E' scomparso nel giorno in cui è stata pubblicata
l'ultima striscia. Clinton: "Non lo dimenticheremo"


Schulz muore
insieme ai Peanuts



di VITTORIO ZUCCONI

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WASHINGTON - All'età di 77 anni e qualche giorno, è morto con i suoi bambini un vecchio che aveva avuto il coraggio di restare un bambino. Charles "Sparky" Schulz, "Scintillina" come lo chiamavano gli amici d'infanzia, si è spento nel sonno, come a volte muoiono i buoni, alle 10 della sera, proprio nel letto e nell'ora nella quale si coricava abitualmente nella casa di Santa Rosa, chiudeva gli occhi e lasciava che la carovana delle noccioline cominciasse quella marcia nell'insonnia, che il mattino dopo avrebbe tracciato per noi, con il pennarello sulla carta lucida. Lascia una moglie, due figli, 355 milioni di lettori, un bracchetto isterico e una famiglia di orfanelli con la testona rotonda.

La moglie e i medici informano che è stato ucciso da un'emorragia cerebrale, sabato sera in California, proprio mentre le rotative dei quotidiani americani cominciavano a stampare l'ultima striscia di Charlie Brown. Forse è anche vero.

La tentazione, adesso, è di pensare che anche la sua fine sia stata soltanto il fotogramma terminale e non accidentale di una strip a lungo preparata e voluta. Che la coincidenza abbagliante tra la morte di Charlie Brown e la morte di Charlie Schulz sia troppo perfetta per essere casuale e qualche cosa sia successo, sabato sera, nella penombra di quella camera popolata dalla veglia delle sue creature, per accelerare una fine che ormai, dopo interventi chirurgici all'addome per il tumore all'intestino, micro emorragie cerebrali ripetute, e la inutilità delle cure, sarebbe stata inevitabile e dolorosa. Ma non abbiamo né prove né sospetti per pensarlo, oltre quella coincidenza di date, e preferiamo credere che non sia stato lui, ma il Disegnatore del destino, a ricompensarlo con la grazia di un finale così perfetto e poetico.

Lo sapevano tutti, la moglie, i figli del giorno come i figli della notte, i 700 cartoonist americani che lo invidiavano e lo veneravano da decenni, e lo sapevamo anche noi lettori, che la vita di "Chuck", Charlie Brown, e di "Sparky", Charlie Schulz, erano una cosa sola e l'uno non sarebbe sopravvissuto all'altro, perché un'ombra non sopravvive a chi la proietta sul pavimento.

Gary Trudeau, l'aspro creatore di "Doonsbury", Luckovitch, il vignettista dell'Atlanta Constitution che era diventato il migliore amico di Schulz, Walter Cronkite, che lo andava spesso a trovare, tutti gli amici e i rivali che lo avevano coperto di inutili premi per alleviare la sua incurabile insicurezza, da anni cercavano di spiegarci che le figurine dei "Peanuts" non erano metafore, denunce, saggi o messaggi, ma che erano sempre e soltanto lui, "Scintillina", che raccontava la propria inestirpabile depressione attraverso quei personaggi, tutti e soltanto schegge di se stesso. Creature che alla fine si erano impadronite del loro creatore.

Era difficile accettare che un bambino, e per di più un bambino buono, potesse avere tanto successo nel mondo dei bambini cattivi, che i 355 milioni di lettori che gli tributavano tanti meritatissimi miliardi di lire l'anno in diritti d'autore si riconoscessero in un mondo apparentemente tanto personale come quello dei Peanuts. Ma "Sparky" era il rassicurante paradosso della sincerità nel tempo della finzione, era l'anomalia della modestia, nell'epoca della vanità e del marketing ed era bellissimo incontrarlo, parlargli e scoprire che lui, la persona, era davvero come i personaggi. Luminoso e leggero, come la bellissima casa-studio di Santa Rosa piena di vetrate, nelle colline a settentrione di San Francisco, illuminate da quella luce perfetta e limpida del Nord che serve ai pittori e ai tagliatori di diamanti. Leggermente sbiadito in una faccia senza grandi qualità, gli occhietti piccoli e un po' distanti come quelli dei suoi testoni, il naso lievemente ripiegato a ricciolo, di nuovo, come i suoi personaggi.

Erano una casa pulitissima e ordinatissima, neppure un pennarello o un rapidograph fuori posto, le matite tutte sull'attenti nei portapenne, pupazzi e poster dei suoi tiranni ovunque, Snoopy arancioni di tre metri made in Korea, Lucy di resina, Charlie fatti coi ferri da calza. E l'inquilino, il padrone-prigioniero, lui, sembrava volersi continuamente scusare per il fatto di avere avuto tanto successo, forse di non riuscire neppure a capire fino in fondo il perché di tanta fortuna. Mi fece dare un'occhiata alla sua camera da letto, la camera dove è morto, arredata con quel gusto spartano, un po' freddo, scandinavo come la terra degli scandinavi emigrati in America, il glaciale Minnesota dai mille laghi, dove era nato, nel novembre del 1922 e aveva cominciato a disegnare "Little Folks", piccola gente, poi divenuta Peanuts. Mi chiedeva se avessi figli, sì, due, se lo leggessero, sì, e volle subito autografare per loro due strip e disegnare per me un grande Snoopy per "ringraziarmi" di essere andato a trovarlo, come se io avessi fatto un favore a lui.

Nella sua casa-studio si respirava il disagio pungente della timidezza che "Sparky" emanava, che inondava i cartoni nella piattezza della sua arte timida e piatta. "La mano mi trema un po'", mi disse per scusarsi se il profilo di Snoopy gli stava venendo incerto, sempre sorridendo con imbarazzo, come fa Chuck testarotonda quando tira le labbra sui denti. Non capiva la cattiveria, o forse ne aveva spavento: "Ma perché i vignettisti politici - chiese a Cronkite - sono così inutilmente cattivi?". E a ogni interlocutore, raccontare la fatica immensa di sfamare, ogni giorno, per 50 anni, per 20 mila giorni, la insaziabile voracità del "mostro", del pubblico, mai tanto feroce come quando è composto di ammiratori. "Ho nel cassetto centinaia di strip già fatte per i giorni nei quali non mi verranno più le idee". Schulz era perennemente seduto davanti alla baracchina di Lucy: "Assistenza Psichiatrica", 5 centesimi. E Lucy eravamo noi, il suo pubblico crudele.

Mentre altri contavano le pecore o le pillole per dormire, lui andava a letto presto e si abbandonava alla sarabanda delle schegge di se stesso che ballavano nel buio della camera, chiamandolo, risucchiandolo nel ballo dell'inconscio. Era felice soltanto quando indossava la corazza del giocatore di hockey su ghiaccio, andava a giocare, con "una squadra di vecchi ronzini come me", nel palazzetto dello sport di Santa Rosa, che aveva fatto costruire a sue spese e donato al Comune, fermandosi a bere una cioccolata calda al bar del patinoire che aveva battezzato "Il Cucciolo Tiepido". Ma permetterà mai a Chuck di colpire quello stramaledetto pallone? "Non so" disse, ma capii che non lo avrebbe fatto. E nell'ultima tavola, quella che le rotative giravano mentre lui moriva, "AAUGH!", di nuovo Charlie cicca. "Tanto alla fine perdiamo tutti", rifletteva Lucy nella striscia preferita da Schulz.

"Ho raggiunto il sogno della mia infanzia", ha scritto nell'ultima lettera ai lettori. Notate bene, non il sogno della vita, non della giovinezza, ma dell'infanzia. Perché il sogno della giovinezza, quello di sposare Donna Wold, la ragazzina dai capelli rossi che lo respinse nel 1950, non potrà mai essere realizzato, mai scritto, come il romanzo per sempre incompiuto di Snoopy. Non era affatto buia né tempestosa, la notte di sabato, quando il Disegnatore ha chiuso il suo libro sulla vita di Charlie Brown-Schulz, era una notte normalissima, banale, serena. Nella quale siamo diventati tutti, purtroppo, un po' meno bambini.

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