CAPITOLO 8
(Ispezionando le funzioni mentali)
8.1) La psiche.
Di questa organizzazione
molto è già stato detto quando abbiamo trattato
l’argomento della religione
(Capitolo 4) e perciò non ci ripeteremo relativamente
alle sue istanze
omeostatiche, sulle quali abbiamo già detto
quanto basta. In quella sede
avevamo trattato la psiche un poco come una entità reazionaria e
conservatrice che frenava le spinte innovative
, esploraratrici e creatrici di
nuove esperienze esistenziali. Questo rimane
vero anche se, in altra direzione
(specificamente “psichica”) questa organizzazione nasconda delle
straordinarie possibilità esperienziali quasi
“super-materiali”, che concernono
il campo della telepatia e delle esperienze
affini, sia pure adottando tutti i
criteri di prudenza indispensabili nel trattare
questo tipo di esperienze,
spesso inquinato da mistificazioni e ciarlataneria.
Per fornire
qualche utile riferimento a concetti di largo
dominio aggiungeremo che noi
vediamo la psiche in termini molto vicini a quelli freudiani
di es
o inconscio [121],
riconoscendole in più delle possibilità esperienziali
(meta-materiali o
super-materiali) che la psicanalisi non considera
o trascura. In generale
possiamo aggiungere che la psiche del DAR (fatta salva la considerazione di
cui sopra) è, rispetto al suo significato
tradizionale, assai più limitata nei suoi
aspetti e funzioni, sia come capacità cogitativa
sia come sensibilità emozionale, ed è vista
soprattutto come afferente tutta l’ampia
gamma dei cosiddetti “istinti” o facoltà
innate e inconsapevoli; per questo infatti
la consideriamo anche la parte più antica
della nostra mente e in linea di massima
presente anche in molte specie di altri animali.
Tuttavia, se
sul piano cogitativo la psiche partecipa e interagisce con l’intelletto e con la ragione più che altro in funzione negativa o
limitativa, per quanto riguarda invece le
sue interazioni con l’idema esse vanno ritenute non solo
estese ma spesso connesse. Tra essa e l’idema
esiste addirittura una sorta di omologia
per quanto riguarda il tipo di effetti
che la loro attività produce sullo stato
fisico, laddove tutta un amplissima
gamma di emozioni psichiche sono
tangenti e talvolta confluenti con le abmozioni dell’idema. Ma se sul piano
pratico-emozionale (esistentivo) vi è un
indiscutibile “collaborazione” tra le
due va detto che la psiche (quale
“termometro” dell’integrità psico-fisica
sotto forma di omeostasi) sul piano esistenziale per contro diventa
un elemento
reazionario, che può anche frenare ogni progresso
conoscitivo ed emozionale.
Mentre l’idema è naturalmente
proiettata verso un futuro
esistenziale che implica di riflesso anche
un avvenire esistentivo concepito dinamicamente, sempre
nuovo e
diverso.
Vi sono
tuttavia territori esperienziali dove psiche
ed idema possono trovarsi fianco a fianco e talvolta
persino
sovrapporsi, ed un esempio di questa sovrapposizione
è nel fenomeno della nostalgia.
Si tratta di un sentimento che per un verso
è tipicamente psichico, nel suo
presentarsi come un soffrire particolare
(potremmo definirlo “raddolcito”) in
cui vi è dolore per la perdita ormai definitiva
di qualcosa (situazione, condizione, ruolo, presenze di persone o cose) accompagnato dal tentativo di
riviverlo con la memoria: uno stato emozionale riferito ad un vissuto
più o meno lontano che porta insieme malinconia
e tenerezza. Ma nello stesso
tempo la nostalgia è anche peculiarmente
idemale, poiché spesso produce un’abmozione [122]
che supera e reinterpreta in una nuova forma
etica (ma più spesso
etico-estetica) una realtà individuale relativa
al passato.
D’altra parte,
non può sfuggire l’assoluta contiguità esistente
tra le emozioni e le abmozioni
(che peraltro ci succede spessissimo di chiamare
appunto “emozioni”) un po’
perché tradizionalmente la sfera emozionale
è onnicomprensiva e un po’ perché
effettivamente è spesso assai difficile dire
dove finiscono le une e comincino
le altre. Si potrebbero citare innumerevoli
stati emozionali dove vera emozione e vera abmozione si
sovrappongono e trapassano l’una nell’altra.
Un caso
classico di sovrapposizione può essere considerato
quello dell’attrazione
sessuale commista ad ammirazione che si scatenano
nell’innamoramento, dove il
caratteristico stato confusionale-emozionale
determinato dalla psiche si
somma alle aspettative idemali di un interessante
e desiderabile rapporto
intellettuale-affettivo. Ma è nella musica
e nel teatro, o di fronte a certi
spettacoli della natura, che paura, fascino
ed agitazione interiore rendono
difficile stabilire quale posto abbia nella
contingenza l’idema rispetto alla ovvia predominanza della psiche. Così come gli assiologici “pietà e terrore”
(che sono alla
base della catarsi
aristotelica) [123] sono
difficilmente ascrivibili tout-court all’idema nel momento in cui si verificano e
tuttavia, attraverso l’emozione che essi
producono, nasce la percezione idemale
del contenuto di aiteria insito nel testo tragico. Da un punto
di vista temporale l’emozione quindi
qui precederebbe l’abmozione (che si
arricchisce a valanga nella riflessione a
posteriori) e ne sarebbe un poco
origine e causa, o quantomeno decisivo concorso.
Dopo quanto
detto sulla psiche in rapporto alle
credenze religiose, dove avevamo messo in
evidenza soprattutto il carattere
negativo dell’istanza omeostatica (sicuramente
reazionaria e conservatrice,
nonché frenante e inibente l’acquisizione
di nuovi orizzonti gnoseologici
potenzialmente perturbativi) dobbiamo adesso
riconoscere alla funzione che essa
esercita non soltanto l’ovvia protezione
dell’integrità psico-fisica del
soggetto (e di riflesso della sua individualità),
ma anche una funzione scatenante e anticipatoria
di stati idemali fondamentali
per una maggiore e migliore acquisizione
di aiteria, specialmente in alcune forme
esperienziali estetiche proprie dell’intrattenimento
e dello spettacolo.
Certamente
anche in campo etico l’emozione
psichica è fattore molto importante e scatenante
di atteggiamenti
specificamente idemali. Il sorgere del sentimento
etico della compassione in
molti casi non è pensabile senza l’emozione
psichica che accompagna lo choc reattivo
conseguente alla visione della
sofferenza di qualcuno, a cui segue la presa
di coscienza del contrasto
esistente tra la consapevolezza del nostro
stato di benessere rapportato al
malessere di chi soffre e l’emergente senso
della giustizia e della solidarietà che suscita quell’istanza che
abbiamo evidenziato nell’argomento etico (paragrafo 2.4 della Prima Parte).
Ma anche in
campo gnoseologico (nell’esperienza idemale
della gnòresi, di cui si
parlerà in seguito) è dato constatare come
talvolta l’emozione post-sensoriale (più spesso visiva) possa
anticipare
gli entusiasmi della conoscenza e della scoperta,
le quali hanno nell’intelletto lo specifico agente che con
la sua attività e le sue elaborazioni (spesso
sinergicamente con la ragione) le produce e le connota. Ma le
interazioni psichiche sono teoricamente possibili
anche con la cairéa e
la dhianasi, per cui possiamo concludere con la quasi
ovvia
considerazione che la psiche è sempre o per lo più organizzazione presente
e spesso dominante nella maggior parte delle
esperienze e degli stati d’animo
che concernono la nostra esistenza.
Da quanto
sopra emerge ancora una volta ciò che andiamo
continuamente ripetendo, vale a
dire che il procedimento partitivo aiuta l’analisi delle funzioni e dei
fenomeni mentali senza comprometterne la
prensione delle sintesi e senza
impedire di cogliere quel “di più” che accompagna
la constatazione di un
“tutto” (potremmo dire olistico) della mente,
il quale rimane sempre tale a
dispetto di una “strumentale” rescissione
delle “parti” a scopo euristico.
Questo fatto è tanto più rilevante a proposito
della psiche, che è non solo la più importante e onnipresente
organizzazione mentale, ma anche la
più antica e quindi più filogeneticamente
lontana dalle altre (quantunque con
esse si sia evoluta), per cui essa nell’uomo
oggi è certamente omologa a quella del cane
(già molto evoluta) e
tuttavia, sia in se stessa che per le sue
interazioni con le altre funzioni
della mente umana, si è ormai collocata su
di un piano funzionale molto più
evoluto.
Un ultimo
accenno che verrà ripreso in seguito. Noi
della psiche conosciamo molto
(attraverso la psichiatria, la psicologia
e la psicanalisi) e tuttavia molto
resta da conoscere. Esiste una sfera esperienziale
piuttosto vasta che rivela,
sia pure in falsariga e in modo spesso ambiguo,
le enormi possibilità della psiche
in campi di esperienza che sfuggono al controllo
della ragione [124]. Avendo però il DAR considerato questa come
fondamentale per le sue considerazioni teoriche,
ne consegue che non considera tali possibilità
molto significative ai fini che esso si pone,
ma riconosce loro un relativo grado di autenticità
e una probabile realtà meta-materiale che
sarebbe inopportuno negare a priori. Possibilità
di esperienze reali (in quanto effettuali)
che nella vita di molte persone, che decidono
di metter in mora la ragione in
quanto “limitante”, possono assumere grande
importanza sul piano delle credenze
e dei comportamenti.
Come si vede
punti di vista opposti possono portare molte
persone a contrapporre la ragione
alla psiche e quindi a fare scelte di vita assai differenti
e
diversificate. Così può essere considerata
“limitante” sia la psiche che
la ragione a seconda del punto di vista assunto o relativamente
al
perseguimento di esperienze o fini contrapposti,
concernenti aspetti e campi
esperienziali diversissimi e tuttavia sempre
riferibili alla materia,
considerata in senso lato e non soltanto
come pura fisicità.
8.2) L’intelletto.
Nella formazione del pensiero e nella sua
elaborazione l’intelletto occupa una posizione centrale
e fa da ponte tra le altre organizzazioni.
Per questa sua centralità ad essa abbiamo
riferito la sintesi intellettiva
(a cui abbiamo già accennato ma che riprenderemo)
quale risultante conscia del
lavoro concadente delle varie funzioni mentali.
Lo abbiamo tenuto nettamente
distinto dalla ragione poiché le caratteristiche e le funzioni
che il DAR gli attribuisce non riguardano
l’ampio campo della computazione e dell’analisi
(funzioni razionali) che ad essa abbiamo
riservato. Il campo specifico in cui opera
l’intelletto è quello della conoscenza in generale con
in più qualche
carattere specifico come l’intuito e l’intuizione [125].
Questa primaria funzione gnoseologica mentale
ha come sua antenna emergente
proprio l’intuito, che è stato tenuto
distinto dall’intuizione poiché ad esso abbiamo riservato
quei caratteri di immediatezza conoscitiva
e anticipatrice di ogni formazione
cogitativa che possa subire elaborazioni
ulteriori. In questo senso l’intelletto è una macchina capace di essere molto potente
e veloce (mentre
la ragione è lenta) e di produrre
accelerazioni e spunti che in brevissimo
tempo configurano scenari ricchi e
complessi di immagini mentali, i quali vengono
immediatamente condivisi dalle
altre organizzazioni, per passare subito alle infrastrutture che li fissano in modelli e scenari mentali.
Pur
essendo l’intelletto un organizzazione “materiale” esso
ha stretti rapporti con l’idema, proprio per queste sue funzioni di
“sondaggio” dell’ignoto, prima che venga messo in opera un vero
processo di fissazione di dati, di apprendimento
o di conoscenza. Questa
specificità lo pone in un rapporto privilegiato
con l’idema, che
possiede quella capacità affine all’intuizione (la sensibilità
intuitiva), operando sinergicamente con la quale rende
possibile
quell’evento straordinario che è il rapporto
dell’uomo con l’aiteria. Va
aggiunto che l’intelletto da solo, pur fornendo un importante
contributo, non avrebbe mai potuto arrivare
a tanto poiché non è per nulla
“sensibile”; in compenso esso è estremamente
acuto, ricettivo e penetrante. Per
queste doti l’intelletto è capace di tradurre in operazioni istintive
del corpo (automatismi [126]
) funzioni e movimenti non tematizzabili
nel linguaggio (“che non si possono
imparare” in senso stretto).
Ciò che non si
può imparare e che si fa quasi prodigiosamente
“d’istinto” viene comunemente
riferito ad una facoltà chiamata “talento”
e questo temine ricorre
frequentemente nel linguaggio sportivo o
in riferimento agli abili artigiani, mentre
nel campo letterario viene attribuito agli
scrittori prolifici e in quello
scientifico ai grandi matematici. Un talento
in un certo settore di attività
(ma forse ognuno ne ha uno che non ha mai
scoperto) rappresenta una facoltà per
lo più acquisita ereditariamente, come una
dote a priori, che può essere coltivata e potenziata, ma
che o c’è o
non c’è. Questa facoltà è indicativa di come
si caratterizza funzionalmente l’intelletto dell’uomo, che è separato
dalla macchina corporea e tuttavia sovrintende
ad ogni suo comportamento od
azione consapevole e coordinata, istintiva
od acquisita, mentre tutto ciò che è
inconsapevole (e talvolta scoordinato) ricade
sotto il dominio della psiche.
8.3) La ragione.
Abbiamo già
fornito alcune anticipazioni sulle caratteristiche
della ragione, che è l’organizzazione più facile da definire
e descrivere
grazie alle analogie con quelle formidabili
macchine prodotte dall’ingegno
umano che si chiamano computers. Possiamo
farlo oggi e non qualche decennio fa
poiché proprio la tecnologia concernente
il pensiero artificiale e le cosidette
scienze cognitive, che da esso traggono sia
interessanti spunti di ricerca e sia modelli
interpretativi della mente umana,
consentono oggi di capire certi meccanismi
della ragione (come la intende il DAR) straordinariamente
simili a quelli dei calcolatori elettronici.
Queste
considerazioni non devono farci correre il
rischio di sottovalutare la ragione come una copia della macchina,
poiché è ovviamente vero il contrario. La
cosa straordinaria è che questa
straordinaria funzione mentale stia “dentro”
il nostro encefalo e che quindi
sia integrata con tutte le altre funzioni
cerebrali e ci permetta di farne uso
sinergicamente con l’intelletto che le
fa da battistrada. Infatti, considerando
le funzioni congiunte della coppia ragione-intelletto noi abbiamo un “insieme” funzionale molto
potente, che
ci consente quello straordinario processo
elaborativo che consiste in
anticipazioni e riflessioni dell’intelletto
che trapassano nella ragione,
fondendosi con l’analisi e il calcolo, e
che infine ritornano al primo sotto
forma di sintesi e conclusioni che vengono
trasmesse alla memoria e
tematizzate dalla coscienza. Ancora
una volta mi tocca ribadire che questa semplificazione
fenomenologica è
puramente ipotetica e immaginativa, quindi
non pretende di avere alcun valore
scientifico, ma unicamente un’utilità filosofica
per l’analisi esistenziale che
andiamo conducendo. I cui fini (e soprattutto
i cui esiti euristici) speriamo
che ci facciano perdonare qualche arbitrio
concettuale che ci siamo
concessi.
Ma la ragione non è soltanto un fondamentale
strumento di conoscenza oggettiva, essa è
un fondamentale aspetto del “modo
d’essere” dell’uomo, il quale, unico tra
gli animali, non segue rigorosamente
modelli comportamentali trasmessi filogeneticamente
né acquisiti dall’ambiente,
ma li confronta con modelli utilitaristici
e computazionali che ne sono
alternativi e che in taluni casi li possono
sostituire. Stiamo parlando
dell’esercizio della razionalità,
che è una sorta di “metro” della condotta
umana, in grado di valutare
l’adeguatezza dei mezzi in rapporto ai fini,
volta per volta ed
indipendentemente dagli schemi acquisiti
per via filogenetica. In tal senso
l’ontogenesi del singolo individuo (il fenotipo)
può condurre, grazie alla ragione, ad un animale che può prescindere
dalle emozioni e dai sentimenti ed agire
in senso utilitaristico in funzione
dei fini, ottenendo il massimo risultato
col minimo sforzo. Se ciò sia un bene
o un male lo lasceremo dire ai moralisti,
ma certamente si tratta di uno
straordinario progresso biologico, che innalza
l’uomo nettamente al disopra
delle altre specie animali e che gli consente,
se non di sottrarsi alla necessità, quanto meno di gestirne la nostra fatale
subordinazione.
Vorrei ancora
aggiungere che quantunque la ragione sia un organizzazione mentale che si estrinseca unicamente nell’ambito della materialità, l’homo sapiens, nella sua interezza e complessità, è tale
proprio perché
riesce, nello stesso tempo, ad essere animale
razionale ed irrazionale, dove al
calcolo e all’analisi può lasciar seguire
le esplosioni dei sentimenti o delle
passioni e viceversa. In questa
alternanza tra risparmio e dispersione di
energie vitali sta il senso ultimo
dell’uomo, in quanto animale del tutto “sui
generis” rispetto agli altri
mammiferi, senza che sia necessario (né utile)
farne un ricettacolo o un
emanazione di un presunta “divinità” trascendentale
.
8.4) L'idema
Prima di entrare nel merito dell’idema sono opportune alcune considerazioni concernenti
l’ambito col quale essa si rapporta e quindi prenderemo il tema un po’ alla larga
parlando
preliminarmente un poco dell’aiteria
e di alcune sue caratteristiche ed aspetti
ragionevolmente supponibili. Se la
stabilità dell’aiteria (almeno
nel senso relativo in cui l’abbiamo posta)
potesse essere considerata più
apprezzabile dell'instabilità della materia e se l’aiteria stessa fosse causa di esperienze comunemente
ascrivibili
alla sfera di ciò che è più nobile, contrapposto
a qualcosa che lo sarebbe
meno, sembrerebbe possibile un confronto
tra materia ed aiteria tale da porre, sul piano dei valori, l'una
al disopra dell'altra. Tale operazione, come
abbiamo già visto, sarebbe per il DAR un
assurdo e qualora venisse effettuata darebbe
luogo a una evidente incoerenza interna.
Ancora una volta si tratterebbe dell’utilizzo
di un punto di vista basato su stereotipi
assiologici superati, oppure rispondente
all’atavico desiderio metafisico di stratificare,
di selezionare e soprattutto di unificare
tutto ciò che esiste verso l’alto, con la
riduzione della realtà a una sua necessaria
causa prima e finale.
Un esempio classico di tale tipo di operazioni
e conseguente causa di differenziazione assiologica
nel nostro modo di pensare
è quello della stabilità e persistenza portati
all’estremo limite dell
“eternità”. Questo concetto risponde ad un
desiderio psichico estremo, che
finisce per “inventare” una super-realtà
assolutamente stabile e imperitura di
pura fantasia, al di fuori di ogni criterio di percettività
e nemmeno di
intuizione, la quale sfugge ad ogni criterio di razionalizzazione
del reale
percepibile o intuibile a cui ci dobbiamo
razionalmente attenere se vogliamo evitare
di entrare nel vortice della più bassa irrazionalità.
Questa considerazione ci offre l’opportunità
di precisare, a scanso di ogni equivoco,
che il DAR considera l’aiteria per nulla eterna, almeno non più di quanto
lo fosse eventualmente la materia alla quale si accompagna. Al
contrario, per esempio nel Cristianesimo,
che presuppone il “fiat”
dell’universo (quale volontà di un Dio che
c’è sempre stato e sempre sarà),
l’eternità del creatore è ideologicamente
molto più importante del fatto che
poi egli abbia fatto un figlio con una donna
rimasta vergine, che questo figlio
sia morto sulla croce e risorto al terzo
giorno. Infatti la “durata” assoluta è
un elemento fondamentale dell’ipostasi del
dio unico, con una carica di suggestione
psicologica superiore a quella di tutti gli
altri suoi attributi.
È interessante notare a tale proposito che
non a caso la “divinità” in quasi tutti i
contesti culturali è stata associata
all’oro, un metallo quasi privo di reattività
(potremmo anche dire quasi
“morto”!) che però in virtù di ciò non soffre
l’azione dell’ossigeno ed è
straordinariamente stabile a tutti i reagenti
acidi o basici presenti in
natura. Da qui il concetto di “incorruttibilità”
come corrispettivo di nobiltà,
mentre semmai è vero proprio tutto il contrario.
Se si deve ragionevolmente
ritenere più nobile la vita rispetto alla
morte ed ogni elemento che
costituisce la sfera del vivente più nobile
di ciò che è solo materia prima per
la fabbricazione di strumenti od ornamenti
da parte di una sua specie diviene
evidente che in ordine di nobiltà in cima
a tutti sta il più reattivo,
l’idrogeno (che tra l’altro è anche il maggior
costituente dell’universo),
seguito nell’ordine da carbonio, ossigeno,
azoto, fosforo e zolfo, tutti elementi
piuttosto reattivi e instabili. Ciò a conferma
di quanto la nostra psiche imponga
i suoi principi e i suoi assiomi in totale
contrasto con quelli della ragione.
Così di un Dio qualificato da attributi
super-materiali su basi contraddittorie e
irrazionali si può persino affermare
che sia un eterno “puro spirito”, aggiungendo
che però questa spiritualità e la
sua eternità siano ineffabili e fuori della
nostra umana comprensibilità. Per
questa ragione noi non ipotizziamo per nulla
che l’aiteria possa
corrispondere a ciò che viene normalmente
definito “spirito”, proprio per
tenerla nettamente distinta da esso e dalle
sue connotazioni. La vita, che noi
esperiamo come materia, ed il futuro, a cui un sottoprodotto
aiteriale del nostro esistere (l’idioaiterio) potrebbe forse accedere,
sono due forme di esistenza inconfrontabili,
ma assiologicamente del tutto
equivalenti. Anzi, da un certo punto di vista,
si può ritenere che
l’esistentività materiale, la quale si deve
confrontare con lo scorrere del
tempo, coi vincoli del corpo, con la fugacità
di ogni acquisizione, col bene e
col male, col piacere e la sofferenza e infine
con la morte, sia più
interessante (dal punto di vista di supponibili
“valori”) di un'altra più
stabile e meno tormentata attribuibile ad
un futuro aiteriale .
Secondo noi l'errore dei
trascendentalisti, che cerchiamo umilmente
di correggere, ci pare quello di
attribuire (insieme con l’eternità) maggior
valore a ciò che è raro o che “
manca” e ci sfugge, svalutando invece ciò
che è più vicino e ci appartiene. Se
le esperienze idemali (esistenziali) venissero
considerate ad un livello
superiore rispetto a quelle dell’intelletto, dei sensi o di ogni altro
elemento corporeo ciò significherebbe che
anche noi utilizzeremmo una scala di
valori “materiale” e impropria. Questa infatti
non potrebbe avere alcuna
legittimità sul nostro terreno, venendo riferita
ad una ambito (quello
aiteriale) dove l'eterogeneità non è gerarchizzabile,
poiché si fonda
unicamente sulla qualità e non su differenze di “valore”, il quale
è un
indicatore utilizzabile soltanto dove viga
la confrontabilità delle quantità.
Nell'ambito dell’aiteria, non esistendo la necessità e mancando
quindi qualsiasi impedimento all’affermarsi
della libertà, la qualità
(che è un correlato di questa) non può neppure
essere considerata un valore,
poiché non ha il termine di riferimento e
di misura, che non potrebbe essere
altro che la “quantificabilità”.
Ricordiamo inoltre che se l'idema
espleta quella strana funzione mentale
che ci apre probabilmente le porte del futuro non dobbiamo dimenticarci
che è "il resto" che la supporta
e la condiziona, ponendo le basi e
le condizioni reali del suo funzionamento
e della sua formazione. Non
esiste nessun'idema senza un corpo che la ospiti, le fornisca
energia e strutturalmente la integri con
altre funzioni, come ovviamente non
c’è nessuna idema che possa sopravvivere alla morte del corpo. Ed
è solo nel confronto con le esigenze e i
vincoli posti dall'esistere, in quanto
sintesi di singole funzioni corporee coordinate
ed organiche, che ci è permesso
di esperire la vita (materiale) come degli
“io”. E gestendola realizzare la
nostra individualità che possiamo modellare quasi a nostra volontà,
favorendo così intellettualmente (materialmente)
e nei limiti del possibile le
occasioni per attivarla e avere accesso ad
esperienze “qualitative” che non ci
sono possibili in quanto uomini in generale,
ma in quanto individualità.
Emerge pertanto che l’idema, che dell’individualità è nucleo, ci
proietta in una condizione umana che con
le dovute cautele e riserve potrebbe
quasi essere definita post-animalesca.
Tuttavia,
nobilitare l'idema svalutando il resto significherebbe compiere
un
errore prospettico e progettuale imperdonabile,
che tra l’altro rischierebbe di
renderci ciechi alla magnificenza della materia e potrebbe farci perdere
di vista le grandi possibilità che ci offre
il nostro vivere in essa e di essa,
almeno fino al suo fatale limite biologico.
Significherebbe forse addirittura
stare dalla parte della morte in quanto “porta”
di uscita sul futuro,
senza tener conto che questa costituisce
l’autentico ritorno in sé stessa della
materia nel perpetuo ciclo della vita e del suo
rigenerarsi.
Tale negare valore alla vita in qualche
modo ci estranierebbe dal gettarci nell’avventuroso
flusso del divenire, il quale, fino a prova
contraria, è l’unica realtà di cui possiamo
essere tassativamente sicuri:
infatti è proprio tra la nostra nascita e
la nostra morte che siamo sicuri di
“esserci”. Svalutare la vita vuol dire privilegiare
e promuovere un virtuale
cortocircuito nascita/morte, le due sponde
della vita di cui ogni essere
vivente è ponte unico e irripetibile, gettandoci
in un oppiaceo e fantastico
orizzonte escatologico. Mortificare l’individualità, figgendo lo sguardo
in un orizzonte metafisico che trascenda
illusoriamente la materialità
significa autoescludersi dalla possibilità
di realizzare quell’unicità
qualitativa che si forma soltanto vivendo
“con la materia” che ci
costituisce e “nella materia” che ci accoglie. La caratterizzazione e
l’individualizzazione della materia di cui siamo possessori e gestori è
anche l’unica chance di andare oltre essa
per mezzo dell’idema.
Il rifiuto della vita ha senso soltanto
quando si tramuti in azione, e ciò nel caso
che la propria condizione (grave
invalidità e grande sofferenza) o la situazione
(impossibilità di agire) oppure
il ruolo (impossibilità di essere se stessi)
siano così negativi da precludere
ogni esercizio della propria individualità. Venendo a mancare la libera
facoltà della volizione e negata ogni
opzione tra più possibilità, allora il soggetto
perde l’uso dell’eleuteria e finisce per venir
imprigionato nel flusso della necessità.
In questo caso esiste ancora un corpo, ma
non esiste più un individuo e il
suicidio diventa l'unico atto di volizione
ancora possibile. Il suicidio, che non
è il rifiuto della vita in generale, ma di
una vita che è diventata soltanto
sopravvivenza priva di senso, apre allora
volontariamente la porta sul futuro, anticipando un evento a cui
saremmo comunque prima o poi destinati. In
questo caso la rinuncia alla vita è
un atto di coerenza e di dignità che non
deve indurre nessuno a forme di
ingiustificata e stolta emulazione, ma che
deve essere guardato col massimo
rispetto quale estrema ratio esistenziale. Rispetto che per contro è un
po' meno dovuto a chi rinuncia ad usare la
sua eleuteria ed esercitare la propria volizione, accettando le catene della contingenza
e appiattendosi
su un livello di vita nel quale, mortificando
l’individualità, venga
deciso di vivere come un individuo qualunque
e intercambiabile della massa
umana nella sua generalità biologica.
Riconosciuta la nostra unicità, e perciò
l’irrinunciabilità della nostra individualità,
di cui l’idema è nucleo, la riflessione razionale sulle
opportunità
dell’esistenza nel segno di essa, nonché
l'azione che vi si conforma, sono
allora costitutive del solo modo autentico
di realizzarci come uomini degni di
questo nome (in quanto tendenzialmente “individui”
prima che “membri” di un
gruppo), anche e soprattutto in relazione
a quell’ipotizzato futuro che potrebbe riguardare il frutto
di quella particolare “macchina” filo-aiteriale
che è l’idema. Se il nostro agire è improntato ad un principio
di libertà
(anche se, in termini pratici, con tutti
i limiti concernenti l’eleuteria) noi contribuiremo a rendere
la nostra idema più adeguata a
ricevere ed elaborare aiteria, producendo probabilmente qualcosa
che scavalca i limiti eleuteriali stessi
e si proietta nel futuro.
Il rifiuto del DAR di gerarchizzare i vari
aspetti e le varie forme di una realtà pluralistica
su cui esso si fonda (nei termini pragmatici
della “vita vissuta” in ogni sua
possibilità) va esteso a tutto ciò che riguarda
la minuta quotidianità, anche
se in essa l’idema può rimanere
relativamente inattiva, nell’attesa che un
occasione, un incontro o il caso,
rendano possibile l’evento [127]
col quale essa si attiva e si realizza. Perciò
non vi può essere nulla di
negativo nella ricerca del piacere corporeo
ogni qual volta esso sia possibile,
purché il piacere non ottunda la sensibilità,
assimilando i comportamenti
dell’uomo a quelli di qualsiasi altro animale.
Peraltro va detto che verso
questo livello esistentivo l’uomo può andare
anche involontariamente, a causa
di situazioni contingenti negative come sciagure
collettive, disastri naturali,
guerra, segregazione, ecc.). In tali circostanze
l’uomo può degradare verso
l’animale che potenzialmente e fondamentalmente
sempre rimane (e al cui livello
può regredire in ogni momento). La civiltà
infatti non è un bene acquisito per
sempre ma una conquista che va perseguita,
alimentata, protetta e difesa in
ogni istante, a livello individuale e collettivo,
poiché perderla è sempre
possibile.
Congiuntamente
alla ricerca del piacere si deve fare tutto
il possibile per evitare la sofferenza fine a sé stessa, soprattutto
quella che ci può abbrutire e che difficilmente
può essere foriera di
esperienze interessanti (il ché, al contrario,
è molto frequente in quelle che
genericamente potremmo definire “sofferenze
formative”). Questa tuttavia è
nulla più di un'enunciazione di principio,
quasi dovuta nella logica del nostro
discorso, ma incompleta. In realtà la sofferenza
cieca e gratuita sembra a volte, paradossalmente,
diventare levatrice e nutrice
di esperienze straordinarie, proprio in quanto
crudele e ineluttabile [128].
Essa, forse proprio a causa di ciò che appare
quasi una sua intrinseca perversa
crudeltà, sembra essere alla base di molti
progressi dell'umanità, come fossero
dovuti come a un’improvvisa accelerazione
dell’evoluzione, proprio perché essa
sola sembra fornire le ragioni e gli stimoli
per trascendere la necessità e gettarsi nell’impresa di
trovarle soluzioni prima impensabili [129].
Solo sulle
rovine delle disgrazie e degli insuccessi
la comunità umana e il singolo
individuo possono interrogarsi e porsi quelle
domande fondamentali che bucano
gli orizzonti chiusi della materia
che ci costituisce ma che anche può limitarci.
Il fatto che nella sofferenza abbia potuto essere
individuato il nucleo esperienziale che apre
uno spiraglio sul mistero non è
casuale: la verità metafisica è un feticcio,
ma se la sua ricerca avesse un
senso, fosse anche quello dell’assurdo, questo
non potrebbe che nascondersi
negli abissi della sofferenza. Ma la sofferenza
riguarda molto da vicino l’idema, poiché è anche il luogo dove fisica ed extrafisica si
incontrano e dove esplode il problema del
“senso” di ciò che ci accade; un
senso il cui linguaggio è sempre sfuggente
perché non è altro che quello del tragico, che ci condanna al male,
all’ignoranza e alla finitudine.
Metaforicamente nella sofferenza
potremmo dire che il corpo è
“abbracciato” all’idema, poiché non
esiste pura sofferenza fisica e pura sofferenza
“psichica” (impropriamente
l’aggettivo vale anche per “spirituale” o
“esistenziale e quindi
“dualisticamente” anche come idemale), infatti
la sofferenza psico-somatica è
anche sempre sofferenza somato-psichica.
Allora “il resto”, fuori o attorno l’idema, non può mai essere disgiunto e tutte le
considerazioni che su
di essa potremo fare debbono sempre sottintenderlo
inerente e presente,
altrimenti ridiventeremmo schiavi di quella
metafisica che abbiamo data per
superata.
Ma l’idema, che capta ed elabora aiteria (la quale, come abbiamo visto,
può essere considerata un possibile futuro
che in qualche misura potrebbe riguardarci)
come si pone dal punto di vista
strutturale e funzionale rispetto alle altre
organizzazioni, rispetto al nostro encefalo (o se si vuole
al
sistema nervoso) e più in generale rispetto
al nostro organismo e al nostro
sistema motorio? La risposta è assai semplice:
né più e né meno di tutte le
altre parti del corpo. Ma tra esse l’idema è funzione vulnerabilissima, non
certo meno di quanto lo siano le altre organizzazioni,
essendo vincolata alla situazione psico-somatica
generale e ad essere implicata
negli stati di salute o malattia che possano
alternarsi. Anzi, potremmo
aggiungere che l’idema, pur avendo
commercio con l “immaterialità”, è poi costituita
di un tipo di materia
particolamente sensibile ai danni che i traumi
in generale e le ingiurie del
tempo infliggono alla nostra macchina vivente.
In uno stato
di prostrazione fisica l’idema sarà ipotonica, in uno stato di
depressione psichica essa sarà “scarica”,
in una grave situazione psichiatrica
la si può considerare del tutto compromessa,
anche se il mondo degli affetti e
quello del senso artistico possono sopravvivere
in qualche misura alla sua
caduta. Potremmo quasi dire che l’idema,
i cui prodotti (gli aiteri)
potrebbero forse aspirare escatologicamente
a sopravviverle, è più vicina alla
morte di tutti gli altri elementi del corpo
che l’accompagnano, poiché in
realtà da ognuno di essi in qualche modo
dipende. Essa è la macchina corporea
“emergente” [130] che ci ha
regalato l’evoluzione, ma essa è anche costituita
di una materia terribilmente
fragile.
Due parole
sulla sensibilità intuitiva: abbiamo
chiamato con questo nome la facoltà idemale
che sta alla base dell’intuizione
dell “irriducibile alla materia” (l’aiteria), ma abbiamo
anche detto che essa agisce per lo più di
concerto con l’intuizione (che è facoltà dell’intelletto).
Ciò è dovuto al fatto che l’idema agisce per lo più
nell’inconsapevolezza e che sarebbe quindi
teoricamente possibile una ripetuta
e prolungata esperienza idemale dell’aiteria soltanto in termini esperienziali
inconsci e quindi senza un’adeguata tematizzazione. In altre parole, noi potremmo con la sensibilità intuitiva
avere esperienza dell’aiteria senza
rendercene conto e avere la vaga sensazione
di una presenza di qualcosa di
misterioso senza poterlo qualificare e delineare. Se ciò avviene è infatti perché la sensibilità intuitiva evidenzia
sensitivamente la presenza dell’aiteria,
ma è poi l’intuizione che opera
sinergicamente con essa a portarla alla coscienza. Così l’intelletto ci permette di essere consapevoli dell’esperienza
idemale e con
ciò ci consente di farne un oggetto di indagine
esistenziale.
8.5) La coscienza.
La coscienza è una delle entità filosofiche
più ambigue, poiché, al di là del suo significato
letterale di
“consapevolezza”, ha assunto filosoficamente
vari significati tra i quali
alcuni molto lontani dallasuaorigine etimologica.
In una rapida sintesi storica
vanno almeno ricordati: a) quello etico di
giudice intimo e “voce interiore”
(SantAgostino, Kant, Montaigne), b) quello
gnoseologico di promotrice di
conoscenza di se stessi e del mondo (Cartesio,
Hume), c) quello idealistico di
autocoscienza creatrice (Fiche, Hegel) e
infine d) quello fenomenologico di intenzionalità (Brentano, Husserl). Nel DAR la coscienza assume qualche aspetto di a),
b) e d) mentre è del tutto estranea a c),
che considera una delle più inconsistenti
e infauste ipostasi della storia della filosofia.
Per il DAR la coscienza
è la più importante infrastruttura,
poiché in un certo senso “certifica” tutto
ciò che la percezione e
l’elaborazione mentale pongono e strutturano.
La coscienza è pertanto
ciò che fa sì che un pensiero sia un pensiero
di qualcosa, che uno stato
d’animo sia esperienza “vissuta”, che una
nuova conoscenza sia un
“acquisizione”. In quanto infrastruttura la coscienza è
innanzitutto “integrazione funzionale” delle
organizzazioni in vista
della prensione intuitiva-conoscitiva di
un qualsiasi elemento od aspetto della
realtà (oggetto, fatto, relazione, causa, effetto,
ecc.). Essa è ciò che
fa in modo che ogni nuova conoscenza diventi
un’acquisizione e venga fissata
nella memoria. Senza la coscienza i pensieri e le esperienze
rappresenterebbero elementi staccati di un
vissuto caotico, privo di alcuna
organizzazione e tematizzazione, senza relazioni,
senza confronti e senza
connessioni. In questo senso la coscienza è quella funzione integratrice
che mette in relazione e coordina le varie
organizzazioni. Ma è proprio in ciò
che si coglie l’intimo rapporto esistente
con l’altra infrastruttura,
alla quale si connette e che per alcuni versi
ne dipende: la memoria. Ancora una volta il procedimento partitivo va visto per ciò
che è, un puro espediente euristico, poiché
i fili invisibili che collegano il
complesso mentale portano un flusso mnemo-coscienziale
unificato ed unificante,
che tiene insieme il tutto e che mette in
comunicazione tra loro le organizzazioni, le coordina e le fa funzionare al meglio
delle loro
possibilità. È un po’ come se memoria e coscienza fossero le strade che fanno sì che dei luoghi
o dei fatti
isolati, come elementi “discreti” del divenire
individuale, siano relazionabili,
andando a costituire una “rete esperienziale-cogitativa”
che si offre come un
complesso più o meno organizzato del vissuto
personale. Le due infrastrutture “lavorano” insieme poiché
solo unitamente possono coordinare e integrare
le organizzazioni [131].
Abbiamo
accentuato l’aspetto “funzionale” della coscienza
piuttosto che quello ontologico, un po’ per
evidenziare la sua sinergia con la memoria e un po’ per sottrarla ad ogni
ipostasi esistenziale che possa confonderla
con l’individualità. Anche se essa funziona in modo particolare
e
variabile da individuo a individuo è tuttavia
una struttura evolutiva comune ad
ognuno, che quindi opera in modo sostanzialmente
analogo. La coscienza tra le altre cose rende
possibile la consapevolezza per ognuno di
noi di essere un’individualità insieme ad altre, ma essa è “esterna” all’individualità stessa; è il detector dell’individualità e nello stesso tempo questa “è” perché la
coscienza la rileva e le dà un linguaggio e una forma
percepibili,
attraverso la connessione del vissuto che
la memoria ha
registrato e organizzato in una rete di relazioni.
8.6) La memoria.
Dopo quanto
detto sopra a proposito della coscienza
non resta che aggiungere poche considerazioni
su questa infrastruttura ad essa collegata e correlata, che insieme
rende
possibile uno scenario percepibile ad ognuno
di costituire un’unità vivente,
definita e determinata nello spazio, nel
tempo e nella situazione (un “esserci”
heideggeriano) [132]. È soltanto grazie alla memoria che momenti successivi del nostro esperire
e pensare
possono venire collegati tra loro a costituire
quel continuum sul cui sfondo noi ci riconosciamo, quale
frutto di una
costante presa di coscienza di ciò che siamo
ed eravamo. Ed è proprio in questa
considerazione che emerge l’indissolubilità
di essa con la coscienza, la quale fa sì che il flusso del ricordo
del passato
prenda un senso in funzione del presente
e dell’avvenire.
La memoria accompagna pertanto costantemente l'attività
di ogni singola organizzazione e
della stessa coscienzaj, colla quale
è strettamente integrata. Anche quando questa
è inattiva (in certe condizioni
psichiche od idemali) essa registra comunque
quel che ci capita e in certe
condizioni di “richiamo” lo rende disponibile
in successivi stati di ricordo
consapevole, spontaneo o guidato (come accade
nell’abreazione psicanalitica)
[133].
Per lo più ad opera della volizione, ma talvolta anche
per cause contingenti delle quali siamo del
tutto inconsapevoli, la memoria
viene attivata e restituisce i dati a suo
tempo immagazzinati attraverso un
complicato sistema di richiami e collegamenti
che la fisiologia del cervello è
riuscita a mettere in luce da tempo.
Ma non tutto ciò che la memoria registra è facilmente
richiamabile alla coscienza. Talvolta il
ricordo viene spostato in una zona
periferica, che potremmo definire come il
serbatoio dell'inutile e del dannoso
per la psiche (il rimosso della psicanalisi), dove rimane inattivo
per sempre o finché circostanze eccezionali
o terapeutiche non lo richiamino
alla luce.
8.7) La sintesi
intellettiva.
Chiudiamo questo capitolo dedicato alle funzioni
mentali con un concetto del DAR al quale
abbiamo già accennato e che costituisce in
un certo senso il logico coronamento delle
nostre premesse. Abbiamo così attribuito
all’intelletto una funzione aggiuntiva che ne
sottolinea l’importanza all’interno del sistema
delle organizzazioni.
Aggiungiamo allora che tutte le operazioni
compiute dalla mente concorrono a
determinare stati mentali e pensieri (intendendo
i primi come umorali e i
secondi come linguistico-discorsivi) sui
quali l’intelletto sovrintende,
salvo che la psiche (biologicamente molto più potente e pervasiva)
lo
metta in ombra, imponendo le sue esigenze
conservatrici e restauratrici. In
altri termini: gli stati mentali determinano
un “clima”, mentre i pensieri
determinano un “contenuto” della mente, che
pensa il mondo e nello stesso tempo
“si pensa”. La sintesi intellettiva è
quindi il “prodotto mentale” conseguente
all’elaborazione sintetizzante dell’intelletto,
con la quale vengono limate od espunte le
incongruenze e le contraddizioni tra
ciò che emozione e ciò che è pensiero in
senso stretto. “Prodotto” che passa
alla coscienza già “predigerito” e reso quindi da essa
più facilmente
“univoco” e “definito”.
[121] Freud in un primo tempo definì inconscio quell’area
dell’apparato psichico dove sta tutto ciò
che non diventa cosciente. In un
secondo tempo sostituì (con poche varianti
concettuali) il termine inconscio
con quello di Es, conservandone tuttavia il suo utilizzo come
aggettivo riferibile al nuovo termine.
[122] Anticipiamo qui che le esperienze idemali,
per
distinguerle dalle emozioni o dalle commozioni (le cui cause sono
prevalentemente di carattere psichico) le
chiameremo abmozioni. Usiamo il prefisso ab, di origine latina, per indicare come nell'esperienza
idemale si verifichi un' "allontanamento"
dalla materialità del quotidiano.
[123] Nella Poetica Aristotile pone la catarsi (letteralmente
= purificazione) come un effetto della tragedia
sulla psiche dello spettatore.
Il processo catartico promosso dallo spettacolo
della tragedia inizia con la
compassione e la paura che la vicenda tragica
suscita, alle quali fa seguito la
purificazione dell’anima dalle passioni rappresentate
sulla scena.
[124] L’argomento del paranormale (altri termini: parapsichico
e metapsichico) verrà trattato al paragrafo 11.2.
[125] Molto sinteticamente definiamo l’intuito come la percezione di segnali che anticipano
la conoscenza
vera e l’intuizione come un tipo di conoscenza imperfetta, indefinita
ed
approssimativa, eppure "certa",
di qualcosa di assolutamente reale,
ma indefinibile e di cui ci sfugge ogni denotazione.
[126] Nelle scienze cognitive ed anche in psicologia
(ma qui
più spesso come automatizzazione) per automatismo
si intende un’azione
abitudinaria (solitamente anche rapida) che
viene compiuta senza bisogno di
pensarla o di porvi attenzione.
[127] Si ricorda che con questo termine indichiamo
l’esperienza idemale nella sua generalità,
mentre con accadimento si indica ogni esperienza nella quale
risultino coinvolte le altre organizzazioni. È evidente che questa
distinzione ha carattere puramente indicativo
poiché come esse risultano per lo
più concadenti così accadimenti/eventi sono da ritenersi
frequenti, e il trapassare degli uni negli
altri un fenomeno della
quotidianità.
[128] La crudeltà e l’ineluttabilità del destino
è uno dei
fondamenti della tragedia greca classica,
nella quale l’uomo è sempre perdente
di fronte ai capricci del caso o di una divinità
malevola. Ma proprio
attraverso la propria sconfitta egli realizza
il “proprio” destino e con esso
la propria unicità individuale quale soggetto
tragico.
[129] I naturalisti ovviamente interpretano tali
situazioni
come processi di adattamento, in cui è in gioco la sopravvivenza
dell’individuo in una situazione in evoluzione.
Situazione ontogenetica (o del fenotipo)
che può prefigurare o rispecchiare eventualmente
un potenziale problema
filogenetico (del genotipo o specie).
[130] Spesso il termine “emergente” viene usato
in biologia
per indicare un’aspetto evolutivo nuovo,
che compare in un organismo animale
sotto la pressione selettiva, la quale trasmette
informazioni che stimolano ad
“adattarsi” ai fini della sopravvivenza.
Nel caso dell’idema in gioco
non è la sopravvivenza ma l’accesso a una
diversa forma di realtà.
[131] Alcune gravi malattie psichiatriche sono
conseguenti
proprio a delle patologie dissociative, a
conferma dell’importanza del
coordinamento di tutte le funzioni cerebrali
in processi sinergici e integrati.
[132] Martin Heidegger (1889-1976 ) con esserci (in
Tedesco: Dasein) indica il modo d’essere proprio dell’uomo, che a
differenza degli altri enti non è “nel mondo”
ma “ha mondo”.
[133] Si ricorda che nella pratica psicanalitica
l’abreazione
è un delle fasi più importanti del transfert e che consiste nell’emergere alla coscienza
di un esperienza pregressa e rimossa. Essa si concretizza nella scarica
emozionale che avviene col racconto allo
psicoterapeuta dell’accadimento
(traumatico o comunque sgradevole) rimosso
e ora fatto riemergere alla memoria.