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I bambini rachitici 5, venerdì Oggi ho fatto vacanza perché; non stavo bene, e mia madre
m'ha condotto con sé; all'istituto dei ragazzi rachitici, dov'è; andata a raccomandare
una bimba del portinaio; ma non mi ha lasciato entrar nella scuola... Non hai
capito perché;, Enrico, non ti lasciai entrare? Per non mettere davanti a quei
disgraziati, lì nel mezzo della scuola, quasi come in mostra, un ragazzo sano
e robusto: troppe occasioni hanno già; di trovarsi a dei paragoni dolorosi.
Che triste cosa! Mi venne su il pianto dal cuore a entrar là; dentro. Erano
una sessantina, tra bambini e bambine... Povere ossa torturate! Povere mani,
poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! Subito
osservai molti visi graziosi; degli occhi pieni d'intelligenza e di affetto:
c'era un visetto di bimba, col naso affilato e il mento aguzzo, che pareva una
vecchietta, ma aveva un sorriso d'una soavità; celeste. Alcuni, visti davanti,
son belli, e paion senza difetti, ma si voltano... e vi danno una stretta all'anima.
C'era il medico, che li visitava. Li metteva ritti sui banchi, e alzava i vestitini
per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse, ma non si vergognavano punto,
povere creature; si vedeva ch'eran bambini assuefatti a essere svestiti, esaminati,
rivoltati per tutti i versi. E pensare che ora son nel periodo migliore della
loro malattia, ché; quasi non soffron più;. Ma chi può; dire quello che soffrirono
durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità;,
vedevano diminuire l'affetto intorno a sé;, poveri bambini, lasciati soli per
ore ed ore nell'angolo d'una stanza o d'un cortile, mal nutriti, e a volte anche
scherniti, o tormentati per mesi da bendaggi e da apparecchi ortopedici inutili!
Ora però;, grazie alle cure, alla buona alimentazione e alla ginnastica, molti
migliorano. La maestra fece fare la ginnastica. Era una pietà;, a certi comandi,
vederli distender sotto i banchi tutte quelle gambe fasciate, strette fra le
stecche, nocchierute, sformate, delle gambe che si sarebbero coperte di baci!
Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato
sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano; altri, facendo la spinta
delle braccia, si sentivan mancare il respiro, e ricascavano a sedere, pallidi,
ma sorridevano, per dissimulare l'affanno. Ah! Enrico, voi altri che non pregiate
la salute, e vi sembra così poca cosa lo star bene! Io pensavo ai bei ragazzi
forti e fiorenti, che le madri portano in giro come in trionfo, superbe della
loro bellezza, e mi sarei prese tutte quelle povere teste, me le sarei strette
tutte sul cuore, disperatamente, avrei detto, se fossi stata sola: non mi movo
più; di qui; voglio consacrare la vita a voi, servirvi, farvi da madre a tutti
fino al mio ultimo giorno... E intanto cantavano, cantavano con certe vocine
esili, dolci, tristi, che andavano all'anima, e la maestra avendoli lodati,
si mostraron contenti; e mentre passava tra i banchi, le baciavano le mani e
le braccia, perché; senton tanta gratitudine per chi li benefica, e sono molto
affettuosi. E anche hanno ingegno, quegli angioletti; e studiano, mi disse la
maestra. Una maestra giovane e gentile, che ha sul viso pieno di bontà; una
certa espressione di mestizia, come un riflesso delle sventure che essa accarezza
e consola. Cara ragazza! Fra tutte le creature umane che si guadagnan la vita
col lavoro, non ce n'è; una che se la guadagni più; santamente di te, figliuola
mia. TUA MADRE
Sacrificio. 9, martedì Mia madre è; buona, e mia sorella Silvia è; come lei, ha lo stesso cuore grande e gentile. Io stavo copiando ieri sera una parte del racconto mensile Dagli Appennini alle Ande, che il maestro ci ha dato a copiare un poco a tutti, tanto è; lungo; quando Silvia entrò; in punta di piedi e mi disse in fretta e piano: - Vieni con me dalla mamma. Li ho sentiti stamani che discorrevano: al babbo è; andato male un affare, era addolorato, la mamma gli faceva coraggio; siamo nelle strettezze, capisci? non ci sono più; denari. Il babbo diceva che bisognerà; fare dei sacrifici per rimettersi. Ora bisogna che ne facciamo anche noi dei sacrifici, non è; vero? Sei pronto? Bene, parlo alla mamma, e tu accenna di sì e promettile sul tuo onore che farai tutto quello che dirò; io. Detto questo, mi prese per mano, e mi condusse da nostra madre, che stava cucendo, tutta pensierosa; io sedetti da una parte del sofà;, Silvia sedette dall'altra, e subito disse: - Senti, mamma, ho da parlarti. Abbiamo da parlarti tutti e due. - La mamma ci guardò; meravigliata. E Silvia cominciò;: - Il babbo è; senza denari, è; vero? - Che dici? - rispose la mamma arrossendo, - Non è; vero! Che ne sai tu? Chi te l'ha detto? - Lo so, disse Silvia, risoluta. - Ebbene, senti, mamma; dobbiamo fare dei sacrifici anche noi. Tu m'avevi promesso un ventaglio per la fin di maggio, e Enrico aspettava la sua scatola di colori; non vogliamo più; nulla; non vogliamo che si sprechino i soldi; saremo contenti lo stesso, hai capito? - La mamma tentò; di parlare, ma Silvia disse: - No, sarà; così. Abbiamo deciso. E fin che il babbo non avrà; dei denari, non vogliamo più; né; frutta né; altre cose; ci basterà; la minestra, e la mattina a colazione mangeremo del pane; così si spenderà; meno a tavola, ché; già; spendiamo troppo, e noi ti promettiamo che ci vedrai sempre contenti ad un modo. Non è; vero, Enrico? - Io risposi di sì. - Sempre contenti ad un modo, - ripeté; Silvia, chiudendo la bocca alla mamma con una mano; - e se c'è; altri sacrifici da fare, o nel vestire, o in altro, noi li faremo volentieri, e vendiamo anche i nostri regali: io do tutte le mie cose, ti servo io di cameriera, non daremo più; nulla a fare fuor di casa, lavorerò; con te tutto il giorno, farò; tutto quello che vorrai, sono disposta a tutto! A tutto! - esclamò; gettando le braccia al collo a mia madre; - pur che il babbo e la mamma non abbian più; dispiaceri, pur ch'io torni a vedervi tutti e due tranquilli, di buon umore come prima, in mezzo alla vostra Silvia e al vostro Enrico, che vi vogliono tanto bene, che darebbero la loro vita per voi! - Ah! io non vidi mai mia madre così contenta come a sentir quelle parole; non ci baciò; mai in fronte a quel modo, piangendo e ridendo, senza poter parlare. E poi assicurò; Silvia che aveva capito male, che non eravamo mica ridotti come essa credeva, per fortuna, e cento volte ci disse grazie, e fu allegra tutta la sera, fin che rientrò; mio padre, a cui disse tutto. Egli non aperse bocca, povero padre mio! Ma questa mattina sedendo a tavola... provai insieme un gran piacere e una gran tristezza: io trovai sotto il tovagliolo la mia scatola, e Silvia ci trovò; il suo ventaglio.
L'incendio 11, giovedì Questa mattina io avevo finito di copiare la mia parte del
racconto Dagli Appennini alle Ande, e stavo cercando un tema per la composizione
libera che ci diede da fare il maestro, quando udii un vocìo insolito per le
scale, e poco dopo entrarono in casa due pompieri, i quali domandarono a mio
padre il permesso di visitar le stufe e i camini, perché; bruciava un fumaiolo
sui tetti, e non si capiva di chi fosse. Mio padre disse: - Facciano pure, -
e benché; non avessimo fuoco acceso da nessuna parte, essi cominciarono a girar
per le stanze e a metter l'orecchio alle pareti, per sentire se rumoreggiasse
il foco dentro alle gole che vanno su agli altri piani della casa. E mio padre
mi disse, mentre giravan per le stanze: - Enrico, ecco un tema per la tua composizione:
i pompieri. Provati un po' a scrivere quello che ti racconto. Io li vidi all'opera
due anni fa, una sera che uscivo dal teatro Balbo, a notte avanzata. Entrando
in via Roma, vidi una luce insolita, e un'onda di gente che accorreva: una casa
era in fuoco: lingue di fiamma e nuvoli di fumo rompevan dalle finestre e dal
tetto; uomini e donne apparivano ai davanzali e sparivano, gettando grida disperate,
c'era gran tumulto davanti al portone; la folla gridava: - Brucian vivi! Soccorso!
I pompieri! - Arrivò; in quel punto una carrozza, ne saltaron fuori quattro
pompieri, i primi che s'eran trovati al Municipio, e si slanciarono dentro alla
casa. Erano appena entrati, che si vide una cosa orrenda: una donna s'affacciò;
urlando a una finestra del terzo piano, s'afferrò; alla ringhiera, la scavalcò;,
e rimase afferrata così, quasi sospesa nel vuoto, con la schiena in fuori, curva
sotto il fumo e le fiamme che fuggendo dalla stanza le lambivan quasi la testa.
La folla gettò; un grido di raccapriccio. I pompieri, arrestati per isbaglio
al secondo piano dagli inquilini atterriti, avevan già; sfondato un muro e s'eran
precipitati in una camera; quando cento grida li avvertirono: - Al terzo piano!
Al terzo piano! - Volarono al terzo piano. Qui era un rovinio d'inferno, travi
di tetto che crollavano, corridoi pieni di fiamme, un fumo che soffocava. Per
arrivare alle stanze dov'eran gl'inquilini rinchiusi, non restava altra via
che passar pel tetto. Si lanciaron subito su, e un minuto dopo si vide come
un fantasma nero saltar sui coppi, tra il fumo. Era il caporale, arrivato il
primo. Ma per andare dalla parte del tetto che corrispondeva al quartierino
chiuso dal fuoco, gli bisognava passare sopra un ristrettissimo spazio compreso
tra un abbaino e la grondaia; tutto il resto fiammeggiava, e quel piccolo tratto
era coperto di neve e di ghiaccio, e non c'era dove aggrapparsi. - è; impossibile
che passi! - gridava la folla di sotto. Il caporale s'avanzò; sull'orlo del
tetto: - tutti rabbrividirono, e stettero a guardar col respiro sospeso: - passò;:
- un immenso evviva salì al cielo. Il caporale riprese la corsa, e arrivato
al punto minacciato, cominciò; a spezzare furiosamente a colpi d'accetta coppi,
travi, correntini, per aprirsi una buca da scender dentro. Intanto la donna
era sempre sospesa fuor della finestra, il fuoco le infuriava sul capo, un minuto
ancora, e sarebbe precipitata nella via. La buca fu aperta: si vide il caporale
levarsi la tracolla e calarsi giù;; gli altri pompieri, sopraggiunti, lo seguirono.
Nello stesso momento un'altissima scala Porta, arrivata allora, s'appoggiò;
al cornicione della casa, davanti alle finestre da cui uscivano fiamme e urli
da pazzi. Ma si credeva che fosse tardi. - Nessuno si salva più;, - gridavano.
- I pompieri bruciano. - è; finita. - Son morti. - All'improvviso si vide apparire
alla finestra della ringhiera la figura nera del caporale, illuminata di sopra
in giù; dalle fiamme, - la donna gli si avvinghiò; al collo; - egli l'afferrò;
alla vita con tutt'e due le braccia, la tirò; su, la depose dentro alla stanza.
La folla mise un grido di mille voci, che coprì il fracasso dell'incendio. Ma
e gli altri? e discendere? La scala, appoggiata al tetto davanti a un'altra
finestra, distava dal davanzale un buon tratto. Come avrebbero potuto attaccarvisi?
Mentre questo si diceva, uno dei pompieri si fece fuori della finestra, mise
il piede destro sul davanzale e il sinistro sulla scala, e così ritto per aria,
abbracciati ad uno ad uno gli inquilini, che gli altri gli porgevan di dentro,
li porse a un compagno, ch'era salito su dalla via, e che, attaccatili bene
ai pioli, li fece scendere, l'un dopo l'altro, aiutati da altri pompieri di
sotto. Passò; prima la donna della ringhiera, poi una bimba, un'altra donna,
un vecchio. Tutti eran salvi. Dopo il vecchio, scesero i pompieri rimasti dentro;
ultimo a scendere fu il caporale, che era stato il primo ad accorrere. La folla
li accolse tutti con uno scoppio d'applausi; ma quando comparve l'ultimo, l'avanguardia
dei salvatori, quello che aveva affrontato innanzi agli altri l'abisso, quello
che sarebbe morto, se uno avesse dovuto morire, la folla lo salutò; come un
trionfatore, gridando e stendendo le braccia con uno slancio affettuoso d'ammirazione
e di gratitudine, e in pochi momenti il suo nome oscuro - Giuseppe Robbino -
suonò; su mille bocche... Hai capito? Quello è; coraggio, il coraggio del cuore,
che non ragiona, che non vacilla, che va diritto cieco fulmineo dove sente il
grido di chi muore. Io ti condurrò; un giorno agli esercizi dei pompieri, e
ti farò; vedere il caporale Robbino; perché; saresti molto contento di conoscerlo,
non è; vero? Risposi di sì. - Eccolo qua, - disse mio padre. Io mi voltai di
scatto. I due pompieri, terminata la visita, attraversavan la stanza per uscire.
Mio padre m'accennò; il più; piccolo, che aveva i galloni, e mi disse: - Stringi
la mano al caporale Robbino. Il caporale si fermò; e mi porse la mano, sorridendo:
io gliela strinsi; egli mi fece un saluto ed uscì. - E ricordatene bene, - disse
mio padre, - perché; delle migliaia di mani che stringerai nella vita, non ce
ne saranno forse dieci che valgono la sua.
Dagli Appennini alle Ande Racconto mensile Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici
anni, figliuolo d'un operaio, andò; da Genova in America, da solo, per cercare
sua madre. Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città; capitale
della Repubblica Argentina, per mettersi al servizio di qualche casa ricca,
e guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per
effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà; e nei debiti. Non sono
poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio per quello scopo,
e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù; la gente di servizio, ritornano
in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. La povera madre
aveva pianto lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l'uno di diciott'anni
e l'altro di undici; ma era partita con coraggio, e piena di speranza. Il viaggio
era stato felice: arrivata appena a Buenos Aires, aveva trovato subito, per
mezzo d'un bottegaio genovese, cugino di suo marito, stabilito là; da molto
tempo, una buona famiglia argentina, che la pagava molto e la trattava bene.
E per un po' di tempo aveva mantenuto coi suoi una corrispondenza regolare.
Com'era stato convenuto fra loro, il marito dirigeva le lettere al cugino, che
le recapitava alla donna, e questa rimetteva le risposte a lui, che le spediva
a Genova, aggiungendovi qualche riga di suo. Guadagnando ottanta lire al mese
e non spendendo nulla per sé;, mandava a casa ogni tre mesi una bella somma,
con la quale il marito, che era galantuomo, andava pagando via via i debiti
più; urgenti, e riguadagnando così la sua buona reputazione. E intanto lavorava
ed era contento dei fatti suoi, anche per la speranza che la moglie sarebbe
ritornata fra non molto tempo, perché; la casa pareva vuota senza di lei, e
il figliuolo minore in special modo, che amava moltissimo sua madre, si rattristava,
non si poteva rassegnare alla sua lontananza. Ma trascorso un anno dalla partenza,
dopo una lettera breve nella quale essa diceva di star poco bene di salute,
non ne ricevettero più;. Scrissero due volte al cugino; il cugino non rispose.
Scrissero alla famiglia argentina, dove la donna era a servire; ma non essendo
forse arrivata la lettera perché; avean storpiato il nome sull'indirizzo, non
ebbero risposta. Temendo d'una disgrazia, scrissero al Consolato italiano di
Buenos Aires, che facesse fare delle ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro
dal Console che, nonostante l'avviso fatto pubblicare dai giornali, nessuno
s'era presentato, neppure a dare notizie. E non poteva accadere altrimenti,
oltre che per altre ragioni, anche per questa: Che con l'idea di salvare il
decoro dei suoi, ché; le pareva di macchiarlo a far la serva, la buona donna
non aveva dato alla famiglia argentina il suo vero nome. Altri mesi passarono,
nessuna notizia. Padre e figliuolo erano costernati; il più; piccolo, oppresso
da una tristezza che non poteva vincere. Che fare? A chi ricorrere? La prima
idea del padre era stata di partire, d'andare a cercare sua moglie in America.
Ma e il lavoro? Chi avrebbe mantenuto i suoi figliuoli? E neppure avrebbe potuto
partire il figliuol maggiore, che cominciava appunto allora a guadagnar qualche
cosa, ed era necessario alla famiglia. E in questo affanno vivevano, ripetendo
ogni giorno gli stessi discorsi dolorosi, o guardandosi l'un l'altro, in silenzio.
Quando una sera Marco, il più; piccolo, uscì a dire risolutamente: - Ci vado
io in America a cercar mia madre. - Il padre crollò; il capo, con tristezza,
e non rispose. Era un pensiero affettuoso, ma una cosa impossibile. A tredici
anni, solo, fare un viaggio in America, che ci voleva un mese per andarci! Ma
il ragazzi insistette, pazientemente. Insistette quel giorno, il giorno dopo,
tutti i giorni con una grande pacatezza, ragionando col buon senso d'un uomo.
- Altri ci sono andati, - diceva - e più; piccoli di me. Una volta che son sul
bastimento, arrivo là; come un altro. Arrivato là;, non ho che a cercare la
bottega del cugino. Ci sono tanti italiani, qualcheduno m'insegnerà; la strada.
Trovato il cugino, e trovata mia madre, se non trovo lui vado
dal Console, cercherò; la famiglia argentina. Qualunque cosa accada, laggiù;
c'è; del lavoro per tutti; troverò; del lavoro anch'io, almeno per guadagnar
tanto da ritornare a casa. - E così, a poco a poco, riuscì quasi a persuadere
suo padre. Suo padre lo stimava, sapeva che aveva giudizio e coraggio, che era
assuefatto alle privazioni e ai sacrifici, e che tutte queste buone qualità;
avrebbero preso doppia forza nel suo cuore per quel santo scopo di trovar sua
madre, ch'egli adorava. Si
aggiunse pure che un Comandante di piroscafo, amico d'un suo conoscente, avendo
inteso parlar della cosa, s'impegnò; di fargli aver gratis un biglietto
di terza classe per l'Argentina. E allora, dopo un altro po' di esitazione,
il padre acconsentì, il viaggio fu deciso. Gli empirono una sacca di panni,
gli misero in tasca qualche scudo, gli diedero l'indirizzo del cugino, e una
bella sera del mese di aprile lo imbarcarono. - Figliuolo, Marco mio, - gli
disse il padre dandogli l'ultimo bacio, con le lacrime agli occhi, sopra la
scala del piroscafo che stava per partire: - fatti coraggio. Parti per un santo
fine e Dio t'aiuterà;. Povero Marco! Egli aveva il cuor forte e preparato alle
più; dure prove per quel viaggio; ma quando vide sparire all'orizzonte la sua
bella Genova, e si trovò; in alto mare, su quel grande piroscafo affollato di
contadini emigranti, solo, non conosciuto da alcuno, con quella piccola sacca
che racchiudeva tutta la sua fortuna, un improvviso scoraggiamento lo assalì.
Per due giorni stette accucciato come un cane a prua, non mangiando quasi, oppresso
da un gran bisogno di piangere. Ogni sorta di tristi pensieri gli passava per
la mente, e il più; triste, il più; terribile era il più; ostinato a tornare:
il pensiero che sua madre fosse morta. Nei suoi sogni rotti e pensosi egli vedeva
sempre la faccia d'uno sconosciuto che lo guardava in aria di compassione e
poi gli diceva all'orecchio: - Tua madre è; morta. - E allora si svegliava soffocando
un grido. Nondimeno, passato lo stretto di Gibilterra, alla prima vista dell'Oceano
Atlantico, riprese un poco d'animo e di speranza. Ma fu un breve sollievo. Quell'immenso
mare sempre eguale, il calore crescente, la tristezza di tutta quella povera
gente che lo circondava, il sentimento della propria solitudine tornarono a
buttarlo giù;. I giorni, che si succedevano vuoti e monotoni, gli si confondevano
nella memoria, come accade ai malati. Gli parve d'esser in mare da un anno.
E ogni mattina, svegliandosi, provava un nuovo stupore di esser là; solo, in
mezzo a quell'immensità; d'acqua, in viaggio per l'America. I bei pesci volanti che venivano ogni tanto a cascare
sul bastimento, quei meravigliosi tramonti dei tropici, con quelle enormi nuvole color di bragia e di sangue, e quelle
fosforescenze notturne che fanno parer l'Oceano tutto acceso come un mare di
lava, non gli facevan l'effetto di cose reali, ma di prodigi veduti in sogno.
Ebbe delle giornate di cattivo tempo, durante le quali restò; chiuso continuamente
nel dormitorio, dove tutto ballava e rovinava, in mezzo a un coro spaventevole
di lamenti e d'imprecazioni; e credette che fosse giunta la sua ultima ora.
Ebbe altre giornate di mare quieto e giallastro, di caldura insopportabile,
di noia infinita; ore interminabili e sinistre, durante le quali i passeggeri
spossati, distesi immobili sulle tavole, parevan tutti morti. E il viaggio non
finiva mai: mare e cielo, cielo e mare, oggi come ieri, domani come oggi, -
ancora, - sempre, eternamente. Ed egli per lunghe ore stava appoggiato al parapetto
a guardar quel mare senza fine, sbalordito, pensando vagamente a sua madre,
fin che gli occhi gli si chiudevano e il capo gli cascava dal sonno; e allora
rivedeva quella faccia sconosciuta che lo guardava in aria di pietà;, e gli
ripeteva all'orecchio: - Tua madre è; morta! - e a quella voce si risvegliava
in sussulto, per ricominciare a sognare a occhi aperti e a guardar l'orizzonte
immutato. Ventisette giorni durò; il viaggio! Ma gli ultimi furono i migliori.
Il tempo era bello e l'aria fresca. Egli aveva fatto conoscenza con un buon
vecchio lombardo, che andava in America a trovare il figliuolo, coltivatore
di terra vicino alla città; di Rosario; gli aveva detto tutto di casa sua, e
il vecchio gli ripeteva ogni tanto, battendogli una mano sulla nuca: - Coraggio,
bagai, tu troverai tua madre sana e contenta. - Quella compagnia lo riconfortava,
i suoi presentimenti s'erano fatti di tristi lieti. Seduto a prua, accanto al
vecchio contadino che fumava la pipa, sotto un bel cielo stellato, in mezzo
a gruppi d'emigranti che cantavano, egli si rappresentava cento volte al pensiero
il suo arrivo a Buenos Aires, si vedeva in quella certa strada, trovava la bottega,
si lanciava incontro al cugino: - Come sta mia madre? Dov'è;? Andiamo subito!
- Andiamo subito; - correvano insieme, salivano una scala, s'apriva una porta...
E qui il suo soliloquio muto s'arrestava, la sua immaginazione si perdeva in
un sentimento d'inesprimibile tenerezza, che gli faceva tirar fuori di nascosto
una piccola medaglia che portava al collo, e mormorare, baciandola, le sue orazioni.
Il ventisettesimo giorno dopo quello della partenza, arrivarono. Era una bella aurora rossa
di maggio quando il piroscafo gittava l'à;ncora nell'immenso
fiume della Plata, sopra una riva del quale si stende la vasta città; di Buenos
Aires, capitale della Repubblica Argentina. Quel tempo splendido gli parve di
buon augurio. Era fuor di sé; dalla gioia e dall'impazienza. Sua madre era a
poche miglia di distanza da lui! Tra poche ore l'avrebbe veduta! Ed egli si
trovava in America, nel nuovo mondo, e aveva avuto l'ardimento di venirci so]o!
Tutto quel lunghissimo viaggio gli pareva allora che fosse passato in un nulla.
Gli pareva d'aver volato, sognando, e di essersi svegliato in quel punto. Ed
era così felice, che quasi non si stupì né; si afflisse, quando si frugò; nelle
tasche, e non ci trovò; più; uno dei due gruzzoli in cui aveva diviso il suo
piccolo tesoro, per esser più; sicuro di non perdere tutto. Gliel'avevan rubato,
non gli restavan più; che poche lire; ma che gli importava, ora ch'era vicino
a sua madre. Con la sua sacca alla mano scese insieme a molti altri italiani
in un vaporino che li portò; fino a poca distanza dalla riva, calò; dal vaporino
in una barca che portava il nome di Andrea Doria, fu sbarcato al molo, salutò;
il suo vecchio amico lombardo, e s'avviò; a lunghi passi verso la città;. Arrivato
all'imboccatura della prima via fermò; un uomo che passava e lo pregò; di indicargli
da che parte dovesse prendere per andar in via de los Artes. Aveva fermato per
l'appunto un operaio italiano. Questi lo guardò; con curiosità; e gli domandò;
se sapeva leggere. Il ragazzo accennò; di sì. - Ebbene, - gli disse l'operaio,
indicandogli la via da cui egli usciva; - va su sempre diritto, leggendo i nomi
delle vie a tutte le cantonate; finirai con trovare la tua. - Il ragazzo lo
ringraziò; e infilò; la via che gli s'apriva davanti. Era una via diritta e
sterminata, ma stretta; fiancheggiata da case basse e bianche, che pareva tanti
villini; piena di gente, di carrozze, di grandi carri, che facevano uno strepito
assordante; e qua e là; spenzolavano enormi bandiere di vari colori, con su
scritto a grossi caratteri l'annunzio di partenze di piroscafi per città; sconosciute.
A ogni tratto di cammino, voltandosi a destra e a sinistra, egli vedeva
due altre vie che fuggivano diritte a perdita d'occhio, fiancheggiate pure da
case basse e bianche, e piene di gente e di carri, e tagliate in fondo dalla
linea diritta della sconfinata pianura americana, simile all'orizzonte del mare.
La città; gli pareva infinita; gli pareva che si potesse camminar per giornate
e per settimane vedendo sempre di qua e di là; altre vie come quelle, e che
tutta l'America ne dovesse esser coperta. Guardava attentamente i nomi delle
vie: dei nomi strani che stentava a leggere. A ogni nuova via, si sentiva battere
il cuore, pensando che fosse la sua. Guardava tutte le donne con l'idea di incontrare
sua madre. Ne vide una davanti a sé;, che gli diede una scossa al sangue: la
raggiunse, la guardò;: era una negra. E andava, andava, affrettando il passo.
Arrivò; a un crocicchio, lesse, e restò; come inchiodato sul marciapiede Era
la vita delle Arti. Svoltò;, vide il numero 117 dovette fermarsi per riprender
respiro. E disse tra sé;: - O madre mia! madre mia! è; proprio vero che ti vedrò;
a momenti! - Corse innanzi, arrivò; a una piccola bottega di merciaio. Era quella.
S'affacciò;. Vide una donna coi capelli grigi e gli occhiali. - Che volete,
ragazzo? - gli domandò; quella, in spagnuolo. - Non è; questa, - disse, stentando
a metter fuori la voce, - la bottega di Francesco Merelli? - Francesco Merelli
è; morto, - rispose la donna in italiano. Il ragazzo ebbe l'impressione d'una
percossa nel petto. - Quando morto? - Eh, da un pezzo, - rispose la donna; -
da mesi. Fece cattivi affari, scappò;. Dicono che sia andato a Bahia Blanca,
molto lontano di qui. E morì appena arrivato. La bottega è; mia. Il ragazzo
impallidì. Poi disse rapidamente: - Merelli conosceva mia madre, mia madre era
qua a servire dal signor Mequinez. Egli solo poteva dirmi dov'era. Io sono venuto
in America a cercar mia madre. Merelli le mandava le lettere. Io ho bisogno
di trovar mia madre. - Povero figliuolo, - rispose la donna, - io non so. Posso
domandare al ragazzo del cortile. Egli conosceva il giovane che faceva commissioni
per Merelli. Può; darsi che sappia dir qualche cosa. Andò; in fondo alla bottega
e chiamò; il ragazzo, che venne subito. - Dimmi un poco, - gli domandò; la bottegaia;
- ti ricordi che il giovane di Merelli andasse qualche volta a portar delle
lettere a una donna di servizio, in casa di figli
del paese? - Dal signor Mequinez, - rispose il ragazzo,
sì signora, qualche volta. In fondo a via d
elle Arti. - Ah, signora, grazie! - gridò; Marco. - Mi dica il
numero... non lo sa? Mi faccia accompagnare, - accompagnami tu subito, ragazzo;
- io ho ancora dei soldi. E disse questo con tanto calore, che senz'aspettar
la preghiera della donna, il ragazzo rispose: - andiamo; - e uscì pel primo
a passi lesti. Quasi correndo, senza dire una parola, andarono fino in fondo
alla via lunghissima, infilarono l'andito d'entrata d'una piccola casa bianca,
e si fermarono davanti a un bel cancello di ferro, da cui si vedeva un cortiletto,
pieno di vasi di fiori. Marco diede una strappata al campanello. Comparve una
signorina. - Qui sta la famiglia Mequinez, non è; vero? - domandò; ansiosamente
il ragazzo. - Ci stava, - rispose la signorina, pronunziando l'italiano alla
spagnuola. - Ora ci stiamo noi, Zeballos. - E dove sono andati i Mequinez? -
domandò; Marco, col batticuore. - Sono andati a Cordova. - Cordova! - esclamò;
Marco. - Dov'è; Cordova? E la persona di servizio che avevano? la donna, mia
madre! La donna di servizio era mia madre! Hanno condotto via anche mia madre?
La signorina lo guardò; e disse: - Non so. Lo saprà; forse mio padre, che li
ha conosciuti quando partirono. Aspettate un momento. Scappò; e tornò; poco
dopo con suo padre, un signore alto, con la barba grigia. Questi guardò; fisso
un momento quel tipo simpatico di piccolo marinaio genovese, coi capelli biondi
e il naso aquilino, e gli domandò; in cattivo italiano: - Tua madre è; genovese?
Marco rispose di sì. - Ebbene la donna di servizio genovese è; andata con loro,
lo so di certo. - Dove sono andati? - A Cordova, una città;. Il ragazzo mise
un sospiro; poi disse con rassegnazione: - Allora... andrò; a Cordova. - Ah
pobre Niño! - esclamò; il signore, guardandolo in aria di pietà;. - Povero ragazzo!
è; a centinaia di miglia di qua, Cordova. Marco diventò; pallido come un morto,
e s'appoggiò; con una mano alla cancellata. - Vediamo, vediamo, - disse allora
il signore, mosso a compassione, aprendo la porta, - vieni dentro un momento,
vediamo un po' se si può; far qualche cosa. - Sedette, gli diè; da sedere, gli
fece raccontar la sua storia, lo stette a sentire molto attento, rimase un pezzo
pensieroso; poi gli disse risolutamente: - Tu non hai denari, non è; vero? - Ho
ancora... poco, - rispose Marco. Il signore pensò; altri cinque minuti, poi
si mise a un tavolino, scrisse una lettera, la chiuse, e porgendola al ragazzo,
gli disse: - Senti, italianito. Va' con questa lettera alla Boca. è; una piccola
città; mezza genovese, a due ore di strada di qua. Tutti ti sapranno indicare
il cammino. Va' là; e cerca di questo signore, a cui è; diretta la lettera,
e che è; conosciuto da tutti. Portagli questa lettera. Egli ti farà; partire
domani per la città; di Rosario, e ti raccomanderà; a qualcuno lassù;, che penserà;
a farti proseguire il viaggio fino a Cordova, dove troverai la famiglia Mequinez
e tua madre. Intanto, piglia questo. - E gli mise in mano qualche lira. - Va',
e fatti coraggio; qui hai da per tutto dei compaesani, non rimarrai abbandonato.
Adios. Il ragazzo gli disse: - Grazie, - senza trovar altre parole, uscì con
la sua sacca, e congedatosi dalla sua piccola guida, si mise lentamente in cammino
verso la Boca, pieno di tristezza e di stupore, a traverso alla grande città;
rumorosa. Tutto quello che gli accadde da quel momento fino alla sera del giorno
appresso gli rimase poi nella memoria confuso ed incerto come una fantasticheria
di febbricitante, tanto egli era stanco, sconturbato, avvilito. E il giorno
appresso, all'imbrunire, dopo aver dormito la notte in una stanzuccia d'una
casa della Boca, accanto a un facchino del porto, - dopo aver passata quasi
tutta la giornata, seduto sopra un mucchio di travi, e come trasognato, in faccia
a migliaia di bastimenti, di barconi e di vaporini, - si trovava a poppa d'una
grossa barca a vela, carica di frutte, che partiva per la città; di Rosario,
condotta da tre robusti genovesi abbronzati dal sole; la voce dei quali, e il
dialetto amato che parlavano gli rimise un po' di conforto nel cuore. Partirono,
e il viaggio durò; tre giorni e quattro notti, e fu uno stupore continuo per
il piccolo viaggiatore. Tre giorni e quattro notti su per quel meraviglioso
fiume Paranà;, rispetto al quale il nostro grande Po non è; che un rigagnolo,
e la lunghezza dell'Italia, quadruplicata, non raggiunge quella del suo corso. Il barcone andava lentamente a
ritroso di quella massa d'acqua smisurata. Passava in mezzo a lunghe isole, già; nidi di serpenti e di tigri, coperte
d'aranci e di salici, simili a boschi galleggianti; e ora infilava stretti canali,
da cui pareva che non potesse più; uscire; ora sboccava in vaste distese d'acque,
dell'aspetto di grandi laghi tranquilli; poi daccapo fra le isole, per i canali
intricati d'un arcipelago, in mezzo a mucchi enormi di vegetazione. Regnava
un silenzio profondo. Per lunghi tratti, le rive e le acque solitarie e vastissime
davan l'immagine d'un fiume sconosciuto, in cui quella povera vela fosse la
prima al mondo ad avventurarsi. Quanto più; s'avanzavano, e tanto più; quel
mostruoso fiume lo sgomentava. Egli immaginava che sua madre si trovasse alle
sorgenti, e che la navigazione dovesse durare degli anni. Due volte al giorno
mangiava un po' di pane e di carne salata coi barcaioli, i quali, vedendolo
triste, non gli rivolgevan mai la parola. La notte dormiva sopra coperta, e
si svegliava ogni tanto, bruscamente, stupito della luce limpidissima della
luna che imbiancava le acque immense e le rive lontane; e allora il cuore gli
si serrava. - Cordova! - Egli ripeteva quel nome: - Cordova! - come il nome
d'una di quelle città; misteriose, delle quali aveva inteso parlare nelle favole.
Ma poi pensava: - Mia madre è; passata di qui, ha visto queste isole, quelle
rive, - e allora non gli parevan più; tanto strani e solitari quei luoghi in
cui lo sguardo di sua madre s'era posato... La notte, uno dei barcaiuoli cantava.
Quella voce gli rammentava le canzoni di sua madre, quando l'addormentava bambino.
L'ultima notte, all'udir quel canto, singhiozzò;. Il barcaiuolo s'interruppe.
Poi gli gridò;: - Animo, animo, figioeu! Che diavolo! Un genovese che piange
perché; è; lontano da casa! I genovesi girano il mondo gloriosi e trionfanti!
- E a quelle parole egli si riscosse, sentì la voce del sangue genovese, e rialzò;
la fronte con alterezza, battendo il pugno sul timone. - Ebbene, si - disse
tra sé;, - dovessi anch'io girare tutto il mondo, viaggiare ancora per anni
e anni, e fare delle centinaia di miglia a piedi, io andrò; avanti, fin che
troverò; mia madre. Dovessi arrivare moribondo, e cascar morto ai suoi piedi!
Pur che io la riveda una volta! Coraggio!
- E con quest'animo arrivò; allo spuntar d'un mattino rosato e freddo
di fronte alla città; di Rosario, posta sulla riva alta del Paranà;, dove si
specchiavan nelle acque le antenne imbandierate di cento bastimenti d'ogni paese.
Poco dopo sbarcato, salì alla città;, con la sua sacca alla mano, a cercare
un signore argentino per cui il suo protettore della Boca gli aveva rimesso
un biglietto di visita con qualche parola di raccomandazione. Entrando in Rosario
gli parve d'entrare in una città; già; conosciuta. Erano quelle vie interminabili,
diritte, fiancheggiate di case basse e bianche, attraversate in tutte le direzioni,
al disopra dei tetti, da grandi fasci di fili telegrafici e telefonici, che
parevano enormi ragnateli; e un gran trepestio di gente, di cavalli, di carri.
La testa gli si confondeva: credette quasi di rientrare a Buenos Aires, e di
dover cercare un'altra volta il cugino. Andò; attorno per quasi un'ora, svoltando
e risvoltando, e sembrandogli sempre di tornar nella medesima via; e a furia
di domandare, trovò; la casa del suo nuovo protettore. Tirò; il campanello.
S'affacciò; alla porta un grosso uomo biondo, arcigno, che aveva l'aria d'un
fattore, e che gli domandò; sgarbatamente, con pronunzia straniera: - Che vuoi?
Il ragazzo disse il nome del padrone. - Il padrone, - rispose il fattore, -
è; partito ieri sera per Buenos Aires con tutta la sua famiglia. Il ragazzo
restò; senza parola. Poi balbettò;: - Ma io... non ho nessuno qui! Sono solo!
- E porse il biglietto. Il fattore lo prese, lo lesse e disse burberamente:
- Non so che farci. Glielo darò; fra un mese, quando ritornerà;. - Ma io, io
son solo! io ho bisogno! - esclamò; il ragazzo, con voce di preghiera. - Eh!
andiamo, - disse l'altro; - non ce n'è; ancora abbastanza della gramigna del
tuo paese a Rosario! Vattene un po' a mendicare in Italia. - E gli chiuse il
cancello sulla faccia. Il ragazzo restò; là; come impietrato. Poi riprese lentamente
la sua sacca, ed uscì, col cuore angosciato, con la mente in tumulto, assalito
a un tratto da mille pensieri affannosi. Che fare? dove andare? Da Rosario a
Cordova c'era una giornata di strada ferrata. Egli non aveva più; che poche
lire. Levato quello che gli occorreva di spendere quel giorno, non gli sarebbe
rimasto quasi nulla. Dove trovare i denari per pagarsi il viaggio? Poteva lavorare.
Ma come, a chi domandar lavoro? Chieder l'elemosina! Ah! no, essere respinto,
insultato, umiliato come poc'anzi, no, mai, mai più;, piuttosto morire! - E
a quell'idea, e al riveder davanti a sé; la lunghissima via che si perdeva lontano
nella pianura sconfinata, si sentì fuggire un'altra volta il coraggio, gettò;
la sacca sul marciapiede, vi sedette su con le spalle al muro, e chinò; il viso
tra le mani, senza pianto, in un atteggiamento desolato. La gente l'urtava coi
piedi passando; i carri empivan la via di rumore; alcuni ragazzi si fermarono
a guardarlo. Egli rimase un pezzo così.
Quando fu scosso da una voce che gli disse tra in italiano e in lombardo: -
Che cos'hai, ragazzetto? Alzò; il viso a quelle parole, e subito balzò; in
piedi gettando un'esclamazione di meraviglia: - Voi qui! Era il vecchio contadino
lombardo, col quale aveva fatto amicizia nel viaggio. La meraviglia del contadino
non fu minore della sua. Ma il ragazzo non gli lasciò; il tempo d'interrogarlo,
e gli raccontò; rapidamente i casi suoi. - Ora son senza soldi, ecco; bisogna
che lavori; trovatemi voi del lavoro da poter mettere insieme qualche lira;
io faccio qualunque cosa; porto roba, spazzo le strade, posso far commissioni,
anche lavorare in campagna; mi contento di campare di pan nero; ma che possa
partir presto, che possa trovare una volta mia madre, fatemi questa carità;,
del lavoro, trovatemi voi del lavoro, per amor di Dio, che non ne posso più;!
- Diamine, diamine, - disse il contadino, guardandosi attorno e grattandosi
il mento. - Che storia è; questa!... Lavorare... è; presto detto. Vediamo un
po'. Che non ci sia mezzo di trovar trenta lire fra tanti patriotti? Il ragazzo
lo guardava, confortato da un raggio di speranza. - Vieni con me, - gli disse
il contadino. - Dove? - domandò; il ragazzo, ripigliando la sacca. - Vieni con
me. Il contadino si mosse, Marco lo seguì, fecero un lungo tratto di strada
insieme, senza parlare. Il contadino si fermò; alla porta d'un'osteria che aveva
per insegna una stella e scritto sotto: - La estrella de Italia; - mise il viso
dentro e voltandosi verso il ragazzo disse allegramente: - Arriviamo in buon
punto. - Entrarono in uno stanzone, dov'eran varie tavole, e molti uomini seduti,
che bevevano, parlando forte. Il vecchio lombardo s'avvicinò; alla prima tavola,
e dal modo come salutò; i sei avventori che ci stavano intorno, si capiva ch'era
stato in loro compagnia fino a poco innanzi. Erano rossi in viso e facevan sonare
bicchieri, vociando e ridendo. - Camerati, - disse senz'altro il lombardo, restando
in piedi, e presentando Marco; - c'è; qui un povero ragazzo nostro patriotta,
che è; venuto solo da Genova a Buenos Aires a cercare sua madre. A Buenos Aires
gli dissero: - Qui non c'è;, è; a Cordova. - Viene in barca a Rosario, tre
dì e tre notti, con due righe di raccomandazione; presenta
la carta: gli fanno una figuraccia. Non ha la croce d'un centesimo. è; qui solo
come un disperato. è; un bagai pieno di cuore. Vediamo un poco. Non ha da trovar
tanto da pagare il biglietto per andare a Cordova a trovar sua madre? L'abbiamo
da lasciar qui come un cane? - Mai al mondo, perdio! - Mai non sarà; detto questo!
- gridarono tutti insieme, battendo il pugno sul tavolo. - Un patriotta nostro!
- Vieni qua, piccolino. - Ci siamo noi, gli emigranti! - Guarda che bel monello.
- Fuori dei quattrini, camerati. - Bravo! Venuto solo! Hai del fegato! - Bevi
un sorso, patriotta. - Ti manderemo da tua madre, non pensare. - E uno gli dava
un pizzicotto alla guancia, un altro gli batteva la mano sulla spalla, un terzo
lo liberava dalla sacca; altri emigranti s'alzarono dalle tavole vicine e s'avvicinarono;
la storia del ragazzo fece il giro dell'osteria; accorsero dalla stanza accanto
tre avventori argentini; e in meno di dieci minuti il contadino lombardo che
porgeva il cappello, ci ebbe dentro quarantadue lire. - Hai Visto, - disse allora,
voltandosi verso il ragazzo, - come si fa presto in America? - Bevi - gli gridò;
un altro, porgendogli un bicchiere di vino: - Alla salute di tua madre! - Tutti
alzarono i bicchieri. - E Marc
o ripeté;: - Alla salute di mia... - Ma un singhiozzo di gioia
gli chiuse la gola, e rimesso il bicchiere sulla tavola, si gettò; al collo
del suo vecchio. La mattina seguente, allo spuntare del giorno, egli era già;
partito per Cordova, ardito e ridente, pieno di presentimenti felici. Ma non
c'è; allegrezza che regga a lungo davanti a certi aspetti sinistri della natura.
Il tempo era chiuso e grigio; il treno, presso che vuoto, correva a traverso
a un'immensa pianura priva d'ogni segno d'abitazione. Egli si trovava solo in
un vagone lunghissimo, che somigliava a quelli dei treni per i feriti. Guardava
a destra, guardava a sinistra, e non vedeva che una solitudine senza fine, sparsa
di piccoli alberi deformi, dai tronchi e dai rami scontorti, in atteggiamenti
non mai veduti, quasi d'ira e d'angoscia; una vegetazione scura, rada e triste,
che davaalla pianura l'apparenza d'uno sterminato cimitero. Sonnecchiava mezz'ora,
tornava a guardare: era sempre lo stesso spettacolo. Le stazioni della strada ferrata eran solitarie, come
case di eremiti; e quando il treno si fermava, non si sentiva una voce; gli pareva di trovarsi solo in
un treno, perduto, abbandonato in mezzo a un deserto. Gli sembrava che ogni
stazione dovesse essere l'ultima, e che s'entrasse dopo quella nelle terre misteriose
e spaurevoli dei selvaggi. Una brezza gelata gli mordeva il viso. Imbarcandolo
a Genova sul finir d'aprile, i suoi non avevan pensato che in America egli avrebbe
trovato l'inverno, e l'avevan vestito da estate. Dopo alcune ore, incominciò;
a soffrire il freddo, e col freddo, la stanchezza dei giorni passati, pieni
di commozioni violente, e delle notti insonni e travagliate. Si addormentò;,
dormì lungo tempo, si svegliò; intirizzito; si sentiva male. E allora gli prese
un vago terrore di cader malato e di morir per viaggio, e d'esser buttato là;
in mezzo a quella pianura desolata, dove il suo cadavere sarebbe stato dilaniato
dai cani e dagli uccelli di rapina, come certi corpi di cavalli e di vacche
che vedeva tratto tratto accanto alla strada, e da cui torceva lo sguardo con
ribrezzo. In quel malessere inquieto, in mezzo a quel silenzio tetro della natura,
la sua immaginazione s'eccitava e volgeva al nero. Era poi ben sicuro di trovarla,
a Cordova, sua madre? E se non ci fosse stata? Se quel signore di via delle
Arti avesse sbagliato? E se fosse morta? In questi pensieri si riaddormentò;,
sognò; d'essere a Cordova di notte, e di sentirsi gridare da tutte le porte
e da tutte le finestre: - Non c'è;! Non c'è;! Non c'è;! - si risvegliò; di sobbalzo,
atterrito, e vide in fondo al vagone tre uomini barbuti, ravvolti in scialli
di vari colori, che lo guardavano, parlando basso tra di loro; e gli balenò;
il sospetto che fossero assassini e lo volessero uccidere, per rubargli la sacca.
Al freddo, al malessere gli s'aggiunse la paura; la fantasia già; turbata gli
si stravolse; - i tre uomini lo fissavano sempre, - uno di essi mosse verso
di lui; - allora egli smarrì la ragione, e correndogli incontro con le braccia
aperte, gridò;: - Non ho nulla. Sono un povero ragazzo. Vengo dall'Italia vo
a cercar mia madre, son solo; non mi fate del male! - Quelli capirono subito,
n'ebbero pietà;, lo carezzarono e lo racquetarono, dicendogli molte parole che
non intendeva; e vedendo che batteva i denti dal freddo, gli misero addosso
uno dei loro scialli, e lo fecero risedere perché; dormisse. E si riaddormentò;,
che imbruniva. Quando lo svegliarono, era a Cordova. Ah! che buon respiro
tirò;, e con che impeto si cacciò; fuori del vagone! Domandò;
a un impiegato della stazione dove stesse di casa l'ingegner Mequinez: quegli
disse il nome d'una chiesa: - la casa era accanto alla chiesa; - il ragazzo
scappò; via. Era notte. Entrò; in città;. E gli parve d'entrare in Rosario un'altra
volta, al veder quelle strade diritte, fiancheggiate di piccole case bianche,
e tagliate da altre strade diritte e lunghissime. Ma c'era poca gente, e al
chiarore dei rari lampioni incontrava delle facce strane, d'un colore sconosciuto,
tra nerastro e verdognolo, e alzando il viso a quando a quando, vedeva delle
chiese d'architettura bizzarra che si disegnavano enormi e nere sul firmamento.
La città; era oscura e silenziosa; ma dopo aver attraversato quell'immenso deserto,
gli pareva allegra. Interrogò; un prete, trovò; presto la chiesa e la casa,
tirò; il campanello con una mano tremante, e si premette l'altra sul petto per
comprimere i battiti del cuore, che gli saltava alla gola. Una vecchia venne
ad aprire, con un lume in mano. Il ragazzo non poté; parlar subito. - Chi cerchi?
- domandò; quella, in spagnuolo. - L'ingegnere Mequinez, - disse Marco. La vecchia
fece l'atto d'incrociar le braccia sul seno, e rispose dondolando il capo. -
Anche tu, dunque, l'hai con l'ingegnere Mequinez! E mi pare che sarebbe tempo
di finirla. Son tre mesi oramai, che ci seccano. Non basta che l'abbiano detto
i giornali. Bisognerà; farlo stampare sulle cantonate che il signor Mequinez
è; andato a stare a Tucuman! Il ragazzo fece un gesto di disperazione. Poi diede
in uno scoppio di rabbia. - è; una maledizione dunque! Io dovrò; morire per
la strada senza trovare mia madre! Io divento matto, m'ammazzo! Dio mio! Come
si chiama quel paese? Dov'è;? A che distanza è;? - Eh, povero ragazzo, - rispose
la vecchia, impietosita, - una bagattella! Saranno quattrocento o cinquecento
miglia, a metter poco. Il ragazzo si coprì il viso con le mani; poi domandò;
con un singhiozzo: - E ora... come faccio? - Che vuoi che ti dica, povero figliuolo,
- rispose la donna; - io non so. Ma subito le balenò; un'idea e soggiunse in
fretta: - Senti, ora che ci penso. Fa una cosa. Svolta a destra per la via, troverai
alla terza parte un cortile; c'è; un capataz, un commerciante, che parte domattina
per Tucuman con le sue carretas e i suoi bovi; va a vedere se ti vuol prendere,
offrendogli i tuoi servizi; ti darà; forse un posto sur un carro; va' subito.
Il ragazzo afferrò; la sacca, ringraziò; scappando, e dopo due minuti si trovò;
in un vasto cortile rischiarato da lanterne, dove vari uomini lavoravano a caricar
sacchi di frumento sopra certi carri enormi, simili a case mobili di saltimbanchi,
col tetto rotondo e le ruote altissime; ed un uomo alto e baffuto, ravvolto
in una specie di mantello a quadretti bianchi e neri, con due grandi stivali,
dirigeva il lavoro. Il ragazzo s'avvicinò; a questo, e gli fece timidamente
la sua domanda, dicendo che veniva dall'Italia e che andava a cercare sua madre.
Il capataz, che vuol dir capo (il capo conduttore di quel convoglio di carri),
gli diede un'occhiata da capo a piedi, e rispose seccamente: - Non ci ho posto.
- Io ho quindici lire, - rispose il ragazzo, supplichevole, - do le mie quindici
lire. Per viaggio lavorerò;. Andrò; a pigliar l'acqua e la biada per le bestie,
farò; tutti i servizi. Un poco di pane mi basta. Mi faccia un po' di posto,
signore! Il capataz tornò; a guardarlo, e rispose con miglior garbo: - Non c'è;
posto... e poi... noi non andiamo a Tucuman, andiamo a un'altra città;, Santiago
dell'Estero. A un certo punto ti dovremmo lasciare, e avresti ancora un gran
tratto da far a piedi. - Ah! io ne farei il doppio! - esclamò; Marco; - io camminerò;,
non ci pensi; arriverò; in ogni maniera, mi faccia un po' di posto, signore,
per carità;, per carità; non mi lasci qui solo! - Bada che è; un viaggio di
venti giorni! - Non importa. - è; un viaggio duro! - Sopporterò; tutto - Dovrai
viaggiar solo! - Non ho paura di nulla. Purché; ritrovi mia madre. Abbia compassione!
Il capataz gli accostò; al viso una lanterna e lo guardò;. Poi disse: - Sta
bene. Il ragazzo gli baciò; la mano. - Stanotte dormirai in un carro, - soggiunse
il capataz, lasciandolo; - domattina alle quattro ti sveglierò;. Buenas noches.
La mattina alle quattro, al lume delle stelle, la lunga fila dei carri Si mise
in movimento con grande strepitio: ciascun carro tirato da sei bovi, seguiti
tutti da un gran numero di animali di ricambio. Il ragazzo, svegliato e messo
dentro a un dei carri, sui sacchi, si raddormentò; subito, profondamente. Quando
si svegliò;, il convoglio era fermo in un luogo solitario, sotto il sole, e
tutti gli uomini - i peones - stavan seduti in cerchio intorno a un quarto di
vitello, che arrostiva all'aria aperta, infilato in una specie di spadone piantato
in terra, accanto a un gran foco agitato dal vento. Mangiarono tutti insieme, dormirono e poi ripartirono; e così il viaggio
continuò;, regolato come una marcia di soldati. Ogni mattina
si mettevano in cammino alle cinque, si fermavano alle nove, ripartivano alle
cinque della sera, tornavano a fermarsi alle dieci. I peones andavano a cavallo
e stimolavano i buoi con lunghe canne. Il ragazzo accendeva il fuoco per l'arrosto,
dava da mangiare alle bestie, ripuliva le lanterne, portava l'acqua da bere.
Il paese gli passava davanti come una visione indistinta: vasti boschi di piccoli
alberi bruni; villaggi di poche case sparse, con le facciate rosse e merlate;
vastissimi spazi, forse antichi letti di grandi laghi salati, biancheggianti
di sale fin dove arrivava la vista; e da ogni parte e sempre, pianura, solitudine,
silenzio. Rarissimamente incontravano due o tre viaggiatori a cavallo, seguiti
da un branco di cavalli sciolti, che passavano di galoppo, come un turbine.
I giorni eran tutti eguali, come sul mare; uggiosi e interminabili. Ma il tempo
era bello. Senonché; i peones, come se il ragazzo fosse stato il loro servitore
obbligato, diventavano di giorno in giorno più; esigenti: alcuni lo trattavano
brutalmente, con minacce; tutti si facevan servire senza riguardi; gli facevan
portare carichi enormi di foraggi; lo mandavan a pigliar acqua a grandi distanze;
ed egli, rotto dalla fatica, non poteva neanche dormire la notte, scosso continuamente
dai sobbalzi violenti del carro e dallo scricchiolìo assordante delle ruote
e delle sale di legno. E per giunta, essendosi levato il vento, una terra fina,
rossiccia e grassa, che avvolgeva ogni cosa, penetrava nel carro, gli entrava
sotto i panni, gli empiva gli occhi e la bocca, gli toglieva la vista e il respiro,
continua, opprimente, insopportabile. Sfinito dalle fatiche e dall'insonnia,
ridotto lacero e sudicio, rimbrottato e malmenato dalla mattina alla sera, il
povero ragazzo s'avviliva ogni giorno di più;, e si sarebbe perduto d'animo
affatto se il capataz non gli avesse rivolto di tratto in tratto qualche buona
parola. Spesso, in un cantuccio del carro, non veduto, piangeva col viso contro
la sua sacca, la quale non conteneva più; che dei cenci. Ogni mattina si levava
più; debole e più; scoraggiato, e guardando la campagna, vedendo sempre quella
pianura sconfinata e implacabile, come un oceano di terra, diceva tra sé;: -
Oh! fino a questa sera non arrivo, fino a questa sera non arrivo! Quest'oggi muoio per la strada! - E le fatiche crescevano,
i mali trattamenti raddoppiavano. Una mattina, perché; aveva tardato a portar l'acqua, in assenza del capataz,
uno degli uomini lo percosse. E allora cominciarono a farlo per vezzo, quando
gli davano un ordine, a misurargli uno scapaccione, dicendo: - Insacca questo,
vagabondo! - Porta questo a tua madre! - Il cuore gli scoppiava; ammalò;; -
stette tre giorni nel carro, con una coperta addosso, battendo la febbre, e
non vedendo nessuno, fuori che il capataz, che veniva a dargli da bere e a toccargli
il polso. E allora Si credette perduto, e invocava disperatamente sua madre,
chiamandola cento volte per nome: - Oh mia madre! madre mia! Aiutami! Vienmi
incontro che muoio! Oh povera madre mia, che non ti vedrò; mai più;! Povera
madre mia, che mi troverai morto per la strada! - E giungeva le mani sul petto
e pregava. Poi miglioro, grazie alle cure del capataz, e guarì; ma con la guarigione
sopraggiunse il giorno più; terribile del suo viaggio, il giorno in cui doveva
rimaner solo. Da più; di due settimane erano in cammino. Quando arrivarono al
punto dove dalla strada di Tucuman si stacca quella che va a Santiago dell'Estero,
il capataz gli annunciò; che dovevano separarsi. Gli diede qualche indicazione
intorno al cammino, gli legò; la sacca sulle spalle in modo che non gli desse
noia a camminare, e tagliando corto, come se temesse di commuoversi, lo salutò;.
Il ragazzo fece appena in tempo a baciargli un braccio. Anche gli altri uomini,
che lo avevano maltrattato così duramente, parve che provassero un po' di pietà;
a vederlo rimaner così solo, e gli fecero un cenno d'addio, allontanandosi.
Ed egli restituì il saluto con la mano, stette a guardar il convoglio fin che
si perdette nel polverìo rosso della campagna, e poi si mise in cammino, tristamente.
Una cosa, per altro, lo riconfortò; un poco, fin da principio. Dopo t
anti giorni di viaggio a traverso a quella pianura sterminata
e sempre eguale egli vedeva davanti a sé; una catena di montagne altissime,
azzurre, con le cime bianche, che gli rammentavano le Alpi, e gli davan come
un senso di ravvicinamento al suo paese. Erano le Ande, la spina dorsale del
continente Americano, la catena immensa che si stende dalla Terra del fuoco
fino al mare glaciale del polo artico per cento e dieci radi di latitudine. Ed anche lo confortava il sentire
che l'aria si veniva facendo sempre più; calda; e questo
avveniva perché;, risalendo verso settentrione, egli si andava avvicinando alle
regioni tropicali. A grandi distanze trovava dei piccoli gruppi di case, con
una botteguccia; e comprava qualche cosa da mangiare. Incontrava degli uomini
a cavallo; vedeva ogni tanto delle donne e dei ragazzi seduti in terra, immobili
e gravi, delle faccie nuove affatto per lui, color di terra, con gli occhi obbliqui,
con l'ossa delle guance sporgenti; i quali lo guardavano fisso, e lo accompagnavano
con lo sguardo, girando il capo lentamente, come automi. Erano Indiani. Il primo
giorno camminò; fin che gli ressero le forze, e dormì sotto un albero. Il secondo
giorno camminò; assai meno, e con minor animo. Aveva le scarpe rotte, i piedi
spellati, lo stomaco indebolito dalla cattiva nutrizione. Verso sera s'incominciava
a impaurire. Aveva inteso dire in Italia che in quei paesi c'eran dei serpenti:
credeva di sentirli strisciare, s'arrestava, pigliava la corsa, gli correvan
dei brividi nelle ossa. A volte lo prendeva una grande compassione di sé;, e
piangeva in silenzio, camminando. Poi pensava: - Oh quanto soffrirebbe mia madre
se sapesse che ho tanta paura! - e questo pensiero gli ridava coraggio. Poi,
per distrarsi dalla paura, pensava a tante cose di lei, si richiamava alla mente
le sue parole di quand'era partita da Genova, e l'atto con cui soleva accomodargli
le coperte sotto il mento, quando era a letto, e quando era bambino, che alle
volte se lo pigliava fra le braccia, dicendogli: - Sta' un po' qui con me, -
e stava così molto tempo, col capo appoggiato sul suo, pensando, pensando. E
le diceva tra sé;: - Ti rivedrò; un giorno, cara madre? Arriverò; alla fine
del mio viaggio, madre mia? - E camminava, camminava, in mezzo ad alberi sconosciuti,
a vaste piantagioni di canne da zucchero, a praterie senza fine, sempre con
quelle grandi montagne azzurre davanti, che tagliavano il cielo sereno coi loro
altissimi coni. Quattro giorni - cinque - una settimana passò;. Le forze gli
andavan rapidamente scemando, i piedi gli sanguinavano. Finalmente, una sera
al cader del sole, gli dissero: - Tucuman è; a cinque miglia di qui. - Egli
gittò; un grido di gioia, e affrettò; il passo, come se avesse riacquistato
in un punto tutto il vigore perduto. Ma fu una breve illusione. Le forze lo abbandonarono a un tratto, e cadde
sull'orlo d'un fosso, sfinito. Ma il cuore gli batteva
dalla contentezza. Il cielo, fitto di stelle splendidissime, non gli era mai
parso così bello. Egli le contemplava, adagiato sull'erba per dormire, e pensava
che forse nello stesso tempo anche sua madre le guardava. E diceva: - O madre
mia, dove sei? che cosa fai in questo momento? Pensi al tuo figliuolo? Pensi
al tuo Marco, che ti è; tanto vicino? Povero Marco, s'egli avesse potuto vedere
in quale stato si trovava sua madre in quel punto, avrebbe fatto uno sforzo
sovrumano per camminare ancora, e arrivar da lei qualche ora prima. Era malata,
a letto, in una camera a terreno d'una casetta signorile, dove abitava tutta
la famiglia Mequinez; la quale le aveva posto molto affetto e le faceva grande
assistenza. La povera donna era già; malaticcia quando l'ingegnere Mequinez
aveva dovuto partire improvvisamente da Buenos Aires, e non s'era punto rimessa
colla buon'aria di Cordova. Ma poi, il non aver più; ricevuto risposta alle
sue lettere né; dal marito né; dal cugino, il presentimento sempre vivo di qualche
grande disgrazia, l'ansietà; continua in cui era vissuta, incerta tra il partire
e il restare, aspettando ogni giorno una notizia funesta, l'avevano fatta peggiorare
fuor di modo. Da ultimo, le s'era manifestata una malattia gravissima: un'ernia
intestinale strozzata. Da quindici giorni non s'alzava da letto. Era necessaria
un'operazione chirurgica per salvarle la vita. E in quel momento appunto, mentre
il suo Marco la invocava, stavano accanto al suo letto il padrone e la padrona
di casa, a ragionarla con molta dolcezza perché; si lasciasse operare, ed essa
persisteva nel rifiuto, piangendo. Un bravo medico di Tucuman era già; venuto
la settimana prima, inutilmente. - No, cari signori - essa diceva, - non mette
conto; non ho più; forza di resistere; morirei sotto i ferri del chirurgo. è;
meglio che mi lascino morir così. Non ci tengo più; alla vita oramai. Tutto
è; finito per me. è; meglio che muoia prima di sapere cos'è; accaduto alla mia
famiglia. - E i padroni a dirle di no, che si facesse coraggio, che alle ultime
lettere mandate a Genova direttamente avrebbe ricevuto risposta, che si lasciasse
operare, che lo facesse per i suoi figliuoli. Ma quel pensiero dei suoi figliuoli
non faceva che aggravare di maggior ansia lo scoraggiamento profondo
che la prostrava da lungo tempo. A quelle parole scoppiava in un pianto. - Oh,
i miei figliuoli! i miei figliuoli! - esclamava, giungendo le mani; - forse
non ci sono più;! è; meglio che muoia anch'io. Li ringrazio, buoni signori,
li ringrazio di cuore. Ma è; meglio che muoia. Tanto non guarirei neanche con
l'operazione, ne sono sicura. Grazie di tante cure, buoni signori. è; inutile
che dopo domani torni il medico. Voglio morire. è; destino ch'io muoia qui.
Ho deciso. - E quelli ancora a consolarla, a ripeterle: - No, non dite questo;
- e a pigliarla per le mani e a pregarla. Ma essa allora chiudeva gli occhi,
sfinita, e cadeva in un assopimento, che pareva morta. E i padroni restavano
lì un po' di tempo, alla luce fioca d'un lumicino, a guardare con grande pietà;
quella madre ammirabile, che per salvare la sua famiglia era venuta a morire
a sei mila miglia dalla sua patria, a morire dopo aver tanto penato, povera
donna, così onesta, così buona, così sventurata. Il giorno dopo, di buon mattino,
con la sua sacca sulle spalle, curvo e zoppicante, ma pieno d'animo, Marco entrava
nella città; di Tucuman, una delle più; giovani e delle più; floride città;
della Repubblica Argentina. Gli parve di rivedere Cordova, Rosario, Buenos Aires:
erano quelle stesse vie diritte e lunghissime, e quelle case basse e bianche;
ma da ogni parte una vegetazione nuova e magnifica, un'aria profumata, una luce
meravigliosa, un cielo limpido e profondo, come egli non l'aveva mai visto,
neppure in Italia. Andando innanzi per le vie, riprovò; l'agitazione febbrile
che lo aveva preso a Buenos Aires; guardava le finestre e le porte di tutte
le case; guardava tutte le donne che passavano, con una speranza affannosa di
incontrar sua madre; avrebbe voluto interrogar tutti, e non osava fermar nessuno.
Tutti di sugli usci, si voltavano a guardar quel povero ragazzo stracciato e
polveroso, che mostrava di venir di tanto lontano. Ed egli cercava fra la gente
un viso che gl'ispirasse fiducia, per rivolgergli quella tremenda domanda, quando
gli caddero gli occhi sopra un insegna di bottega, su cui era scritto un nome
italiano. C'era dentro un uomo con gli occhiali e due donne. Egli s'avvicinò;
lentamente alla porta, e fatto un animo risoluto, domandò;: - Mi saprebbe dire,
signore, dove sta la famiglia Mequinez? - Dell'ingeniero Mequinez? - domandò; il bottegaio alla sua volta. - Dell'ingegnere
Mequinez, - rispose il ragazzo, con un fil di voce. - La famiglia Mequinez,
- disse il bottegaio, - non è; a Tucuman. Un grido di disperato dolore, come
d'una persona pugnalata, fece eco a quelle parole. Il bottegaio e le donne s'alzarono,
alcuni vicini accorsero. - Che c'è;? che hai, ragazzo? - disse il bottegaio,
tirandolo nella bottega e facendolo sedere; - non c'è; da disperarsi, che diavolo!
I Mequinez non sono qui, ma poco lontano, a poche ore da Tucuman! - Dove? dove?
- gridò; Marco, saltando su come un resuscitato. - A una quindicina di miglia
di qua, - continuò; l'uomo, - in riva al Saladillo, in un luogo dove stanno
costruendo una grande fabbrica da zucchero, un gruppo di case, c'è; la casa
del signor Mequinez, tutti lo sanno, ci arriverai in poche ore. - Ci son stato
io un mese fa, - disse un giovane che era accorso al grido. Marco lo guardò;
con gli occhi grandi e gli domandò; precipitosamente, impallidendo: - Avete
visto la donna di servizio del signor Mequinez, l'italiana? - La jenovesa? L'ho
vista. Marco ruppe in un singhiozzo convulso, tra di riso e di pianto. Poi con
un impeto di risoluzione violenta: - Dove si passa, presto, la strada, parto
subito, insegnatemi la strada! - Ma c'è; una giornata di marcia, - gli dissero
tutti insieme, - sei stanco, devi riposare, partirai domattina. - Impossibile!
Impossibile! - rispose il ragazzo. - Ditemi dove si passa, non aspetto più;
un momento, parto subito, dovessi morire per via! Vistolo irremovibile, non
s'opposero più;. - Dio t'accompagni, - gli dissero. - Bada alla via per la foresta.
- Buon viaggio, italianito. - Un uomo l'accompagnò; fuori di città;, gli indicò;
il cammino, gli diede qualche consiglio e stette a vederlo partire. In capo
a pochi minuti, il ragazzo scomparve, zoppicando, con la sua sacca sulle spalle,
dietro agli alberi folti che fiancheggiavan la strada. Quella notte fu tremenda
per la povera inferma. Essa aveva dei dolori atroci che le strappavan degli
urli da rompersi le vene, e le davan dei momenti di delirio. Le donne che l'assistevano,
perdevan la testa. La padrona accorreva di tratto in tratto, sgomentata. Tutti
cominciarono a temere che, se anche si fosse decisa a lasciarsi operare, il
medico che doveva venire la mattina dopo, sarebbe arrivato troppo tardi. Nei
momenti che non delirava, però;, si capiva che il suo più; terribile strazio
non erano i dolori del corpo, ma il pensiero della famiglia lontana. Smorta, disfatta, col viso mutato, si cacciava le mani nei capelli con
un atto di disperazione che passava l'anima, e gridava: - Dio mio! Dio mio!
Morire tanto lontana, morire senza rivederli! I miei poveri figliuoli, che rimangono
senza madre, le mie creature, il povero sangue mio! Il mio Marco, che è; ancora
così piccolo, alto così, tanto buono e affettuoso! Voi non sapete che ragazzo
era! Signora, se sapesse! Non me lo potevo staccare dal collo quando son partita,
singhiozzava da far compassione, singhiozzava; pareva che lo sapesse che non
avrebbe mai più; rivisto sua madre, povero Marco, povero bambino mio! Credevo
che mi scoppiasse il cuore! Ah se fossi morta allora, morta mentre mi diceva
addio! morta fulminata fossi! Senza madre, povero bambino, lui che m'amava tanto,
che aveva tanto bisogno di me, senza madre, nella miseria, dovrà; andare accattando,
lui, Marco, Marco mio, che tenderà; la mano, affamato! Oh! Dio eterno! No! Non
voglio morire! Il medico! Chiamatelo subito! Venga, mi tagli, mi squarci il
seno, mi faccia impazzire, ma mi salvi la vita! Voglio guarire, voglio vivere,
partire, fuggire, domani, subito! Il medico! Aiuto! Aiuto! - E le donne le afferavan
le mani, la palpavano, pregando, la facevano tornare in sé; a poco a poco, e
le parlavan di Dio e di speranza. E allora essa ricadeva in un abbattimento
mortale, piangeva, con le mani nei capelli grigi, gemeva come una bambina, mettendo
un lamento prolungato, e mormorando di tratto in tratto: - Oh la mia Genova!
La mia casa! Tutto quel mare!... Oh Marco mio, il mio povero Marco! Dove sarà;
ora, la povera creatura mia! Era mezzanotte; e il suo povero Marco, dopo aver
passato molte ore sulla sponda d'un fosso, stremato di forze, camminava allora
attraverso a una foresta vastissima di alberi giganteschi, mostri della vegetazione,
dai fusti smisurati, simili a pilastri di cattedrali, che intrecciavano a un'altezza
meravigliosa le loro enormi chiome inargentate dalla luna. Vagamente, in quella
mezza oscurità;, egli vedeva miriadi di tronchi di tutte le forme, ritti, inclinati,
scontorti, incrociati in atteggiamenti strani di minaccia e di lotta; alcuni
rovesciati a terra, come torri cadute tutte d'un pezzo, e coperti d'una vegetazione
fitta e confusa, che pareva una folla furente che se li disputasse a palmo a
palmo; altri raccolti in grandi gruppi, verticali e serrati come fasci di lancie
titaniche, di cui la punta toccasse le nubi; una grandezza superba,
un disordine prodigioso di forme colossali, lo spettacolo più; maestosamente
terribile che gli avesse mai offerto la natura vegetale. A momenti lo prendeva
un grande stupore. Ma subito l'anima sua si rilancava verso sua madre. Ed era
sfinito, coi piedi che facevan sangue, solo in mezzo a quella formidabile foresta,
dove non vedeva che a lunghi intervalli delle piccole abitazioni umane, che
ai piedi di quegli alberi parevan nidi di formiche, e qualche bufalo addormentato
lungo la via; era sfinito, ma non sentiva la stanchezza; era solo, e non aveva
paura. La grandezza della foresta ingrandiva l'anima sua; la vicinanza di sua
madre gli dava la forza e la baldanza d'un uomo; la ricordanza dell'oceano,
degli sgomenti, dei dolori sofferti e vinti, delle fatiche durate, della ferrea
costanza spiegata, gli facea, alzare la fronte; tutto il suo forte e nobile
sangue genovese gli rifluiva al cuore in un'onda ardente d'alterezza e d'audacia.
E una cosa nuova seguiva in lui: che mentre fino allora aveva portata nella
mente un'immagine della madre oscurata e sbiadita un poco da quei due anni di
lontananza, in quei momenti quell'immagine gli si chiariva; egli rivedeva il
suo viso intero e netto come da lungo tempo non l'aveva visto più;; lo rivedeva
vicino, illuminato, parlante; rivedeva i movimenti più; sfuggevoli dei suoi
occhi e delle sue labbra, tutti i suoi atteggiamenti, tutti i suoi gesti, tutte
le ombre dei suoi pensieri; e sospinto da quei ricordi incalzanti, affrettava
il passo; e un nuovo affetto, una tenerezza indicibile gli cresceva, gli cresceva
nel cuore, facendogli correre giù; pel viso delle lacrime dolci e quiete; e
andando avanti nelle tenebre, le parlava, le diceva le parole che le avrebbe
mormorate all'orecchio tra poco: - Son qui, madre mia, eccomi qui, non ti lascerò;
mai più;; torneremo a casa insieme, e io ti starò; sempre accanto sul bastimento,
stretto a te, e nessuno mi staccherà; mai più; da te, nessuno, mai più;, fin
che avrai vita! - E non s'accorgeva intanto che sulle cime degli alberi giganteschi
andava morendo la luce argentina della luna nella bianchezza delicata dell'alba. Alle otto di quella mattina il medico di Tucuman, - un
giovane argentino - era già; al letto della malata, in compagnia d'un assistente, a tentare per l'ultima volta
di persuaderla a lasciarsi operare; e con lui ripetevano le più; calde istanze
l'ingegnere Mequinez e la sua signora. Ma tutto era inutile. La donna, sentendosi
esausta di forze, non aveva più; fede nell'operazione; essa era certissima o
di morire sull'atto o di non sopravvivere che poche ore, dopo d'aver sofferto
invano dei dolori più; atroci di quelli che la dovevano uccidere naturalmente.
Il medico badava a ridirle: - Ma l'operazione è; sicura, ma la vostra salvezza
è; certa, purché; ci mettiate un po' di coraggio! Ed è; egualmente certa la
vostra morte se vi rifiutate! - Eran parole buttate via. - No, - essa rispondeva,
con la voce fioca, - ho ancora coraggio per morire; ma non ne ho più; per soffrire
inutilmente. Grazie, signor dottore. è; destinato così. Mi lasci morir tranquilla.
- Il medico, scoraggiato, desistette. Nessuno parlò; più;. Allora la donna voltò;
il viso verso la padrona, e le fece con voce di moribonda le sue ultime preghiere.
- Cara, buona signora, - disse a gran fatica, singhiozzando, - lei manderà;
quei pochi denari e le mie povere robe alla mia famiglia... per mezzo del signor
Console. Io spero che sian tutti vivi. Il cuore mi predice bene in questi ultimi
momenti. Mi farà; la grazia di scrivere... che ho sempre pensato a loro, che
ho sempre lavorato per loro... per i miei figliuoli... e che il mio solo dolore
fu di non rivederli più;... ma che son morta con coraggio... rassegnata... benedicendoli;
e che raccomando a mio marito... e al mio figliuolo maggiore... il più; piccolo,
il mio povero Marco... che l'ho avuto in cuore fino all'ultimo momento... -
Ed esaltandosi tutt'a un tratto, gridò; giungendo le mani: - Il mio Marco! Il
mio bambino! La vita mia!... - Ma girando gli occhi pieni di pianto, vide che
la padrona non c'era più;: eran venuti a chiamarla furtivamente. Cercò; il padrone:
era sparito. Non restavan più; che le due infermiere e l'assistente. Si sentiva
nella stanza vicina un rumore affrettato di passi, un mormorio di voci rapide
e sommesse, e d'esclamazioni rattenute. La malata fissò; sull'uscio gli occhi
velati, aspettando. Dopo alcuni minuti vide comparire
il medico, con un viso insolito; poi la padrona e il padrone,
anch'essi col viso alterato. Tutti e tre la guardarono con un'espressione singolare,
e si scambiarono alcune parole a bassa voce. Le parve che il medico dicesse
alla signora: - Meglio subito. - La malata non capiva. - Josefa, - le disse
la padrona con la voce tremante. - Ho una buona notizia da darvi. Preparate
il cuore a una buona notizia. La donna la guardò; attentamente. - Una notizia,
- continuò; la signora, sempre più; agitata, - che vi darà; una grande gioia.
La malata dilatò; gli occhi. - Preparatevi, - proseguì la padrona, - a vedere
una persona... a cui volete molto bene. La donna alzò; il capo con un scatto
vigoroso, e cominciò; a guardare rapidamente ora la signora ora l'uscio, con
gli occhi sfolgoranti. - Una persona, - soggiunse la signora, impallidendo,
- arrivata or ora... inaspettatamente. - Chi è;? - gridò; la donna con una voce
strozzata e strana, come di persona spaventata. Un istante dopo gittò; un grido
altissimo, balzando a sedere sul letto, e rimase immobile, con gli occhi spalancati
e con le mani alle tempie, come davanti a un'apparizione sovrumana. Marco, lacero
e polveroso, era là; ritto sulla soglia, trattenuto per un braccio dal dottore.
La donna urlò; tre volte: - Dio! Dio! Dio mio! Marco si slanciò; avanti, essa
protese le braccia scarne, e serrandolo al seno con la forza d'una tigre, scoppiò;
in un riso violento, rotto da profondi singhiozzi senza lagrime, che la fecero
ricader soffocata sul cuscino. Ma si riprese subito e gridò; pazza di gioia,
tempestandogli il capo di baci: - Come sei qui? Perché;? Sei tu? Come sei cresciuto!
Chi t'ha condotto? Sei solo? Non sei malato? Sei tu, Marco! Non è; un sogno!
Dio mio! Parlami! - Poi cambiando tono improvvisamente: - No! Taci! Aspetta!
- E voltandosi verso il medico, a precipizio: - Presto, subito, dottore. Voglio
guarire. Son pronta. Non perda un momento. Conducete via Marco che non senta.
Marco mio, non è; nulla. Mi racconterai. Ancora un bacio. Va. Eccomi qui, dottore.
Marco fu portato via. I padroni e le donne uscirono in fretta; rimasero il chirurgo
e l'assistente, che chiusero la porta. Il signor Mequinez tentò; di tirar Marco
in una stanza lontana; ma fu impossibile; egli parea inchiodato al pavimento.
- Cosa c'è;? - domandò;. - Cos'ha mia madre? Cosa le fanno? E allora il Mequinez, piano, tentando
sempre di condurlo via: - Ecco. Senti. Ora ti dirò;. Tua
madre è; malata, bisogna farle una piccola operazione, ti spiegherò; tutto,
vieni con me. - No, - rispose il ragazzo, impuntandosi, - voglio star qui. Mi
spieghi qui. L'ingegnere ammontava parole su parole, tirandolo: il ragazzo cominciava
a spaventarsi e a tremare. A un tratto un grido acutissimo, come il grido d'un
ferito a morte, risonò; in tutta la casa. Il ragazzo rispose con un altro grido
disperato: - Mia madre è; morta! Il medico comparve sull'uscio e disse: - Tua
madre è; salva. Il ragazzo lo guardò; un momento e poi si gettò; ai suoi piedi
singhiozzando: - Grazie dottore! Ma il dottore lo rialzò; d'un gesto, dicendo:
- Levati!... Sei tu, eroico fanciullo, che hai salvato tua madre.
Estate 24, mercoledì Marco il genovese è; il penultimo piccolo eroe di cui facciamo conoscenza quest'anno: non ne resta che uno per il mese di giugno. Non ci son più; che due esami mensili, ventisei giorni di lezione, sei giovedì e cinque domeniche. Si sente già; l'aria della fine dell'anno. Gli alberi del giardino, fronzuti e fioriti, fanno una bell'ombra sugli attrezzi della ginnastica. Gli scolari son già; vestiti da estate. è; bello ora veder l'uscita delle classi, com'è; tutto diverso dai mesi scorsi. Le capigliature che toccavan le spalle sono andate giù;: tutte le teste sono rapate; si vedono gambe nude e colli nudi; cappellini di paglia d'ogni forma, con dei nastri che scendon fin sulle schiene; camicie e cravattine di tutti i colori; tutti i più; piccoli con qualche cosa addosso di rosso o d'azzurro, una mostra, un orlo, una nappina, un cencino di color vivo appiccicato pur che sia dalla mamma, perché; faccia figura, anche i più; poveri, e molti vengono alla scuola senza cappello, come scappati di casa. Alcuni portano il vestito bianco della ginnastica. C'è; un ragazzo della maestra Delcati che è; tutto rosso da capo a piedi, come un gambero cotto. Parecchi sono vestiti da marinai. Ma il più; bello è; il muratorino che ha messo su un cappellone di paglia, che gli dà; l'aria d'una mezza candela col paralume; ed è; un ridere a vedergli fare il muso di lepre là; sotto. Coretti anche ha smesso il suo berretto di pel di gatto e porta un vecchio berretto di seta grigia da viaggiatore. Votini ha una specie di vestimento alla scozzese, tutto attillato; Crossi mostra il petto nudo; Precossi sguazza dentro a un camiciotto turchino da fabbro ferraio. E Garoffi? Ora che ha dovuto lasciare il mantellone, che nascondeva il suo commercio, gli rimangono scoperte bene tutte le tasche gonfie d'ogni sorta di carabattole da rigattiere, e gli spuntan fuori le liste delle lotterie. Ora tutti lascian vedere quello che portano: dei ventagli fatti con mezza gazzetta, dei bocciuoli di canna, delle freccie da tirare agli uccelli, dell'erba, dei maggiolini che sbucano fuor delle tasche e vanno su pian piano per le giacchette. Molti di quei piccoli portano dei mazzetti di fiori alle maestre. Anche le maestre son tutte vestite da estate, di colori allegri; fuorché; la "monachina" che è; sempre nera, e la maestrina della penna rossa ha sempre la sua penna rossa, e un nodo di nastri rosa al collo, tutti sgualciti dalle zampette dei suoi scolari, che la fanno sempre ridere e correre. è; la stagione delle ciliegie, delle farfalle, delle musiche sui viali e delle passeggiate in campagna; molti di quarta scappano già; a bagnarsi nel Po; tutti hanno già; il cuore alle vacanze; ogni giorno si esce dalla scuola più; impazienti e contenti del giorno innanzi. Soltanto mi fa pena di veder Garrone col lutto, e la mia povera maestra di prima che è; sempre più; smunta e più; bianca e tosse sempre più; forte. Cammina curva ora, e mi fa un saluto così triste!
Poesia 26, venerdì Tu cominci a comprendere la poesia della scuola, Enrico;
ma la scuola, per ora, non la vedi che di dentro: ti parrà; molto più; bella
e più; poetica fra trent'anni, quando ci verrai a accompagnare i tuoi figliuoli,
e la vedrai di fuori, come io la vedo. Aspettando l'uscita, io giro per le strade
silenziose, intorno all'edifizio, e porgo l'orecchio alle finestre del pian
terreno, chiuse dalle persiane. Da una finestra sento la voce d'una maestra
che dice - Ah! quel taglio di t! Non va, figliuol mio. Che ne direbbe tuo padre?...
- Alla finestra vicina è; la grossa voce d'un maestro che detta lentamente.
- Comperò; cinquanta metri di stoffa... a lire quattro e cinquanta il metro...
li rivendette... - Più; in là; è; la maestrina della penna rossa che legge ad
alta voce: - Allora Pietro Micca con la miccia accesa... - Dalla classe vicina
esce come un cinguettio di cento uccelli, che vuol dir che il maestro è; andato
fuori un momento. Vo innanzi, e alla svoltata del canto sento uno scolaro che
piange, e la voce della maestra che lo rimprovera o lo consola. Da altre finestre
vengono fuori dei versi, dei nomi d'uomini grandi e buoni, dei frammenti di
sentenze che consiglian la virtù;, l'amor di patria, il coraggio. Poi seguono
dei momenti di silenzio, in cui si direbbe che l'edifizio è; vuoto, e non par
possibile che ci sian dentro settecento ragazzi, poi si senton degli scoppi
rumorosi d'ilarità;, provocati dallo scherzo d'un maestro di buon umore... E
la gente che passa si sofferma a ascoltare, e tutti rivolgono uno sguardo di
simpatia a quell'edificio gentile, che racchiude tanta giovinezza e tante speranze.
Poi si ode un improvviso strepito sordo, un batter di libri e di cartelle, uno
stropiccio di piedi, un ronzìo che si propaga di classe in classe e dal basso
all'alto, come al diffondersi improvvi
so d'una buona notizia: è; il bidello che gira ad annunziare
il finis. E a quel rumore una folla i donne, d'uomini, di ragazze e di giovanetti,
si stringono di qua e di là; dalla porta, a aspettare i figliuoli, i fratelli,
i nipotino, mentre dagli usci delle classi schizzan fuori come zampillando nel
camerone i ragazzi piccoli, a pigliar cappottini e cappelli, facendone un arruffìo
sul pavimento, e ballettando tutt'in giro, fin che il bidello li ricaccia dentro
a uno a uno. E finalmente escono, in lunghe file, battendo i piedi. E allora
da tutti i parenti comincia la pioggia delle domande: - Hai saputo la lezione?
Quanto t'ha dato del lavoro? Che cos'avete per domani? Quand'è; l'esame mensile?
- E anche le povere madri che non sanno leggere, aprono i quaderni, guardano
i problemi, domandano i punti: - Solamente otto? - Dieci con lode? - Nove di
lezione? - E s'inquietano e si rallegrano e interrogano i maestri e parlan di
programmi e d'esami. Com'è; bello tutto questo, com'è; grande, e che immensa
promessa è; pel mondo! TUO PADRE
La sordomuta 28, domenica Non potevo finirlo meglio che con la visita di questa mattina
il mese di maggio. Udiamo una scampanellata, corriamo tutti. Sento mio padre
che dice in tuono di meraviglia: - Voi qui, Giorgio? - Era Giorgio, il nostro
giardiniere di Chieri, che ora ha la famiglia a Condove, arrivato allora allora
da Genova, dov'era sbarcato il giorno avanti, di ritorno dalla Grecia, dopo
tre anni che lavorava alle strade ferrate. Aveva un grosso fagotto fra le braccia.
è; un po' invecchiato, ma sempre rosso in viso e gioviale. Mio padre voleva
che entrasse; ma egli disse di no, e domandò; subito, facendo il viso serio:
- Come va la mia famiglia? Come sta Gigia? - Bene fino a pochi giorni fa, -
rispose mia madre. Giorgio tirò; un gran sospiro: - Oh! Sia lodato Iddio! Non
avevo il coraggio di presentarmi ai Sordomuti senz'aver notizie da lei. Io lascio
qui il fagotto e scappo a pigliarla. Tre anni che non la vedo la mia povera
figliuola! Tre anni che non vedo nessuno dei miei! Mio padre mi disse: - Accompagnalo.
- Ancora una parola, mi scusi, - disse il giardiniere sul pianerottolo. Ma mio
padre l'interruppe: - E gli affari? - Bene, - rispose, - grazie a Dio. Qualche
soldo l'ho portato. Ma volevo domandare. Come va l'istruzione della mutina,
dica un po'. Io l'ho lasciata che era come un povero animaletto, povera creatura.
Io ci credo poco, già;, a questi collegi. Ha imparato a fare i segni? Mia moglie
mi scriveva bene: - Impara a parlare, fa progressi. - Ma, dicevo io, che cosa
vale che impari a parlare lei se io i segni non li so fare? Come faremo a intenderci,
povera piccina? Quello è; buono per capirsi fra loro, un disgraziato con l'altro.
Come va, dunque? Come va? Mio padre sorrise, e rispose: - Non vi dico nulla;
vedrete voi; andate, andate; non le rubate un minuto di più;. Uscimmo; l'istituto
è; vicino. Strada facendo, a grandi passi, il giardiniere mi parlava, rattristandosi.
- Ah! la mia povera Gigia! Nascere con quella disgrazia! Dire che non mi son
mai sentito chiamar padre da lei, che lei non s'è; mai sentita chiamar figliuola
da me, che mai non ha detto né; inteso una parola al mondo! E grazia che s'è;
trovato un signore caritatevole che ha fatto le spese dell'istituto. Ma tanto...
prima degli otto anni non c'è; potuta andare. Son tre anni che non è; in casa.
Va per gli undici, adesso. è; cresciuta, mi dica un po', è; cresciuta? è; di
buon umore? - Ora vedrete, ora vedrete, - gli risposi affrettando il passo.
- Ma dov'è; quest'istituto? - domandò;. - Mia moglie ce l'accompagnò; ch'ero
già; partito. Mi pare che debba essere da queste parti. Eravamo appunto arrivati.
Entrammo subito nel parlatorio. Ci venne incontro un custode. - Sono il padre
di Gigia Voggi, disse il giardiniere; - la mia figliuola subito subito. - Sono
in ricreazione, - rispose il custode, - vado a avvertir la maestra. - E scappò;.
Il giardiniere non poteva più; né; parlare, né; star fermo; guardava i quadri
alle pareti, senza veder nulla. La porta s'aperse: entrò; una maestra, vestita
di nero, con una ragazza per mano. Padre e figliuola si guardarono un momento
e poi si slanciarono l'uno nelle braccia dell'altro, mettendo un grido. La ragazza
era vestita di rigatino bianco e rossiccio, con un grembiale grigio. è; più;
alta di me. Piangeva e teneva suo padre stretto al collo con tutt'e due le braccia.
Suo padre si svincolò;, e si mise a guardarla da capo a piedi, coi lucciconi
agli occhi, ansando come se avesse fatto una gran corsa; e sclamò;: - Ah! com'è;
cresciuta! come s'è; fatta bella! Oh la mia cara, la mia povera Gigia! La mia
povera mutina! è; lei, signora, la maestra? Le dica un po' che mi faccia pure
i suoi segni, che qualche cosa capirò;, e poi imparerò; a poco a poco. Le dica
che mi faccia capire qualche cosa, coi gesti. La maestra sorrise e disse a bassa
voce alla ragazza: - Chi è; quest'uomo che t'è; venuto a trovare? E la ragazza,
con una voce grossa, strana, stuonata come quella d'un selvaggio che parlasse
per la prima volta la nostra lingua, ma pronunciando chiaro, e sorridendo, rispose:
- è; mi-o pa-dre. Il giardiniere diede un passo indietro e gridò; come un matto:
- Parla! Ma è; possibile! Ma è; possibile! Parla? Ma tu parli, bambina mia,
parli? dimmi un poco: parli? - E di nuovo l'abbracciò; e la baciò; sulla fronte
tre volte. - Ma non è; coi gesti che parlano, signora maestra, non è; con le
dita, così? Ma cosa è; questo? - No, signor Voggi, - rispose la maestra, - non
è; coi gesti. Quello era il metodo antico. Qui s'insegna col metodo nuovo, col
metodo orale. Come non lo sapevate? - Ma io non sapevo niente! - rispose il
giardiniere, trasecolato. - Tre anni che son fuori! O me l'avranno scritto e
non l'ho capito. Sono una testa di legno, io. O figliuola mia, tu mi capisci,
dunque? Senti la mia voce? Rispondi un poco: mi senti? Senti quello che ti dico?
- Ma no, buon uomo, - disse la maestra, - la voce non la sente, perché; è; sorda.
Essa capisce dai movimenti della vostra bocca quali sono le parole che voi dite;
ecco la cosa; ma non sente le vostre parole e neppure quello che essa dice a
voi; le pronuncia perché; le abbiamo insegnato, lettera per lettera, come deve
atteggiar le labbra e muover la lingua, e che sforzo deve far col petto e con
la gola, per metter fuori la voce. Il giardiniere non capì, e stette a bocca
aperta. Non ci credeva ancora. - Dimmi, Gigia, - domandò; alla figliuola, parlandole
all'orecchio, - sei contenta che tuo padre sia ritornato? - E rialzato il viso,
stette a aspettar la risposta. La ragazza lo guardò;, pensierosa, e non disse
nulla. Il padre rimase turbato. La maestra rise. Poi disse: - Buon uomo, non
vi risponde perché; non ha visto i movimenti delle vostre labbra: le avete parlato
all'orecchio! Ripetete la domanda tenendo bene il vostro viso davanti al suo.
Il padre, guardandola bene in faccia, ripeté;: - Sei contenta che tuo padre
sia ritornato? che non se ne vada più; via? La ragazza, che gli aveva guardato
attenta le labbra, cercando anche di vedergli dentro alla bocca, rispose francamente:
- Sì, so-no contenta, che sei tor-na-to, che non vai via... mai più;. Il padre
l'abbracciò; impetuosamente, e poi in fretta e in furia, per accertarsi meglio,
la affollò; di domande. - Come si chiama la mamma? - An-tonia. - Come si chiama
la tua sorella piccola? - A-de-laide. - Come si chiama questo collegio? - Dei
sor-do-muti. - Quanto fa due volte dieci? - Venti. Mentre credevamo che ridesse
di gioia, tutt'a un tratto si mise a piangere. Ma era gioia anche quella. -
Animo, - gli disse la maestra, - avete motivo di rallegrarvi, non di piangere.
Vedete che fate piangere anche la vostra figliuola. Siete contento, dunque?
Il giardiniere afferrò; la mano alla maestra e gliela baciò; due o tre volte
dicendo: - Grazie, grazie, cento volte grazie, mille volte grazie, cara signora
maestra! E mi perdoni che non le so dir altro! - Ma non solo parla, - gli disse
la maestra; - la vostra figliuola sa scrivere. Sa far di conto. Conosce il nome
di tutti gli oggetti usuali. Sa un poco di storia e di geografia. Ora è; nella
classe normale. Quando avrà; fatte le altre due classi, saprà; molto, molto
di più;. Uscirà; di qui che sarà; in grado di prendere una professione. Ci abbiamo
già; dei sordomuti che stanno nelle botteghe a servir gli avventori, e fanno
i loro affari come gli altri. Il giardiniere rimase stupito daccapo. Pareva
che gli si confondessero le idee un'altra volta. Guardò; la figliuola e si grattò;
la fronte. Il suo viso domandava ancora una spiegazione. Allora la maestra si
voltò; al custode e gli disse: - Chiamatemi una bimba della classe preparatoria.
Il custode tornò; poco dopo con una sordomuta di otto o nove anni, entrata da
pochi giorni nell'istituto. - Questa, - disse la maestra, - è; una di quelle
a cui insegniamo i primi elementi. Ecco come si fa. Voglio farle dire e. State
attento. - La maestra aperse la bocca, come si apre per pronunciare la vocale
e, e accennò; alla bimba che aprisse la bocca nella stessa maniera. La bimba
obbedì. Allora la maestra le fece cenno che mettesse fuori la voce. Quella mise
fuori la voce, ma invece di e, pronunziò; o. - No, - disse la maestra, - non
è; questo. - E pigliate le due mani della bimba, se ne mise una aperta sulla
gola e l'altra sul petto, e ripeté;: - e. - La bimba, sentito con le mani il
movimento della gola e del petto della maestra, riaperse la bocca come prima,
e pronunziò; benissimo: - e. - Nello stesso modo la maestra le fece dire c e
d, sempre tenendosi le due piccole mani sul petto e sulla gola. - Avete capito
ora? - domandò;. Il padre aveva capito; ma pareva più; meravigliato di quando
non capiva. - E insegnano a parlare in quella maniera? - domandò;, dopo un minuto
di riflessione, guardando la maestra. - Hanno la pazienza d'insegnare a parlare
a quella maniera, a poco a poco, a tutti quanti? a uno a uno?... per anni e
anni?... Ma loro sono santi, sono! Ma loro sono angeli del paradiso! Ma non
c'è; al mondo una ricompensa, per loro! Che cosa ho da dire?... Ah! mi lascino
un poco con la mia figliuola, ora. Me la lascino cinque minuti per me solo.
E tiratala a sedere in disparte cominciò; a interrogarla, e quella a rispondere,
ed egli rideva con gli occhi lustri, battendosi i pugni sulle ginocchia, e pigliava
la figliuola con le mani, guardandola, fuor di sé; dalla contentezza a sentirla,
come se fosse una voce che venisse dal cielo; poi domandò; alla maestra: - Il
signor Direttore, sarebbe permesso di ringraziarlo? - Il Direttore non c'è;,
- rispose la maestra. - Ma c'è; un'altra persona che dovreste ringraziare. Qui
ogni ragazza piccola è; data in cura a una compagna più; grande, che le fa da
sorella, da madre. La vostra è; affidata a una sordomuta di diciassette anni,
figliuola d'un fornaio, che è; buona e le vuol bene molto: da due anni va a
aiutarla a vestirsi ogni mattina, la pettina, le insegna a cucire, le accomoda
la roba, le tien buona compagnia. Luigia, come si chiama la tua mamma dell'istituto?
La ragazza sorrise e rispose: - Cate-rina Gior-dano. - Poi disse a suo padre:
- Mol-to, mol-to buona. Il custode, uscito a un cenno della maestra, ritornò;
quasi subito con una sordomuta bionda, robusta di viso allegro, vestita anch'essa
di rigatino rossiccio col grembiale grigio; la quale si arrestò; sull'uscio
e arrossì; poi chinò; la testa, ridendo. Aveva il corpo d'una donna, e pareva
una bambina. La figliuola di Giorgio le corse subito incontro, la prese per
un braccio come una bimba e la tirò; davanti a suo padre, dicendo con la sua
grossa voce: - Ca-te-rina Gior-dano. - Ah! la brava ragazza! - esclamò; il padre,
e allungò; la mano per carezzarla, ma la tirò; indietro, e ripeté;: - Ah! la
buona ragazza, che Dio la benedica, che le dia tutte le fortune, tutte le consolazioni,
che la faccia sempre felice lei e tutti i suoi, una buona ragazza così, povera
la mia Gigia, è; un onesto operaio, un povero padre di famiglia che glielo augura
di tutto cuore! La ragazza grande accarezzava la piccola, sempre tenendo il
viso basso e sorridendo; e il giardiniere continuava a guardarla, come una madonna.
- Oggi vi potete pigliar con voi la vostra figliuola, - disse la maestra. -
Se me la piglio! - rispose il giardiniere. - Me la conduco a Condove e la riporto
domani mattina. Si figuri un po' se non me la piglio! - La figliuola scappò;
a vestirsi. -Dopo tre anni che non la vedo! - riprese il giardiniere. - Ora
che parla! A Condove subito me la porto. Ma prima voglio far un giro per Torino
con la mia mutina a braccetto, che tutti la vedano, e condurla dalle mie quattro
conoscenze, che la sentano! Ah! la bella giornata! Questa si chiama una consolazione.!
Qua il braccio a tuo padre, Gigia mia! - La ragazza, ch'era tornata con una
mantellina e una cuffietta, gli diede il braccio. - E grazie a tutti! - disse
il padre di sull'uscio. - Grazie a tutti con tutta l'anima mia! Tornerò; ancora
una volta a ringraziar tutti! Rimase un momento sopra pensiero, poi si staccò;
bruscamente dalla ragazza, tornò; indietro frugandosi con una mano nella sottoveste,
e gridò; come un furioso: - Ebbene, sono un povero diavolo, ma ecco qui, lascio
venti lire per l'istituto, un marengo d'oro bell'e nuovo. E dando un gran colpo
sul tavolino, vi lasciò; il marengo. - No, no, brav'uomo, - disse la maestra
commossa. - Ripigliatevi il vostro denaro. Io non lo posso accettare. Ripigliatevelo.
Non tocca a me. Verrete quando ci sarà; il Direttore. Ma non accetterà; nemmeno
lui, statene sicuro. Avete faticato troppo per guadagnarveli, pover'uomo. Vi
saremo tutti grati lo stesso. - No, io lo lascio, - rispose il giardiniere,
intestato; - e poi... si vedrà;. Ma la maestra gli rimise la moneta in tasca
senza lasciargli il tempo di respingerla. E allora egli si rassegnò;, crollando
il capo; e poi, rapidamente, mandato un bacio con la mano alla maestra e alla
ragazza grande, e ripreso il braccio della sua figliuola, si slanciò; con lei
fuor della porta dicendo: - Vieni, vieni, figliuola mia, povera mutina mia,
mio tesoro! E la figliuola esclamò; con la sua voce grossa: - Oh-che-bel-sole!
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