluralità della realtà generale. Questa capacità sembrerebbe rivelarsi nel fatto che essa, attraverso l'idema, diventa realmente una co-creatrice delle forme dell’aiteria. Per portare alle estreme conseguenze questo discorso "a ruota libera" sembrerebbe allora che la materia possa avere la capacità di andare verso l’aiteria. Questaparrebbe invece incapace di fare altrettanto, proprio perchè non sembrerebbe venire incontro alla materia, ma al contrario sottrarvisi, ed è questa la ragione per cui siamo indotti a pensarla fondata su un essere più "stabile". Come si vede nel DR il rapporto tra materia e aiteria risulta capovolto rispetto a quello delle filosofie ideologie spiritualistiche e delle ideologie religiose, dove è lo spirito ad essere mobile e andare alla materia bruta e immobile creandola. (84)

Allora l'homo sapiens, in termini dualistici, potrebbe essere considerato un avamposto biologico verso la realtà "plurale" che abbiamo ipotizzato; essendo capace, già oggi, di gettare uno sguardo oltre i limiti della materia. E forse in avvenire, per evoluzione propria, o quale materiale base per ulteriori mutazioni genetiche, anticipatore di forme più evolute della materia ed ancora più aperte verso ciò che oggi ci è totalmente ignoto. Un ignoto che non è lontano, come le galassie in fuga, ma "qui", negli anfratti di una realtà complessa, che i teologi e i filosofi deputati hanno più o meno sempre consapevolmente o inconsapevolmente voluto (o dovuto) semplificare ipostatizzando una monistica realtà "una e unitaria", per mantenere a un basso livello quelle tensioni che avrebbero potuto mettere in crisi una psiche non ancora abbastanza evoluta, la quale, per ragioni di omeostasi, non poteva accettare una realtà plurale che avvertiva come potenzialmente pericolosa.



5.2) Essere ed esistere

Se Heidegger si preoccupava che la sua ontologia non venisse scambiata per esistenzialismo, la mia preoccupazione nello stilare queste pagine è esattamente opposta. La consapevolezza della mia materialità e dei limiti del mio pensiero mi precludono la presunzione di indagare l'essere in quanto "origine e trascendenza" dell’esistente. Se contrappongo l'essere che sta "dentro l'universo" al nulla che potrebbe stare fuori e se uso termini come essere dinamico ed essere (probabilmente) stabile per designare ciò che sta alla base dei due ambiti della realtà, non per questo spero di aggiungere qualcosa, ontologicamente, al puro suono delle parole che li designano. Essi sono utilizzati come semplici termini di riferimento, per indicare ciò che deve essere supposto come origine, causa e sostanza di ciò che esiste, senza che di essi si possa avanzare alcuna ulteriore connotazione.

L'essere per il Dr è semplicemente la totalità degli enti reali, poiché, senza enti reali a testimoniarlo l'essere semplicemente "non è". Ma se vogliamo concederci una licenza poetica possiamo azzardarci a dire che forse si tratta della misteriosa "potenza" a cui va riferito l "atto" dell'esistere del nostro universo nel suo complesso; e tuttavia noi dell’essere in ogni caso potremmo sempre e soltanto percepire (kantianamente) il mostrarsi dei suoi effetti. E con un processo di riduzione al "certo", alla fin fine, l'unica esistenza della quale ci possiamo veramente occupare è ancora sempre soltanto la "nostra". E ciò ci riconduce al "primato" ontologico che avevamo riconosciuto all’individualità a suo tempo, quando l’avevamo assunta quale punto di partenza delle nostre ricerche.


È infatti la "nostra esistenza" in rapporto al "tutto" il vero oggetto del DR. Tutto quello che noi possiamo pensare di ciò che sta fuori di noi è il frutto delle limitate facoltà intellettive di cui disponiamo e tuttavia non possiamo contare su altro. L'importante è non tarpare le piccole ali del nostro intelletto e rinunciare a porci le domande che l'esistere ci pone, accettando passivamente le allettanti risposte preconfezionate che ci vengono offerte dalle ideologie religiose, oppure, al contrario, limitandoci ad un monismo materialistico che ci preclude ogni apertura all’ignoto in cui siamo immersi. È in questo senso che il DR è anche una filosofia esistenzialistica, avendo per oggetto soprattutto l’esistenza dell’uomo. Ma degli esistenzialismi laici noti e più recenti non possiede quel taglio intellettualistico da cui sono pervasi, i cui esiti vanno dall'ontologia mistica (85)alla surrogazione della religione, oppure verso un libertarismo velleitario, diventato l'intrigante e ambiguo substrato di mode culturali e comportamentali di carattere anticonvenzionale e disinibito (86), che hanno assunto il carattere di "estetismi" alla moda. Il DR è invece un esistenzialismo terra-terra, per l’uomo della strada, in cui prevale il buon senso comune unito ad un pizzico di pragmatismo; caratteristiche che lo mantengono lontanissimo dalle acrobazie dell’intelletto e della ragione fini a se stesse.



5.3) Il Bene e il Male.

I due termini indicano concetti interpretativi e di riferimento di enorme importanza, anche linguistica, i cui significati molteplici coprono tutta la complessa gamma dell'esperire umano. In origine essi devono essere stati delle semplici espressioni legate al piacere e al dolore corporei, poco dopo devono essere diventati segni verbali del desiderabile e dell'indesiderabile, soltanto in seguito hanno acquisito, per correlazione, analogia od estensione, la vasta gamma di accezioni attualmente in uso. Tuttavia è nel campo culturale e specialmente in quello metafisico che bene e male hanno avuto lo sviluppo più sorprendente, allontanandosi gradualmente dal significato primitivo sino a stravolgerlo ideologicamente nel reciproco opposto. Così la trasgressione della legge divina che produce piacere può essere considerato male e il dolore sopportato in omaggio alla divinità può essere ritenuto bene.

Ma la relatività di male e bene è di più vasta portata, poiché il desiderio è un impulso che va in mille direzioni talvolta opposte. Così il danno di un'individuo può andare a vantaggio dell'altro, fino all'esito estremo espresso dal proverbio latino "mors tua vita mea". E tuttavia, uscendo dagli abusi dell'ideologia, noi possiamo chiederci se dobbiamo abbandonare il male e il bene al puro relativismo espressivo o tentare di attribuire ai due termini un significato meno vago, dotato di un significato univoco e definito che non contrasti il buon senso e la ragione.

In una prospettiva dualistica emerge immediatamente una difficoltà in più, poiché ci dobbiamo porre preliminarmente il quesito circa la legittimità dell'uso della coppia di opposti relativamente ad entrambi o a uno solo dei due ambitidella realtà dei quali ci stiamo occupando. E in ogni caso, quali potrebbero esserne i rispettivi, e diversi, significati? Per fortuna possiamo sgombrare facilmente e subito il campo di un corno del problema, affermando che, probabilmente, ove sia presumibilmente assente una qualche forma di divenire di tipo materiale, ed è il caso dell’aiteria, diventi assurdo cercare di applicarvi questi due concetti meramente antropici. Dove c'è, presumibilmente, essere stabile e non divenire (essere dinamico) in senso materialistico-evolutivo, non possono esistere stati conflittuali tra le forme diverse dell’aiteria relativamente al binomio bene/male.

Per altro verso, essendo i modi d'essere fondamentali dell’aiteria quelli della libertà e della qualità, non possiamo di conseguenza introdurre nell'ambito dell’aiteria gli effetti delle leggi della necessità, inerenti alla sostanza e al divenire della materia, che possono ammettere gli esiti opposti del "positivo" e del "negativo". Resta persino da vedere se, e in quale modo, abbia senso applicare la nostra coppia di termini all'ambito della stessa materia, dal momento che in essa tutto è in trasformazione e in evoluzione continua, per cui i meccanismi della necessità (alterabili dal caso), con lo scambio e il trapasso delle cause negli effetti (compresi quelli di feed-back) (87), li rendono a volte sovrapposti, confondibili e talvolta interscambiabili.

Che a proposito della materia inorganica sia impossibile decidere in una reazione chimica, dove determinate sostanze diventano altre, se ciò che avviene sia bene o male, se non in termini di utilità o danno per gli uomini che la osservano, la effettuano o la subiscono, è fuori discussione. E la stessa cosa si può dire di quella materia organica solo virtualmente vivente che precede o segue la vita. Le cose stanno in modo diverso se si tratta di materia vivente. Le cellule che costituiscono un corpo si rigenerano continuamente e la morte di una cellula e funzionale alla nascita di quella che la sostituisce; proprio questo consente la sopravvivenza del corpo (88). Ma se dall'unità minima che costituisce la materia vivente ci spostiamo sull'essere vivente pluricellulare nel suo insieme, il binomio vita/morte così espresso diventa immediatamente un'antinomìa. La "nostra" vita si distingue e si contrappone alla vita in generale e il nostro vivere diventa il sommo bene da difendere al di là di tutto. Persino il piacere da cui siamo biologicamente attratti passa in seconda linea, al punto che siamo disposti a soffrire per una terapia o un intervento chirurgico che ci assicurino la conservazione della vita.

Il fatto è che l'arresto cardiaco in un essere vivente non è una pura trasformazione, ma la cessazione funzionale di un entità conchiusa ed isolabile del "tutto" biologico. Ciò risulta ancora più evidente se si pensa che dal punto di vista chimico resta, almeno per qualche tempo, immutata la stessa consistenza corporea e la sua composizione molecolare. Il male sta allora proprio qui, nel passaggio dell’individualità a una totalità che conclude un processo dove si passa dall'esistenza di un "io" al suo annullamento, mentre la putrefazione che segue la morte è una normale trasformazione chimica, dove la natura e la somma degli atomi rimane invariata. Ma se il "soffio vitale" è quasi un nulla rispetto alla struttura basilare della materia, esso è tuttavia la forma di essa che ne testimonia l'evoluzione e il progresso, per questo deve essere considerato il valore più prezioso da essa conseguito. Né è possibile spingerci oltre, per affermare che un valore ancora maggiore possano avere la psiche, la ragione, l'intelletto o l'idema, poiché si tratta di mere funzioni dell'organismo vivente, che hanno fine nel momento in cui si verifica la morte cerebrale.
Ma la dialettica della vita, con le implicazioni sopra ricordate, sotto il profilo teorico (e quindi generale) non ammette soltanto il nostro punto di vista individuale, ma anche quello collettivo del nostro gruppo o del nostro popolo, anzi, quello dell'intera specie. Però questo legittima allora anche il punto di vista virtuale di ogni altra specie vivente e persino la somma di tutte le specie viventi, quindi la biosfera nel suo insieme. Allora, se noi vogliamo adottare un criterio valido per l'utilizzo dei concetti di bene e di male ci vediamo costretti, logicamente, ad includere i punti di vista virtuali che riguardano tutte le forme di vita, con le quali siamo apparentati dall'origine comune. Se il criterio deve avere validità generale noi dobbiamo quindi abbandonare il riferimento al desiderio individuale, che ha una pura valenza psicologica, passando decisamente a quello della generale "volontà di vita", che ci orienta verso l’autoconservazione e la sopravvivenza. Il termine, che viene mutuato da Schopenauer (89), nel DR assume però un significato un pò differente. Per noi la volontà di vità è irrazionale e cieca soltanto a livello individuale, mentre per Schopenauer essa assume carattere di totalità. Sotto il profilo della totalità invece per noi la volontà d.v. risponde pienamente alla ragione biologica, che la prevede e la include. Ragione biologica che potrebbe anche venir definita come una specie di " intelligenza della materia evoluta", in quanto la regola e la guida, per la conservazione e il miglioramento adattativo (nella sua generalità) al mondo inorganico che l'accoglie.

Emerge allora chiaramente che la coppia bene/male e i suoi derivati hanno senso unicamente in relazione alla vita nel suo insieme, ma che il loro significato non può essere neppure riferito solamente agli estremi della vita e della morte; perciò dobbiamo anche includere tutto ciò che, sotto forma di situazioni, accadimenti o corollari ad essi, si colloca nel corso vitale di ogni esemplare della biosfera nell’arco dell’intera esistenza, che sta tra il "venire" alla vita e l’ "andarsene" della rigidità cadaverica. Non è soltanto più questione di esistere o no, ma anche di "modalità" dell'esistere stesso, che sono soggettivamente forse più importanti del vivere o del morire.

A questo punto possiamo trarre una conclusione, asserendo che è bene tutto ciò che in qualsiasi modo afferma la vita, la conserva, la sviluppa e la migliora, per contro è male tutto ciò che la nega, la compromette, la fa regredire e la peggiora. Ne deriva che anche il danneggiamento di un qualsiasi strumento o mezzo che accompagni utilmente la nostra vita è un accadimento negativo. La precarietà della vita in sé è accompagnata da quella di ogni nostro potere o attributo, e la considerazione di ciò ci consente un'ulteriore formulazione più estensiva (ma non priva di qualche ambiguità) che potrebbe suonare così: <<Nel divenire della materia e nel suo mutamento continuo è bene ciò che comporta conservazione, incremento e progresso, mentre è male ciò che comporta distruzione, riduzione e deterioramento.>>

Ma che ne è dei significati metafisici ed etici che il bene e il male hanno assunto in tutte le religioni e in tutte le culture ad ogni latitudine e longitudine? Diciamo che il DR non nega aprioristicamente ogni valore a queste determinazioni tradizionali e culturali, ma che si astiene dall’esercitare un giudizio su parametri che sono specifici ed inerenti a forme di civiltà a tutt’oggi non ancora sovrapponibili, e che quindi è praticamente impossibile stabilire criteri univoci per pesare valori e disvalori che eccedano i criteri su esposti. I quali, eleggendo la vita, ovvero la sua conservazione e il suo miglioramento, a metro di giudizio, posseggono quei caratteri di universalità difficilmente attribuibili alle singole culture e alle morali locali.

Ma avendo noi posto dualisticamente materia ed aiteria ed inoltre, in un certo senso, contrapposto necessità a libertà, non possiamo neppure astenerci dal pronunciarci in proposito. Ebbene, dal punto di vista dualista (e coerentemente con quanto fin’ora esposto) non possiamo neppure dire che la libertà sia più prossima al bene di quanto lo sia la necessità, dove si tenga conto che questi due termini hanno soltanto un significato antropologco e non cosmologico. Allora diviene evidente che ogni affermazione della libertà individuale, contro ogni forma di costrizione, limitazione od attentato sia da parte delle forze della natura, sia a causa di altre forme di vita (virus, batteri, ecc.), sia per cause endogene, esogene, ambientali o sociali, deve essere considerate un valore correlativo al bene unicamente "per l’uomo" nella sua singolarità; ma a questo bene, ribadisco, non può essere concesso alcun valore più estensivo che vada oltre il "per me" o il "per te".




5.4) Trasformazione e persistenza.

Nel paragrafo precedente abbiamo tematizzato la vita e le abbiamo riconosciuto il carattere di sommo bene per quella porzione di universo che ci concerne, ma abbiamo anche sottolineato che non è possibile disgiungere la morte dalla vita senza cadere negli schemi acritici delle ideologie. Si tratta delle due facce della stessa medaglia, e diventa persino difficile affermare, malgrado ciò che abbiamo sostenuto sopra, che la morte di un individuo sia "in senso assoluto" male. È, tutt’al più, a livello di specie che la scomparsa può ritenersi un male quando depaupera la "diversità" biologica, ma a livello del singolo e da un punto di vista generale tale considerazione è abbastanza irrilevante. E tuttavia, se il DR è un filosofia dell’esistenza, che vuole essere strumento utile per la vita di chi lo faccia proprio e lo adotti come concezione del mondo, è indispensabile affrontare anche il tema della morte. Ma qui dobbiamo essere molto cauti, poichè ci addentriamo su un terreno concettualmente pericoloso, dove è facile sia utilizzare, più o meno consapevolmente, elementi psicologici piuttosto che biologici, sia cadere nelle prospettive culturali di un tradizione millenaria, ricca di elementi letterari e poetici, ma in quanto tali spesso irrealistici. La morte è un evento variamente visto e sentito, ai limiti amato/odiato od esaltato/disprezzato. La morte è da sempre e per lo più sentita come "fine" di qualcosa ed "inizio" di qualcos’altro, ascesa all’essere od immersione nel nulla, accesso al Tutto o perdita di tutto, ingresso nel regno di Dio o condanna a rinascere per espiare.

Nella prospettiva dualistica è evidente che il problema della morte diventa il problema dell’idema e dovremo limitarci a procedere per induzione, evitando di cadere nella trappola delle suggestioni metafisiche. Abbiamo detto che l’idema riceve ed elabora aiteria e che ogni forma di questa è svincolata dai destini della materia vivente, in quanto appartenente ad un altro ambito. Inoltre noi, con la morte, patiamo l’annullamento della nostra persona, ma nello stesso tempo partecipiamo alla conservazione della vita in generale. In altre parole, la "nostra" morte va contro la "nostra" volontà di vita, ma a favore della volontà di vita nella sua generalità. In un certo senso la volontà della parte va contro la volontà del tutto, ma la parte riscatta questa colpa morendo.

Ma che cosa succederà al "prodotto aiterico" che l’idema ha costruito quando essa muoia? Di questo prodotto, che avevamo chiamato idioaiterio, il quale non possiede le qualificazioni né della materia né della vita (in quanto di diversa natura) che "ne è" quando si trovi privo di supporto materiale? Prima ancora però di abbozzare una risposta emerge un’obiezione alla domanda stessa, che potrebbe suonare: e perchè mai l’idioaiterio dovrebbe avere bisogno di quel supporto "per essere"?

Vediamo: se tale prodotto è svincolato dalle leggi della necessità allora (contestualmente al decesso del corpo) esso dovrebbe poter accedere a quel mondo della libertà che l’aiteria costituisce (e di cui l’idema era ad un tempo testimone ed anticipatrice senza esserne partecipe) già nella sua fase di "formazione", senza che l’accesso all’ambito che gli è proprio (l’aiteria) debba attendere la morte di quella materiale "macchina percettrice e formatrice" che è l’idema. Ciò ci permetterebbe forse addirittura di ipotizzare che già nel corso della vita individuale una qualche forma aurorale dell’idioaiterio goda già di esistenza autonoma in grado di rapportarsi all’aiteria nella sua globalità? Forse.

Ma allora, potremmo noi concludere che l’idioaiterio può venire supposto come un entità "reale" anche "al di fuori" della vita individuale che lo genera e lo supporta, durante la quale peraltro esso si "forma"? Se ne potrebbe perciò dedurre che in quanto figlio del nucleo della nostra individualità (l’idema) e in quanto sottratto per la sua natura alla necessità inoppugnabile della materia, l’idioaiterio debba stare "tendenzialmente" (e fin dal suo sorgere) non "dentro" la materia, ma "ai margini" di essa?

In ogni caso (ma sull’argomento torneremo) dobbiamo concludere che l’idioaiterio (che persiste "al margine" del nostro cadavere) "entra" (o "rientra") sotto nuova forma nell’ambito che gli è proprio? Ci siamo forse reinventati una forma camuffata di immortalità dell’anima? Decisamente e con tranquillità possiamo rispondere: no! Infatti non è l’idema che sopravvive, poiché in ogni caso lo sarebbe soltanto il suo "prodotto", quale elaborazione di una "materia prima" aiteriale di cui l’idema non è parte e che può soltanto percepire e trasformare. Noi allora siamo legittimati a ritenere che l’idioaiterio possa sopravvivere alla morte dell’idema, ma in ogni caso non per quanto tempo: forse ciò potrebbe durare soltanto un istante! Già, ma è la materia che ha creato il tempo, avendolo come coordinata; può l’aiteria avere un tempo o collocarsi nel tempo? Ne riparleremo.



5.5 Il destino.

Il concetto, nella sua accezione comune, è abbastanza banalizzato, diventato ormai quasi un’idea terapeutica per l’accettazione di noi stessi o di ciò che ci compete e ci circonda, insieme con la deresponsabibilizzazione per la nostra apatia o per la nostra incapacità di scegliere e di decidere. In termini filosofici la sua storia ha radici lontane e si interseca con quella del fato, già presente nella più lontana mitologia greca, che ha assunto nel mondo romano persino le connotazioni di un dio. Ma più in generale possiamo dire che il destino viene considerato come una forza misteriosa (una "vis a tergo"), razionale o irrazionale non si sa, che in modo ineluttabile determina tutto ciò che avviene nell’esistenza di un individuo, di una famiglia, di un popolo, dell’umanità, del pianeta. Quindi storicamente il concetto di destino, più che riferito al singolo (a cui viene più spesso riferito il concetto di fato), riguarda il mondo nella sua totalità ed è stato anche interpretato come "causa necessaria del divenire"(90) . In questa accezione è stato inteso talvolta anche come provvidenza, ed evidentemente ha creato qualche problema a filosofi o teologi preoccupati di non inficiare il libero arbitrio e la libertà dell’uomo in generale (91). Il punto di vista del DR (che lo assume per ora soltanto dal punto di vista individuale) si discosta nettamente da quanto sopra delineato, infatti esso vede il destino come un "sistema" di cause, che disegna un "progetto" di vita al quale, ognuno di noi, involontariamente, si uniforma nel proprio pensare e specialmente nel proprio agire.

Da un punto di vista etologico e psicanalitico si sa che le esperienze vissute nel periodo infantile sono determinanti, almeno quanto le caratteristiche ereditate per via genetica; se ad esse si aggiunge il contesto ambientale e le successive incrostazioni esperienziali si ha un quadro abbastanza chiaro di ciò che si intende nel DR con destino. A completamento del quadro si aggiunga che, in termini fisiologici e non patologici, il destino come noi dualisti lo intendiamo ricorda per un verso la freudiana coazione a ripetere, che è quell’inconscia tendenza alla ripetizione, in frangenti analoghi, di modi di atteggiarsi e di comportarsi costanti (perchè condizionati dal proprio passato) ai quali è molto difficile sfuggire. Ma nello stesso tempo per il dualista il destino è qualcosa che lo concerne positivamente, che attiene la sua personalità, e che quindi non va solo accettato ma, entro certi limiti, condiviso ed approvato.


Nel DR gli elementi-agenti che vanno a determinare, quali concause, il "progetto destinale" sono: 1) l’eredità genetica, 2) gli imprinstings infantili, 3) la condizione, 4) la situazione, 5) il ruolo, 6) la classe sociale, 7) il censo. La somma funzionale di questi agenti delinea un percorso esistentivo nel quale noi siamo immessi e dal quale può essere tanto difficile quanto, in taluni casi, inopportuno derogare troppo. Detto questo, ne deriva che quando noi parliamo di libertà umana (e più propriamente di eleuteria(92)) in senso corrente (cioè esistentivo) noi ne dobbiamo riconoscere la relatività, senza inseguire fantasmi velleitari e ideologici (93) che ci allontanerebbero dalla realtà. Vediamo ora nel dettaglio questi elementi.

Dell’eredità genetica non c’è molto da dire, se non che ci riferiamo ai risultati delle ricerche scientifiche in proposito, sia genetiche in senso stretto, sia etologiche e psicologiche, che su questo argomento hanno già chiarito quanto basta per definirne l’importanza fondamentale nella determinazione del carattere individuale, nonché delle predisposizioni, capacità o incapacità, tendenze di pensiero e di comportamento.

Per quanto riguarda gli imprintings infantili sono state le ricerche e le esperienze di Konrad Lorenz con gli animali, intorno alla metà del ‘900, a dire una parola decisiva in proposito (94). E le ricerche successive, sue e di altri etologi, non hanno fatto altro che confermare l’importanza di questo fattore di condizionamento comportamentale nell’uomo relativo alle primissime fasi della vita, anche molto al di là dei termini di partenza del suo scopritore.

La condizione potrebbe quasi essere considerata elemento superfluo, poiché è in realtà una risultante di eredità genetica ed imprintings, ma ad essa concorrono e si sovrappongono altri fattori concomitanti e divergenti dell’esperienza adolescenziale e giovanile, per cui essa, nell’adulto, assume caratteri definiti che ci consentono di porla indipendentemente da essi.

La situazione è il "medium", l’elemento-ambiente esterno, in cui l’individuo è inserito, si muove ed agisce; potremmo anche definirlo il contesto geografico-temporale-sociale nel quale la persona viene a trovarsi. La situazione può assumere pertanto un carattere contingente, come anche stabile o ripetitivo, possedere carattere di eccezionalità o di normalità, come di transitorietà o costanza, ma in ogni caso è un decisivo fattore di condizionamento dello stato d’animo di un individuo e del suo comportamento. Come ognuno di noi ha sperimentato, siamo pesci abituati a nuotare in una certa acqua, se ci trasferiscono altrove andiamo incontro a un disagio e a difficoltà più o meno accentuati, a seconda del grado di "desiderabilità" e di "congenialità" del nuovo ambiente. In termini psicanalitico-energetici potremmo dire che le situazioni possono essere (freudianamente) a basso od alto investimento psichico, a seconda che producano stress o relax.

Il ruolo. Tutti noi ne abbiamo uno, in famiglia, nella professione o nello svago. Figlio o genitore, capo o subalterno, bravo o incapace, in ogni frangente della nostra vita, salvo forse quando dormiamo, siamo chiamati a sostenere una "parte", più o meno congeniale e più o meno facile, che determina e plasma il nostro carattere, determinando spesso la stima o la disistima di sé.

La classe sociale. Questo agente è stato preso in considerazione per quanto nel cosidetto "primo mondo", ovvero in quello a diffusa democrazia e tecnologia avanzata, esso possa considerarsi praticamente assente o comunque poco rilevante, coincidendo praticamente col censo. Ma se noi ci spostiamo in aree del pianeta dove sopravvivono vecchie stratificazioni sociali (come l’India delle Caste o certe società africane od asiatiche sottosviluppate) quest’ultimo agente destinale può assumere un’importanza assolutamente rilevante. In questi contesti diventa non meno importante un fattore come il sesso di appartenenza (che di norma potrebbe considerarsi compreso nell’eredità genetica), poiché qui caratterizza in modo pesantemente negativo la donna, che in quanto tale può subire dei condizionamenti e delle limitazioni crudeli e aberranti.

Infine dobbiamo considerare il censo, agente del quale credo che siamo tutti disposti a riconoscere l’importanza. Questo fattore sociale, prevalentemente mutevole e dinamico nel mondo sviluppato, può coniugarsi invece (nei contesti molto tradizionali o sottosviluppati) al sopracitato agente della classe sociale, col quale abbastanza spesso si identifica. Che la quantità di danaro di cui si può disporre sia un fattore importante della nostra esistenza lo possono negare soltanto gli ipocriti. Il fatto che essere ricchi renda più facile essere buoni, tolleranti e generosi è quasi una tautologia. Noi non demonizziamo il danaro e tuttavia per la prospettiva nella quale Il DR ci pone il suo ruolo è poco importante. A meno che non si aggiunga che con i soldi sia più facile accedere ai libri di poesia, alle esposizioni di pittura, ai concerti, al teatro, al cinema e ad ogni altro accadimento culturale che migliori la nostra sensibilità estetica. In questo caso possiamo concludere che sì, i soldi favoriscono la possibilità (si badi"solo la possibilità") di sperimentare eventi idemali di carattere estetico. Ma il campo dell’esperire idemale, come vedremo, è molto più ampio e profondo.

Dopo aver definito il destino, secondo il DR, ci si può chiedere quale utilità pratica ne derivi per la nostra esistenza. Diciamo allora che esso è una sorta di "risultante convenzionale" costituita da una serie di parametri, altrettanto convenzionali e che può servire come strumento di auto-analisi delle proprie vicende esistentive. O come uno strumento per leggere il presente alla luce del passato, cercando con ciò di capire un pò meglio perché le cose che ci riguardano vadano in un certo modo piuttosto che in un altro. Ciò detto, occorre però sempre tenere presente che se il destino agisce come una corrente che ci porta sempre in una certa direzione vi è sempre la possibilità che il caso scompigli questo piano, facendo sì che i sopraggiunti accadimenti casuali "ridisegnino" il progetto destinale in modo anche sostanzialmente diverso da quello precedente. Quindi il destino ci condiziona, ma questo condizionamento può sempre ridursi o addirittura annullarsi in ogni momento a causa di accadimenti casuali di grande impatto esistentivo.

Abbiamo indicato sette parametri determinabili più uno indeterminabile e imprevedibile per sottolineare il fatto che sono sempre molteplici i fattori che concorrono a imprimere una direzione e a "disegnare" il corso della nostra vita. E abbiamo fatto questo per sottrarre il destino a quella tradizionale idea di "strada" precostituita (dalla volontà di Dio o di qualcos’altro) a cui saremmo legati nel corso della nostra avventura esistenziale, il che ci sembra, oltre che ridicolo, pericolosamente sviante, poichè ci depaupaera a priori della nostra eleuteria, che può essere considerata senza alcuna esistazione il bene più prezioso di cui disponiamo: un bene più prezioso dello stesso vivere.




NOTE

NOTE 5.1

(82)Ci riferiamo alla già citata Teoria delle Superstringhe.

(83) Usiamo questa espressione figurata per indicare la modalità nella quale l'aiteria si pone rispetto alla materia, richiamandoci al metaforico "universo spugnoso" avanzato a suo tempo.

(84) Ma non rispetto al sistema Samkhya, dove è la prakriti (la materia) che va verso il purusa (lo spirito individuale) in cui si annulla. Secondo una metafora già citata il purusa (che è inerte e stabile) agisce sulla prakriti (evolventesi e caotica) come la calamita agisce sul ferro.

NOTE 5.2

(85)È il caso della filosofia dell'ultimo Heidegger.

(86) Fenomeno di indubbia rilevanza sociale e di costume è stato, nel decennio 1950-1960, il diffondersi dell'esistenzialismo ateo di Sartre in una certa élite giovanile e intellettuale,con notevoli ricadute nel mondo letterario e dello spettacolo. Ciò avvenne specialmente a Parigi, ma si diffuse poi nel resto della Francia e in altri paesi dell'Europa Occidentale.

NOTE 5.3

(87) Il termine inglese viene comunemente tradotto in italiano con retroazione. Di origine elettronica ed informatica il termine è entrato anche in biologia e sta ad indicare l'effetto di un prodotto del processo di trasformazione che va ad attivare od inibire il comportamento di un agente primario del processo stesso.

(88) Questa affermazione nella biologia contemporanea è diventata vera sotto molteplici aspetti. Tra essi è molto interessante il fenomeno dell'apoptosi (o suicidio cellulare) grazie al quale le cellule che sono diventate inutili nella costruzione dell'embrione si lasciano morire per lasciare spazi vuoti che consentano il modellamento della struttura animale. Uno dei più assidui ricercatori e tra i massimi studiosi di questo fenomeno è il francese J.C.Ameisen che nel libro La sculpture du vivant (tradotto in italiano con Al cuore della vita) espone le sue esperienze e ne fornisce un'interpretazione molto interessante.

(89) Arthur Schopenauer ha posto la "volontà di vita" a base del suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Essa è da lui concepita come l'impulso universale che sta alla base della vita. Come forza originaria, inconsia ed irrazionale essa domina il mondo ed è causa primaria della sofferenza che lo pervade. Soltanto l'uomo è in grado di prenderne coscienza e di sottrarvisi, ma per far questo deve prendere le distanze dal mondo fenomenico (della Rappresentazione), sopprimendo il desiderio ed entrando in uno stato contemplativo che gli renda accessibile il mondo delle idee (attraverso l'arte, la compassione e l'ascesi). È evidente in questa filosofia l'influsso delle filosofie ascetiche indiane che cominciano ad essere note in Europa intorno alla fine del '700.

NOTE 5.5

(90) Dagli Stoici, che parlarono apertamente del fato negli stessi termini di provvidenza, quale governo divino degli accadimenti nel mondo in funzione di un ordine perfetto e immutabile.

(91) È abbastanza interessante la ripresa del concetto di destino da parte della filosofia moderna. Nietzsche e dopo di lui gli esistenzialisti Heidegger e Jaspers hanno dato del destino un'interpretazione di carattere non costrittivo, ma non privo di ambiguità. Per il primo l'accettazione di esso diventa dionisiaca accettazione della vita (espressa come amor fati). In Heidegger la realizzazione del proprio destino è la decisione di ritornare in se stessi nella ripetizione delle proprie possibilità; ciò valendo come riaffermazione della propria autenticità e ricerca delle opzioni ad essa connesse. In Jaspers il destino è visto come l'identità dell'io nel suo rapporto col mondo.

(92) Indichiamo con questo termine, che in greco significa appunto libertà "umana" (e aggiungiamo noi: esistentiva) nel senso di indipendenza da costrizioni (ai limiti della sfrenatezza). Lo abbiamo fatto per tenerla distinta dal concetto di libertà, che avevamo extrafisicamente ed esistenzialmente opposto a necessità. In pratica, per questioni colloquiali, useremo tuttavia spesso la parola "libertà" sottintendendo eleuteria.

(93) Penso al concetto di libertà quale viene inteso sia da filosofie socio-politiche di tipo idealistico (come il marxismo) e sia da filosofie esistenzialistiche come quella di Sartre. Per questo filosofo l'uomo <è costretto ad essere libero>, ossimoro decisamente intellettualistico, come lo è tutta la sua filosofia.

(94) Lorenz scoprì che un piccolo di oca selvatica, appena dopo la schiusa e in assenza della madre naturale, lo aveva seguito ed eletto a "madre" (artificiale) in quanto primo essere od oggetto in movimento di cui aveva percepito la presenza.