CAPITOLO 13
(Aspetti particolari del dualismo antropico reale).
13.1) L’avventura dell’esistenza (Vivere ed esperire).
Perché abbiamo titolato “avventura” questo
paragrafo, quando
molto più semplicemente avremmo potuto continuare
a parlare di “vita”, evitando
così una superflua enfatizzazione? Ci sono
almeno due buone ragioni per usare
questo termine, la prima delle quali è che
al termine “vita” sarà bene
riservare quel significato biologico generale
che riguarda il fenomeno nella
sua universalità, la seconda è che la nostra
esistenza coincide con lo stato
vitale del corpo che ci supporta, ma non
è caratterizzata soltanto da esso.
Infatti, ciò che caratterizza l’esistenza,
a nostro parere, non è tanto il
“sussistere” in vita per un certo numero
di anni, ma è la sequela dai fatti e
delle esperienze che si snocciolano nelle
più varie forme, i quali, negli
effetti più significativi (quelli che marcano
e determinano la nostra persona
nella sua singolarità), assumono poi sempre
il carattere di venture o di
disavventure. Tuttavia, anche se la nostra
esistenza è un’avventura, non
necessariamente essa deve essere anche “avventurosa”
nel senso corrente del
termine, poiché non sono gli elementi esteriori
(potremmo dire anche
“cinetici”) che la determinano, ma le indescrivibili
emozioni interiori che
vengono esperite. Per qualcuno ascoltare
la “Passione secondo S.Matteo” di Bach
seduto in poltrona può produrre maggiori
emozioni di un periglioso viaggio
nella giungla tra animali feroci e rischi
d’ogni genere .
Noi infatti abbiamo voluto introdurre il
concetto di “qualità
esperienziale” per cercare di comprendere
meglio che cosa sia veramente o
“possa essere” la nostra esistenza, andando
oltre quel concetto di quantità
temporale a cui molto spesso si fa riferimento
come valore assoluto. Come
ognuno ben sa nel suo intimo, non è certo
il numero degli anni vissuti che
conta per il giudizio che possiamo dare della
nostra vita, ma semmai il
bilancio che ognuno di noi, nel profondo
della sua coscienza, può
fare delle esperienze avute e delle modalità
con cui si sono presentate. Non è
affatto detto che un’esistenza molto movimentata
possa sempre fornire una
ricchezza esperienziale maggiore rispetto
ad una vita più tranquilla e
sedentaria, poiché la “qualità” della vita
sta nelle emozioni individuali del
soggetto e non in astratte denotazioni oggettive
più o meno spettacolarizzabili.
Semmai alla base dell’esperienzialità vi
è la libertà possibile o teorica (che
a rigore dovremmo chiamare eleuteria) colla quale noi (vivendo) ci
confrontiamo, ciò avviene attraverso la gestione
del nostro corpo e della
nostra sensibilità in riferimento al “mondo”
esperienziale che ci
concerne, nella quotidianità e
nell’ordinarietà come nella straordinarietà
e nella casualità.
Se noi
“viviamo”, ciò significa che nella
infinitesima parte della materia che noi rappresentiamo la vita continua
e si realizza, ma non è ancora detto che
per il fatto di “vivere” noi possiamo
dire di avere un’esistenza “individualmente”
autentica e completa. “Esistere”
per un’individualità non significa un vivere generico, ma la
realizzazione della sua specificità e irripetibilità.
Sul significato di individualità
in quanto specificità e irripetibilità è
possibile una pluralità di
opinioni, ma in ogni caso penso che tutti
possiamo concordare sul fatto che la
consapevolezza delle nostre “possibilità”
esistenziali, così illimitate e
differenziate, non può rimanere priva di
significato nella prassi del vivere,
con conseguenze progettuali e volitive che
puntino alla realizzazione “al
meglio” della nostra individualità di uomini.
Non voglio certo dire che per il fatto di
essere uomini ne derivino compiti o privilegi
rispondenti ad un astratto “dover essere”
qualcosa di più di animali come tutti gli
altri, i quali (come noi) vivono e fanno
figli, sfuggendo (per quanto è loro possibile)
la sofferenza e la morte. Questo infatti
sarebbe un discorso moralistico che è totalmente
estraneo al DAR. Ognuno, finché non procura
del male al prossimo e ne rispetta il diritto
a vivere secondo eleuteria, può vivere come vuole (o come può),
privilegiando magari soltanto i piaceri del
corpo e stando il più lontano
possibile dai problemi esistenziali. Io penso
anzi che la ricerca del piacere,
anche nella sua forma più “terra terra” che
è quella di un assoluto edonismo
materialistico [163],
sia una filosofia di vita del tutto rispettabile
e non priva di interessanti
raffinatezze. Tuttavia, non per tutti è realizzabile
tanta semplicità
progettuale, in quanto le domande extrafisiche
non è poi che uno se le vada
proprio a cercare; potremmo anzi dire che
“esse vengono” da sole e che è molto
difficile eluderle. Nel momento però in cui
esse “sono venute” diventa un poco
difficile far finta di niente e continuare
vivere come se le cose stessero
ancora come stavano prima ed esse pertanto
fossero nient’altro che meri
fantasmi cogitativi. Né saprei dire se questa
tendenza a porsi domande
extrafisiche (che è probabilmente una eccezionalità
dell’homo sapiens)
sia un privilegio o una condanna per la nostra
specie.
Io tendo a pensare che la consapevolezza
della necessità che
ci lega e ci limita, del senso del tragico che ne deriva, della nostra
ignoranza e della nostra insignificanza,
possano essere dei segni rivelativi
del fatto che ognuno di noi, forse, non è
destinato soltanto a tornare
integralmente alla materia da cui deriva. Non può essere infatti
sottovalutato il fatto che il nostro accesso
all’aiteria ci proietta in
un orizzonte esperienziale che ci trasforma
profondamente e che ci autorizza a
pensare che questo “altro” dalla materia che noi interiorizziamo nell’idema
non segua integralmente le leggi della materia stessa, le
quali concernono l’idema, ma non necessariamente anche l’idioaiterio che
in essa si forma. Tuttavia, per
accedere nel più profondo ed ampio modo umanamente
possibile a questo “altro”
dalla materia (di cui non possiamo “sapere” nulla ma soltanto
intuire
qualcosa) può darsi che risulti utile anche
un atto di volizione, che
comporti uno sforzo volontario e pertanto
un poco gradevole dispendio di
energie. Ciò potrebbe anche limitare le nostre
possibilità di dedicarci appieno
al conseguimento di ogni possibile piacere
fisico (premessa indispensabile di
un buon equilibrio psico-fisico), sia pure
con la vaga promessa che forse ci
potrà essere la compensazione dei piaceri
extrafisici conseguibili almeno nel
campo dell’estetica, i quali però non sono per nulla scontati.
In altre
parole, il “meglio un uovo oggi che la gallina
domani” rimane valido anche nel
nostro campo, ma ciò vale per chi vuole andare
sempre sul sicuro, mentre il
dualista deve saper rischiare qualcosa, o
meglio saper “giocare” sul futuro e
“giocarsi” la vita. Se i nostri immaginari
progenitori Adamo ed Eva si sono
(nella narrazione biblica) autocondannati
alla sofferenza per aver osato
mangiare il frutto proibito dell’albero della
conoscenza, noi (che ai piedi di
quell’albero non arriveremo veramente mai)
renderemo forse loro omaggio
tentando di conoscere appena “qualcosa” di
ciò che trascende la nostra
materialità di uomini, che da tali favolosi
avi avremmo ereditato il gusto per
la trasgressione dei limiti della necessità.
Sentirsi uomini forse vuol dire anche sentire
che noi non
possiamo restare del tutto inerti di fronte
ai segni dell “irriducibile” alla materia
e forse qualcuno (andando oltre le nostre
intenzioni) potrebbe anche farne una
questione di dignità, ritenendo che per essere
degni di chiamarsi uomini noi
non possiamo accontentarci di vivere,
ma dobbiamo cercare e ancora sempre cercare
ciò che forse….sta oltre le
plaghe della vita materiale. E cercare sempre
forse vuol dire persino cercare
“ancora” Dio, dal momento che da migliaia
d’anni ci viene detto che egli c’è,
che è il nostro creatore e che è la nostra
escatologica méta. Se poi però noi
non l’abbiamo puntualmente trovato penso
che non dovremmo, sempre per una
questione di dignità, adagiarsi e conformarci
alla credenza acquisita che ci è
stata regalata dalla tradizione, ma riprendere
a cercare in un'altra direzione,
tracciando una nuova strada. Siccome tuttavia
su questa nuova strada non c’è
nulla da trovare se non esperienze che ci
permettano, forse, soltanto di
intuire ciò che trascende la materia che ci limita, noi non possiamo che
esperire ed ancora esperire, interpretando
in modo “proprio”, cioè da uomini,
la tendenzialità che essa ci offre.
Le esperienze, siano esse quelle proprie
alla materia
(dell’intelletto e della ragione) o quelle improprie ed eccedenti
dell’idema, sono gli unici
accadimenti dell’esistenza che possono caratterizzare
e giustificare la nostra
breve avventura di esseri umani, la quale
forse potrebbe essere persino
propedeutica ad esperienze di una realtà
diversa, riservata a quel prodotto
immateriale della nostra materialità che
proprio l’idema è in grado di
formare.
13.2) L’esistenza tra piacere e sofferenza
(La disimmetria esistentiva).
Che nel considerare l’esistenza umana il
DAR privilegi l “esperire” rispetto al “durare”
(ovvero la qualità
e non la quantità di vita) non significa per questo
che venga messo tra parentesi il fondamentale
rapporto tra piacere e sofferenza, che
nell’esistenza di ognuno si pone come un
alternativa in gran parte indipendente
dalla nostra volizione, ma in qualche misura a questa riferibile
nell’esercizio dell’eleuteria. Il rapporto citato si pone
pertanto sul crocevia in cui ognuno di noi
progetta la propria esistenza nel
breve e nel lungo termine; pertanto esso
va considerato in modo razionale (e
aggiungerei utilitaristico), poiché è evidente
che tanto più si cercano nuove
esperienze tanto più si possono scoprire
nuove ragioni di piacere ma nel
contempo tanto più si rischia di patire nuove
forme di sofferenza. Ora,
cercando la “qualità” esperienziale “a tutti
i costi e sempre” è abbastanza
probabile che nel migliore dei casi si sperimenti
un’alternanza di
soddisfazioni e frustrazioni, ma che nel
peggiore si cada in un inferno di
amarezza e dolore, col ché la qualità di vita si tramuta in condanna.
Ciò accade perché prendendo in considerazione
una sufficientemente ampia
casistica di accadimenti possibili le probabilità
che da essi derivi sofferenza
per l’uomo sono senz’ombra di dubbio assai
maggiori di quelle che potrebbero
arrecargli piacere. Ma c’è di più: questo prevalere della sofferenza sul
piacere appare come “strutturale” alla vita in generale
e sembra quasi
essere un’ineliminabile e infausta regola
del vivere stesso.
A partire da questo sostanziale disequilibrio
tra le
possibilità di godere e di soffrire, pur
ribadendo che a nostro parere è
l’attivo esperire e non il passivo sopravvivere
ciò che da senso all’esistere,
dobbiamo poi anche domandarci quale sia il
prezzo da pagare nel fondare la
propria esistenza sulla volizione esperienziale rispetto al
perseguimento del “sicuro” e del “conveniente”,
dal momento che le esperienze
che esorbitano l’ordinaria routine che la
nostra condizione e la nostra situazione
ci offrono possono condurre a successi piacevoli
e gratificanti, ma anche a
disastri, se non esiziali, almeno deludenti
e dolorosi. Allora rischia di
diventare vuota retorica il sottolineare
la dignità dell’atteggiamento che
privilegia l’azione sull’inazione, il nuovo
sull’acquisito, il difficile sul
facile, ecc., senza domandarsi che cosa ne
segua in termini di economia
psico-fisica. Pertanto occorre affrontare
la questione con razionalità e con
pragmatico buon senso.
Il piacere, diretto o indiretto come immediato o
differito, è l’oggetto primario di ogni desiderio
e inoltre, in relazione al procedimento
partitivo da noi assunto, parrebbe necessario distinguere
tra i piaceri del
corpo, della psiche, dell’intelletto o dell’idema.
In realtà tale distinzione sarebbe scorretta
poiché il piacere, come d’altra
parte il dolore, in qualsiasi parte del nostro
essere abbia origine, anche la
più estranea alla corporeità, viene ricevuto
e tradotto sempre in stimoli
nervosi che è la psiche a ricevere ed
avvertire. Intelletto ed idema danno sì luogo ad una tipologia
esperienziale specifica e possono sì risultare
virtuale sede privilegiata di
fatti mentali che non riguardano primariamente
la psiche, ma soltanto
a questa, con essi compresente e coordinata,
arrivano i messaggi nervosi che
essa elabora reattivamente, producendo così
sensazioni di godimento o di pena.
La prima considerazione da fare relativamente
al problema del
rapporto esistentivo piacere/sofferenza è
che nel perseguire un’esperienza (il
ché nella maggior parte dei casi significa
poi soltanto fare una scelta tra più
possibilità) occorre razionalmente sempre
valutare a priori e per quanto
possibile (cosa che gli altri animali fanno
d’istinto) se le probabilità di
insuccesso (in relazione ai danni, disagi
o sofferenze che ne possono derivare)
giustificano il fine a cui si tende. Non
si deve mai dimenticare che essere in
buona salute, appagati o soddisfatti e possibilmente
anche decisamente di buon
umore è un requisito auspicabile anche per
il miglior sfruttamento delle
funzioni più evolute e interessanti relative
all’intelletto, alla ragione
e all’idema. E ciò resta vero anche
quando si ammetta che queste organizzazioni
vengano molto spesso stimolate dalla sofferenza
ad elevare il loro tono nei confronti del
predominio mentale della psiche e che il soffrire, quando non sia
distruttivo, è probabilmente una concausa
dell’evoluzione della stessa
struttura mentale. L “etica del
sacrificio”, suggerita e praticata in alcuni contesti
religiosi o laici,
soprattutto del passato, può essere utile
per raggiungere obbiettivi mistici od
eroici, ma non è raccomandabile per un buon
equilibrio psico-somatico, il quale
resta “comunque” un valore assoluto sotto
ogni punto di vista.
La seconda considerazione riguarda il confronto
tra le
possibilità reali che ha il piacere
(sia esso psichico, corporeo o misto) di
verificarsi, di prodursi e di durare
rispetto a quelle della sofferenza. E
qui non è necessario sprecare molte parole
per affermare che in quanto a
intensità e durata le possibilità della sofferenza
superano in modo incommensurabile quelle
del piacere, sia attuali che potenziali. D’altra parte
credo sia fuori
discussione che razionalmente noi riusciamo
ad immaginare una tortura infinita,
ma non riusciamo a fare altrettanto per un
godimento, a meno di pensare
fideisticamente ad un escatologico paradiso.
Inoltre, per quanto riguarda
l’intensità, quella del piacere sembra ridursi
man mano che esso si prolunga,
come se i recettori deputati tendessero a
perdere sensibilità (attraverso un
processo di assuefazione), mentre nel caso
del dolore avviene per lo più
l’opposto. Come ognuno ben sa, al dolore
non si fa affatto l’abitudine, anzi,
la nostra capacità di sopportarlo tende a
ridursi man mano che esso perdura, a
meno che non intervengano forti giustificazioni
intellettuali (o atteggiamenti
masochistici) a mutare il nostro stato
mentale.
Vi è un’altra osservazione da fare per quanto
riguarda la
“durata” reale del nostro esperire. Il tempo
“dei sensi” (come d’altra parte
quello “della coscienza” [164]
in cui esso confluisce ) non corrisponde per nulla al tempo
“dell’orologio” (il tempo fisico), infatti
nel caso del piacere esso tende a
contrarsi mentre si dilata nel caso del dolore.
Se quest’ultimo è molto intenso
il tempo diventa tendenzialmente infinito,
poiché non esiste frazione di esso
così piccola da non essere caratterizzata
dalla intollerabilità al dolore,
mentre al contrario, nel caso del piacere,
il tempo reale (la durata)
tende ad azzerarsi. Va tuttavia tenuto conto
che la cosiddetta “soglia del
dolore” è abbastanza variabile da
persona a persona e che verosimilmente in
ciò, oltre alla sensibilità nervosa,
abbia un ruolo primario la psiche che differisce anche profondamente da una
persona all’altra .
Da quanto sopra detto consegue che sembrerebbe
ragionevole
ritenere che in alcuni casi, nella percezione
del piacere o del dolore
conseguenti all’accadimento traumatico o
doloroso, possa anche prevalere
l’elemento psicologico rispetto a quello
fisiologico e che la psiche reagisca in un certo senso “interpretando” gli stimoli, in
riferimento ad uno schema
psico/sensorio interno che imposta la “soglia”
in base a una scala di
tollerabilità precostituite. A questo proposito
va rilevato un ulteriore
aspetto del problema che è a tutti noto,
vale a dire che allorché dal piano
meramente corporeo ci spostiamo verso quello
psichico le situazioni appaiono
molto più complesse e la corrispondenza tra
le cause e gli effetti diventa
assai problematica e sfuggente. Ciò accade
anche per il fatto che se (abbastanza
spesso) di fronte ai dolori puramente fisici
è possibile trovare lenimenti di
rapida e soddisfacente efficacia, nel caso
di quelli puramente psichici le
soluzioni, quando vi sono, richiedono terapie
spesso abbastanza incerte e
comunque sempre molto prolungate.
Al di là di queste ovvie considerazioni la
questione di cui
stiamo trattando delinea chiaramente uno
scenario nel quale, anche confortati
dalla comune esperienza della maggioranza
di noi, si può trarre la ragionevole
conclusione che sull’enorme diseguaglianza
esistente tra la quantità di sofferenza e quella di piacere che ad un essere vivente in
generale può toccare durante la sua vita
non ci può essere alcun dubbio sul
fatto che la prima risulti enormemente superiore
alla seconda. Questa realtà
sembra essere stata molto presente nella
formulazione di filosofie come il
Buddhismo che hanno fatto dell’abolizione
della sofferenza il loro
cardine teorico.
Nel DAR a questa diseguaglianza è stato dato
il nome di disimmetria
esistentiva, per sottolineare il fatto che comunque,
quali che possano
essere le scelte progettuali effettuate da
un individuo per il proprio
avvenire, le possibilità che dalle esperienze
che egli farà gli derivi sofferenza restano “strutturalmente” assai più elevate di
quelle contrarie. Al punto che la sofferenza
sembra essere un “effetto” inevitabile del
vivere stesso, che va di pari passo
con la sua instabilità e la sua precarietà.
Ciò significa allora che la sofferenza non può essere ritenuta un
elemento contingente ma piuttosto immanente
della vita stessa (come avevamo già
notato al paragrafo 6.3 trattando della moira).
Quindi essa (lo ribadiamo) non può essere
solamente respinta come detestabile,
ma in un certo senso assunta come un ingrediente
della realtà che ci inerisce,
spingendoci a domandarci quale senso extrafisico
essa possa eventualmente
avere.
Come si sa, le religioni ebraica e cristiana
hanno potuto
fornire una spiegazione di grande efficacia,
col biblico “peccato originale” dei nostri
progenitori. Ma se noi vogliamo affrontare
razionalmente il problema siamo
indotti a ritenere che il terribile e universale
imperversare della sofferenza, la quale colpisce talvolta in modo inversamente
proporzionale ai peccati di chi la sperimenta,
abbia un significato ancora diverso.
Se noi consideriamo l’individuo e il suo
rapporto con la sofferenza ci
rendiamo conto che l’io pensante e l’io soffrente
sono quasi la stessa cosa e
che le modalità con cui il soggetto si confronta
col negativo sono il frutto
dell’interpretazione che egli dà di esso
e non la sua realtà. Allora alla sofferenza si associa la nozione che noi possiamo avere
del nostro
esistere “per esperire”, al punto che soffrire
può venire anche interpretato
come un ineliminabile correlato del “conoscere”.
Ma se la sofferenza ci fornisce elementi cognitivi sul nostro
esistere, che
è sostanzialmente omogeneo con ogni altro
essere vivente, essa diventa anche
una finestra cognitiva sulla realtà generale
della materia vivente. Va tuttavia
rilevato che essa è anche l’unica forma per
noi percepibile del male in
generale; pertanto, se pure essa va evitata
a tutti i costi (poiché noi
dobbiamo perseguire per quanto possibile
il piacere), nondiméno (quando
non la possiamo evitare) essa ci apre anche
rilevanti intuizioni esistenziali
per una lettura non puramente biologica del
fenomeno “vita”.
Se tutta la nostra esistenza individuale
e comunitaria tende ad
un bene in generale, che si estrinseca in oggettivazioni
pensabili, ma che rimane sostanzialmente
astratto, il segnale del suo opposto può
diventare un punto di partenza per quella
ricerca extrafisica che il DAR persegue.
Allora ritorna in ballo anche il concetto
di “verità” e a tal proposito non possiamo
che ripetere quanto avevamo scritto nel paragrafo
1.4 (L’ignoto e la “verità”)
quando affermavamo che la verità può essere
soltanto logica e mai metafisica. E tuttavia, se esiste una minima
probabiltà che la verità abbia un senso che
possa eccedere quelli di
corrispondenza, coerenza e verificabilità
si può ritenere che soltanto la sofferenza,
forse, sia la penosa porta esistenziale che
ci introduce a questo nuovo mondo
di significati non pre-mistificati dall’uso
metafisico che è stato fatto del
termine “verità”.
Ma vi è ancora un’altra considerazione da
fare: il privilegio
di vivere (ovvero di sperimentare un’esistenza)
viene pagato da parte di ogni
entità vivente con un “costo” medio di sofferenza che sembra
sproporzionatamente elevato rispetto ai vantaggi
reali che un’esistenza può
offrire. A meno di rifugiarsi nella metafisica
o nel campo dei significati
morali la conclusione oggettiva e razionale
sembrerebbe essere quella che
“vivere non conviene”. Ma questa mia provocatoria
affermazione vuole soltanto
stimolare la riflessione sul quel “senso”
del vivere che ognuno di noi deve
trovare, interrogandosi sulla propria individualità, su ciò che essa “è”
e su ciò che “potrebbe essere”, in una prospettiva
esistenziale extrafisica che
qui è stata adombrata, ma che è evidentemente
ancora tutta da scoprire.
13.3) Il comico (il cortocircuito tra i riflessi
mentali di necessità e libertà).
Siamo giunti al punto di occuparci di un
argomento che nel DAR assume una particolare
importanza, in quanto il comico non è soltanto
ciò che ci fa ridere ma per noi è un concetto
squisitamente filosofico, che ci
permette di evidenziare come la necessità e la libertà (che hanno
dato il titolo al nostro libretto) vengano
con esso a collidere. Ciò non
avviene però in modo diretto, non potendo
essere evidentemente questi due
elementi-base di realtà così diverse (come
materia ed aiteria) a
venire in contatto diretto, bensì soltanto
i loro “riflessi” mentali. Riflessi
che vengono trasferiti nelle cose e nei fatti
della nostra quotidianità, come
anche nei principi di valutazione o nei criteri
di giudizio che continuamente
attiviamo nel relazionarci ai fatti e alle
cose. Riflessi, il cui rapporto con
la realtà è da considerarsi qualcosa di simile a un’immagine
dentro uno
specchio, dove lo specchio è la nostra mente.
Le nostre funzioni mentali (organizzazioni e infrastrutture)
accumulano e traducono ciò che noi percepiamo
della necessità e ciò che
intuiamo della libertà nel “nostro”
linguaggio concettuale, trasferendoli sui
modi di pensare e di agire che il
contesto antropico (sia a livello intimo
sia a livello collettivo) elabora ed
istituisce, fissandoli quindi in tradizioni,
schemi di riferimento, modi di
pensare e modelli culturali.
Ma perché riflessi
mentali? Perché nei confronti della necessità
(che ci inerisce) e a maggior ragione della
libertà (che ci avvolge) noi possiamo per l’appunto agire soltanto
come dei metaforici specchi, che raccolgono
e riescono a possedere una mera
immagine riflessa della realtà di esse. Tale
immagine (il riflesso mentale)
nella migliore delle ipotesi riesce ad essere
relativamente coerente con la
loro essenza, ma molto più spesso si può
verificare mediazione o addirittura
distorsione delle denotazioni di essi nell’esistenza corrente, il ché è poi in definitiva la modalità (il nostro modo d’essere)
con cui siamo collocati entro la realtà stessa. Intendiamo dire che necessità e libertà, quali
elementi intrinseci di materia ed aiteria, prescindono dal fatto
che ci siano gli uomini a pensarli. In altre
parole: i riflessi mentali sono
parte della realtà antropica ma non di quella generale, di cui sono
copie antropiche imperfette. Tuttavia, in
quanto “pensati”, essi assumono una
“funzione” particolare, che entra a far parte
del nostro modo specifico di
“essere uomini” e di rapportarci alla realtà,
“attraverso” quegli schemi che si formano
e si fissano nella nostra mente e per
mezzo dei quali viene formulata la nostra
personale concezione del mondo.
Il comico è quindi una sorta di
“sovraprodotto” del pensare umano, proprio
in quanto prodotto dal nostro
riflettere “soprà” la realtà, creato e consumato all’interno del nostro
esistere. Tuttavia noi siamo già predisposti
ad esso attraverso il senso del comico che
possediamo (analogamente a quello del tragico)
in quanto eredità filogenetica, il quale
è una sorta di facoltà o prerogativa
“latente” sempre pronta ad attivarsi appena
un’immagine, una frase, un fatto un
comportamento (per lo più di carattere banale,
convenzionale o rigidamente schematico) si
“ribellano” agli schemi mentali ispirati
dalla necessità ai quali siamo
esistentivamente legati. Questi si rivelano
pertanto suscettibili di un
sovvertimento, causato dall’irrompere di
un criterio di libertà, ad essi estraneo
e imprevisto, che si traduce nello “scacco”della loro capacità
di
guidare o almeno di condizionare il nostro
modo corrente di rapportarci al
mondo. Ecco allora che il comico, irrompendo all’improvviso in uno
schema mentale rigido ma anche fragile, ne
rivela la sua pura convenzionalità e
la sua inconsistenza, che, come è abbastanza
evidente, sono illusorie e
scollegate dalla realtà oggettiva. In questa situazione erompe allora
il
riso, che è il modo di esprimersi di chi
somatizza il capovolgimento
liberatorio che si è verificato nella sua
coscienza. Il quale riso
emerge come il modo più significativo di
“essere uomini” e che ci qualifica in
quanto tali rispetto a tutti gli altri animali,
coi quali condividiamo quasi
tutto, ma non esso.
Il comico è stato per
lo più trascurato dalla filosofia (che su
di esso ha anche spesso equivocato)
limitandosi a considerarlo, prevalentemente
e con poche eccezioni, una
categoria estetica abbastanza secondaria.
Il comico invece è un aspetto dell’esistenza umana
profondo e
complesso, che nasconde molto più di quanto
riveli nello stesso riso (che ne è
l’effetto somatico più noto e frequente);
infatti esso può anche dare luogo al
pianto, che può essere considerato una conseguenza
estrema della comicità
stessa. Il pianto, coincidente talvolta con
lo “scompisciarsi dalle risa” (che allude ad un imbarazzante
effetto fisiologico), deriva da una particolare
sensibilità individuale al comico, la quale rende possibile un effetto complessivo che potremmo
definire tranquillamente “shock comico”,
derivante dal cortocircuito che si
verifica nell’istante tra uno schema mentale
e il suo stravolgimento.
Il comico si presenta quindi come un fattore fondamentale del DAR in quanto si
colloca (unico tra le esperienze esistenziali)
sullo spartiacque tra le forme riflesse di
necessità e libertà (con la quantità e la qualità i più importanti
attributi della materia e dell’aiteria ) o per usare un'altra metafora
“sul filo della lama” che le divide in due
versanti opposti della realtà
antropica. Ma nel ribadire ancora una volta che nel
comico la necessità e la libertà entrano in gioco “soltanto” in una
loro forma riflessa in quel metaforico specchio
che è la nostra mente, ci
vediamo costretti ad essere un po’ più precisi.
Per cui, a voler essere un po’
pignoli, ci toccherebbe precisare che la
necessità
(del cui contesto noi facciamo parte) si
manifesta soprattutto attraverso il
riflesso che la psiche rende di essa (e secondariamente
dalle altre organizzazioni), mentre per quanto riguarda la libertà (sostanzialmente fuori contesto, o meglio
fuori ambito) ciò avviene prevalentemente
attraverso il suo riflesso nell’intelletto e nell’idema, dove per
“riflesso”, oltre ad immagine speculare,
si può anche intendere la “traduzione”
che viene operata della realtà percepita
o intuita. Questa affermazione però
richiede un chiarimento immediato, poiché
qualcuno potrebbe chiedersi se il
“riflesso” antropico della libertà
non possa essere l’eleuteria. Ebbene
la risposta è: no! L’eleuteria entra in gioco nel comportamento
“attivo” avendo la propria base nella volizione mentre “il riflesso antropico della libertà” entra in gioco in un
comportamento automatico e “passivo”, quale
specifica caratteristica della
“reazione” al comico. Ciò significa
che l’esercizio dell’eleuteria avviene nella consapevolezza
(sinergia tra intelletto e coscienza) mentre la “presa” del comico
è un fenomeno reattivo, che coinvolge in
qualche modo tutte le funzioni
mentali, ma il cui destinatario finale è
la psiche. La quale, in questo caso (ed è
l’aspetto più interessante del comico) nel ridere di qualcosa ride nel
contempo di se stessa, quale soggetto mentale
produttore, anzi istitutore, di
schemi mentali rigidi.
Quando il comico erompe, e talvolta si può dire
“esplode” (nel riso), in un qualsiasi contesto
rappresentativo o discorsivo,
tutti i parametri della logica vengono sovvertiti
e si apre una voragine di
contrasto che crea un capovolgimento di senso
tra ciò che ci si aspetta e ciò
che invece arriva. Ma c’è di più: questo
fatto spiazza non soltanto la psiche, che è il soggetto primario,
ma anche le altre due organizzazioni materiali (intelletto e ragione) mentre l’idema resta spettatrice relativamente periferica (ma
non per questo
estranea) all’accadimento, in
quanto è l’organizzazione che
ha aperto la porta all’intuizione della libertà, che il resto della mente accoglie
come riflesso esistenzialmente “utilizzabile”. All’operazione di “spiazzamento” della psiche succede
però quasi contemporaneamente un “rimpiazzamento”,
ma in una logica capovolta
che manda gambe all’aria tutte le coordinazioni
delle organizzazioni. Ciò
avviene in un fenomeno mentale istantaneo
assai complesso, per cui nel comico non si verifica una normale concadenza
delle organizzazioni, bensì
un accavallarsi straordinario e inatteso
di esse (una sorta di uscita dai loro
binari funzionali) che innesca l’ilarità,
che la psiche traduce in
quegli stimoli nervosi che generano le contrazioni
muscolari facciali tipiche
del riso. Abbiamo qui adombrato l’elemento
della “sorpresa” che è un
ingrediente molto importante della comicità,
ma non indispensabile al
verificarsi di essa; infatti la sorpresa
può essere anche del tutto assente,
venendo rimpiazzata dall “attesa” [165]
di riudire o rivedere la battuta o la scena
comica. Non è inusuale il voler rivedere un certo
film più volte
aspettando sempre e soprattutto “quella”
scena particolare, per riprovare il
piacere sperimentato la prima volta. Questa
possibilità di risperimentare il comico
a partire da una fonte di esso “già data
e definita” non è illimitata ma
dipende dalla “forza” (o meglio ancora dallo
“spessore”) dell’espediente comico
creato e utilizzato. D’altra parte questo
può funzionare per poche o molte
volte (a seconda del “dato” che si offre
e del soggetto interessato che lo
riceve) tendendo verso il su annullamento
effettuale appena lo stravolgimento
dello schema mentale si esaurisce nella noia
del “già acquisito”. Tale
esaurimento avviene perché la psiche ad un certo punto fissa quel
“dato”di comicità come un ineliminabile “allegato”
dello schema stesso che è
risultato stravolto; succede infatti che
ad un certo momento essa assimili la
causa di rottura del suo ordine interno e
nel far questo ne annulli l’effettualità.
Il comico è stato per lo più considerato quale
effetto di ciò che di per sé sarebbe (in
quanto ridicolo) causa di esso. In
realtà il fenomeno si verifica non già a
partire da ciò che (avendo la natura
della comicità) lo provocherebbe, bensì dal
suo opposto. È infatti in
riferimento alle cose “serie” [166],
ed a partire da esse, che si scatena il comico, ed il massimo grado di esso si
verifica in contrasto con ciò che rappresenta
il massimo grado (o enfasi) della
“serietà”, cioè il drammatico (vedi paragrafo 6.3). Così, sia l’uno
che l’altro, si qualificano per la specifica
appartenenza alla sfera della “rappresentazione” [167],
che è come dire dell “irrealtà” del puro
rivelarsi e mostrarsi di una forma o
di una situazione. Tuttavia, mentre il drammatico
(che non è nelle cose e nei fatti, ma in
un certo modo psichico “di vederli”)
si contrabbanda per qualcosa di importante
e grave afferente la realtà
(di cui invece è soltanto rappresentazione
psichica e spesso fittizia), al suo
opposto il comico, proprio agendo
sullo stesso palcoscenico della “rappresentazione”,
smaschera lo “scenario” irreale che il drammatico determina. E mettendo in mostra
l’inconsistenza della drammatizzazione ne
smaschera soprattutto i presupposti
schematici e canonici (che la psiche ha elaborato e fissato) diventando
così uno straordinario demistificatore di
ciò che è spesso falsamente
qualificato come elemento grave e importante
della realtà [168]. In
questo senso, nel mostrare l’inconsistenza
del “serio” il comico diventa “rivelatore” della realtà stessa nella
sua essenza, al di là della pura apparenza
della rappresentazione.
Per esemplificare quali siano i presupporti
del comico che abbiamo indicato come schemi mentali
legati alla “serietà”
si pensi all’insieme delle norme comportamentali
(leggi, regole sociali,
consuetudini, abitudini, ecc.), vale a dire
a ciò che in generale o
istituzionalmente è ritenuto importante,
irrinunciabile, sacro, perfetto, ecc..
Si pensi alle credenze in generale, a ciò che riceve unanime attenzione,
a ciò che tradizionalmente richiede impegno
o un certo tipo di atteggiamento e
così via; si avrà un quadro dei veri elementi
che sono all’origine del comico.
Più in generale si può anche rilevare che
il comico costituisce lo smascheramento di tutti gli
schemi mentali e
di tutti gli stereotipi accumulati dalla
cultura umana attraverso i millenni in
termini di regole, costumi, usanze, canoni,
norme e in modo particolare di
tutti i criteri di riferimento per i concetti
di bello, di buono, di normale,
di regolare, di perfetto, di lodevole, di
desiderabile, ecc. Nella misura in cui in un gruppo umano nascono
degli schemi
assiologici di riferimento, insieme con il
dubbio e la critica sulla loro
validità, nasce, accanto alla trasgressione
attiva, la trasgressione virtuale
che il comico opera, la quale consiste nel proiettare lo
schema assiologico
sul piano della “rappresentazione”
e su questo piano operare la sua demistificazione.
Il ribaltamento di valori
che tale negazione opera è il più importante
ed interessante aspetto
esistenziale del comico.
L’opposizione serio/comico ricalca quella
più comprensibile di
bello/brutto, dove il concetto di “brutto”
si pone perché è stato già posto
prima quello di “bello”, al quale si oppone
in termini di rappresentazione. Infatti il bello e
il brutto in realtà non posseggono una vera
realtà, vale a dire che essi non
esistono in quanto realtà oggettive afferenti
le cose, ma “si mostrano”, ovvero
“vengono rappresentati”, quali proprietà
delle cose, in base ad un nostro
canone estetico di riferimento. Vi
sono tuttavia un paio di differenze sostanziali
tra la coppia bello/brutto e
quella serio/comico, che rendono la prima
più debole dal punto di vista
gnoseologico (ma per contro molto forte sul
piano estetico). In una certa misura non è del tutto illegittimo
affermare che la
bellezza appartiene alla realtà delle cose
(per le ragioni che diremo) e quindi
essa non si qualifica esclusivamente in base
alla cultura (che ne fissa il
canone) ma anche in base ad un senso estetico
innato, che collima con il
“piacevole”. La bellezza è tale principalmente
in quanto afferisce ciò “che
piace” ed infatti affinché qualcosa possa
essere finito bello è necessario che
esso presenti l’irrinunciabile prerogativa
di risultare “comunque” piacevole.
In senso lato (e non solo visivo) ciò che
è bello possiede il requisito
fondamentale di provocare godimento al percipiente,
in primo luogo tramite i
suoi sensi. Il canone del “bello” (che domina
specificamente ogni contesto
culturale e in modo assai diversificato)
si sovrappone perciò all’innato “senso
del bello” (ciò che “naturalmente” piace)
e non lo elimina mai. Lo può
modificare in maniera anche notevole, ma
la base di partenza del concetto di
bellezza, ancorché “fossilizzata”, rimane
naturale e non culturale. Nel caso
della coppia serio/comico la situazione si
presenta in modo del tutto
differente, poiché l’elemento naturale è
quasi inesistente, mentre è invece determinante
quello culturale. Questo rende una cosa “opportuna
e lodevole”, oppure
“inopportuna e disdicevole”, secondo un criterio
di riferimento precostituito,
quasi sempre su base sociale, possedendo
pertanto tutti i caratteri della
“convenzionalità”. È su tale distinzione/opposizione
che si innesta il comico, il quale (facendo emergere la
realtà/naturalità) mette in mostra ed enfatizza
il secondo termine (l
“inopportuno-didicevole”) smascherando così
la pura convenzionalità del primo
(l “opportuno-lodevole”).
Emerge da quanto detto sopra la fondamentale
funzione di
smascheramento (e quindi di ripristino di
una relativa “verità” concernente la
realtà dell’accadere e del mostrarsi) della
quale, da parte della cultura corrente
e condivisa (o dominante), viene messa in
opera una manipolazione a fini di
utilità sociale e quindi operata una più
o meno consapevole
interpretazione/mistificazione. Il comico
allora, molto più di ogni altro elemento
etico od epistemologico, ripristina,
attraverso l’ilarità, i termini reali in
cui si presenta l’esperibile. Il comico, sia nella forma
casuale/spontanea sia in quella artistica/intenzionale,
è quindi un
importantissimo mezzo di recupero (in forma
più o meno rappresentativa e
spettacolarizzata) della naturalità, che
rivendica attraverso il riso i suoi
diritti. Questo recupero di naturalità ha
un’importanza fondamentale per il
mantenimento e l’incremento della carica
vitale (quale energia psico/somatica che regola
il funzionamento di tutto
il nostro essere) della quale parleremo nel
prossimo paragrafo, insieme con la nichilìa, che ne costituisce la sua
pericolosissima caduta.
Il comico nella forma “casuale/spontanea” è
quello che compare indipendentemente dall’aspetto
sociale della rappresentazione e quindi può offrirsi
anche ad una singola persona. La quale può
scoprirlo improvvisamente nel
comportamento di un'altra persona o semplicemente
nel modo in cui si veste o si
muove, ma ciò può accadere altresì in un
qualsiasi aspetto di un accadimento
qualunque, come pure in un gesto “proprio”,
colto in uno specchio o in una
registrazione filmica. La forma che abbiamo
definita “artistica/intenzionale” è
invece quella tipica dello “spettacolo” professionale,
dove lo sceneggiatore,
il regista e gli interpreti costituiscono
un gruppo di persone che
contribuiscono al confezionamento di un “prodotto”
che funziona come
“produttore di ilarità”. Inutile dire
che la prima forma è quella esistenzialmente
più interessante, peraltro la
seconda assolve una funzione socializzante
di grande importanza e si deve
ammettere che nelle sue migliori espressioni
si rivela come un opera artistica
degna di riconoscimento e stima non certo
inferiori a quelli concernenti opere “drammatiche” di pari qualità.
Ma per capire meglio quale sia la genesi
del comico e
come esso si produca e funzioni occorre analizzare
le modalità attraverso le
quali esso si genera, vale a dire gli “strumenti”
coi quali, per mezzo di
un’alterazione della usuale (o data per acquisita)
rappresentazione di un certo
aspetto o momento della realtà antropica
(il “rappresentato”), si genera
l’ilarità. Tali strumenti sono piuttosto
vari, ma per cercare di delineare un
quadro sintetico di essi ne tenteremo una
classificazione provvisoria. Potremo
allora dire che, a grandi linee, si possano
identificare due gruppi principali
di strumenti del comico: quelli che determinano una “deformazione”
del
“rappresentato” (di un oggetto o di una “fase”
della realtà antropica) e
quelli che determinano una “delocazione”
di esso o di un suo elemento
caratterizzante. Per proseguire nel nostro
tentativo classificatorio
aggiungeremo che la deformazione comica potrebbe avvenire per
1)“caricamento”, per 2)“aggiunta”, per 3)“riduzione”
e per 4)“sottrazione” e
che la delocazione potrebbe avvenire per 1)“inversione”, per
2)“confinamento”, per 3)“sovrapposizione”
e per 4)“sostituzione”. Essendo questo libretto
un’introduzione al DAR e non un saggio sul
comico una
serie di esemplificazioni al riguardo sarebbero
fuori luogo e peraltro neppure
facilmente realizzabili, poiché gli esempi
a cui penso e mi riferisco
richiederebbero una lunga descrizione circostanziata
e potrebbero anche essere
poco condivisi data una certa inevitabile
“personalizzazione” del comico.
Ciò non tanto dal punto di vista concettuale,
ma per quanto riguarda il
giudizio di efficacia della rappresentazione
che provoca o dovrebbe provocare
ilarità, che non è mai generalizzabile essendo
abbastanza spesso piuttosto
individuale o contestuale (basti pensare
alla satira politica o religiosa).
Tuttavia qualche indicazione di massima si
rende necessaria e
cercherò di darla anche se il lettore dovrà
scusare una certa sommarietà
semplificatoria. Per quanto riguarda il primo
gruppo di strumenti del comico
(quelli di deformazione) diremo che il 1) caricamento potrebbe
essere essenzialmente basato sull’accentuazione
di un elemento del rappresentato
che già di per se stesso risulti “fuori norma”,
la 2) aggiunta nell’addizione
di un elemento non compatibile con l’essenza
del rappresentato, la 3) riduzione
con un’operazione opposta ad 1) e la 4) sottrazione con l’eliminazione
di un elemento del rappresentato a causa della quale esso diventa
incompatibile col contesto in cui risulta
inserito. Per quanto riguarda invece
il secondo gruppo (quelli di delocazione) la 1) inversione potrebbe
essere prevalentemente costituita dalla decontestualizzazione
del rappresentato
verso una sistemazione incongruente e incompatibile,
il 2) confinamento dallo
svuotamentp del contesto di appartenenza,
in modo che al rappresentato venga
a mancare il suo spazio di collocamento logico,
la 3) sovrapposizione potrebbe
nascere dall’accostamento al rappresentato di un suo contrario o di un
diverso, incompatibili con esso nel contesto
dato, la 4) sostituzione infine
potrebbe consistere nello spostamento o nell’adombramento
del soggetto primario
della rappresentazione, mettendo al suo posto
un elemento poco o per nulla
conciliabile.
Tale sommaria classificazione degli strumenti
del comico
non va considerata ovviamente né definita
né esaustiva, poiché anzi la sua
eventuale validità dipenderà soprattutto
dalla sua applicabilità “generale”,
essa deve cioè risultare valida sia per la
comicità che abbiamo definito
“naturale” (concernente la vita corrente)
sia per quella “artificiale” (concernente
le attività letterarie, grafiche o dello
spettacolo in generale) e per tutti i
contesti possibili (la famiglia, la strada,
il luogo di lavoro o di svago, la
letteratura, la grafica,.il cinema, la TV,
ecc.). Il lettore potrà fare mente locale sulle
sue fonti di ilarità e
verificare se i criteri classificatori che
qui abbiamo abbozzato risultino
applicabili ai suoi usuali o pregressi rappresentati che lo muovono o lo
hanno mosso al riso. Tuttavia, questo schema
potrebbe anche essere assunto in
modo flessibile, e quindi aggiornato o completato
in base alle personali
preferenze. Anche se penso che l’importante
sia trovare quante più possibili
fonti ed occasioni di comicità senza poi
preoccuparsi troppo di inquadrarle in
uno schema: l’importante infatti è ridere
più spesso che si può e se poi se ne
è anche capaci (dote di eccezionale valore)
saper “far ridere”
(volontariamente) gli altri .
La interpretazione che il DAR dà del comico e la sua
assunzione ad aspetto fondamentale dell’esistere
e del rapportarsi al mondo si
offre ad un confronto con le interpretazioni
canoniche di esso; dalla kantiana
“attesa che si risolve nel nulla” [169],
alla bergsoniana “reificazione dello spirito”
col “sopravvento dell’anima sul
corpo” [170],
al freudiano “senso di piacere” nel vedere
l “altro” che compie un eccessivo
dispendio di energia fisica [171],
al liberatorio trionfo del “non senso” in
Baudrillard [172]o
dello “spreco” in Bataille [173].
Per completare correttamente questo paragrafo
sul comico dobbiamo però inserirgli un’indispensabile
coda, per aggiungere qualche considerazione
relativa al rapporto tra il riso in
generale e la comicità, in quanto essi sono
sì connessi ma non interdipendenti.
Intendo dire che il comico fa sempre
ridere, ma che si può ridere anche senza
che si manifesti il comico o tutt’al più per effetto di una sua forma
degradata di esso.
Non si può infatti che sostenere la validità
del vecchio proverbio che recita
“il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi’’
ove si consideri che vi sono
persone che ridono per un nulla e altri che
sanno ridere solo di fronte alle
scurrilità o alle più basse volgarità. Si
badi bene, la scurrilità e la
volgarità sono ingredienti importanti del
comico ed è probabile che abbiano costituito una
delle sue forme
ancestrali, ma esse di per se stesse sono
raramente generatrici di comico
autentico, a meno che attuino in qualche
modo una trasgressione di stereotipi
sociali dominanti. In altre parole, la volgarità
è un ottimo elemento della
comicità, purché non diventi fine a se stessa.
Per altro verso va detto che la satira e specialmente una sua forma
“cattiva” (ciò che comunemente si chiama
“sarcasmo”) provocano sì il riso (ma
soprattutto in chi li fa più che in chi ascolta)
però non necessariamente
posseggono i caratteri del comico nei termini in cui l’abbiamo posto,
poiché non sempre rilevano la collisione
di necessità e libertà,
ma piuttosto quella tra soggettività diverse,
che in modo reciproco o
unidirezionale cercano di danneggiarsi agli
occhi degli altri. Il sarcasmo è
quasi sempre fenomeno interpersonale (colpisce
la persone più che gli schemi
mentali generali) e la satira ha
abbastanza spesso una base ideologica o comunque
di parte; entrambi richiedono
comunque un elevato grado di artificiosità
e di elaborazione che in generale
mancano alla comicità nella sua forma più
autentica.
13.4) La carica vitale e la nichilìa.
Qualsiasi persona in buone condizioni di
salute psico-fisica ha voglia di vivere.
Questa voglia di vivere, che nel DAR viene
chiamata carica vitale, è normalmente avvertita come quel senso
di pienezza e di integrazione
col mondo che ognuno di noi avverte o ha avvertito
(si spera) in modo
fluttuante e variabile nel corso della sua
vita. L’analogia con la quantità di
energia posseduta dalle comuni batterie che
alimentano i nostri
elettrodomestici portatili rende abbastanza
bene, in senso analogico, che cosa
noi intendiamo, anche se nel nostro caso
nessuna unità di misura ci permette di
calcolarla ed essa rimane un espressione
puramente convenzionale (ma riteniamo
efficace) di indicare la quantità di “energia
vitale” che alimenta la nostra
macchina biologica psico-somatica. Riprendendo
quanto era già stato detto al
paragrafo 7.3 (dove abbiamo trattato del
corpo)
ribadiamo che quando si parla di salute è
per noi impossibile disgiungere la
parte corporea dalla parte senziente-pensante,
quindi il concetto di carica vitale si riferisce
implicitamente anche al nostro “insieme”
corporeo (liquidi, tessuti, organi e
funzioni) in quanto direttamente implicato
nel nostro stato mentale
Abbiamo introdotto questo nuovo concetto,
che riprende la già citata “voglia di vivere”,
perché abbiamo voluto meglio caratterizzare
il rapporto “energetico” tra funzioni vitali
e tra esistentività ed esistenzialità nella
prospettiva che il DAR pone, ovvero della
dualità esperienziale che caratterizza la
nostra prensione della realtà
durante il fluire dell’esistenza con tutti
i suoi aspetti relativi ai
comportamenti e alle reazioni, alle opinioni
e ai giudizi, ai progetti e alle
aspettative. Dualità esperienziale nella
quale sull’unico supporto corporeo si
innestano di volta in volta funzioni diverse
della mente e non sempre
concorrenti verso un esperienza coerente
ed unitaria. Per questo motivo occorre
stare molto attenti a non confondere lo stato
psico-somatico conseguente
all’elaborazione dei dati esperienziali da
parte della coscienza (in
termini di netti benessere e malessere o
di equivoche miscele dei due) come la
mera conseguenza di una sintesi “già” realizzata
nell’esperienza stessa. In
realtà l’esperienza è vissuta non da un blocco
univoco corpo-mente ma da un
insieme complesso di relazioni tra il supporto
corporeo e motorio e le differenti
funzioni mentali.
L’orizzonte dualistico richiede quindi anche
una
rideterminazione dei termini di “vita”
e di “esistenza”, poiché secondo il DAR non è più una supposta
sinergia funzionale tra corpo e psiche che
dà forma “sempre” ad esperienze “unificate”,
ma è (al contrario) una previa “disgiunzione”
di due attori dell “esperienza” (psiche ed idema)
che determina una sorta di “polarità” tra
due blocchi corporeo-mentali
(“corpo-psiche” e “corpo-idema”) tra i quali
corre la carica vitale.
Allora il concetto di carica vitale complessiva, quale effetto
energetico risultante dalla relazione
tra “corpo-psiche” e “corpo-idema” aiuta
la nostra ricerca nella comprensione
di quel complesso problema costituito dalla
maggiore o minore “voglia di
vivere”, rapportandola alla complessità della
realtà che ci concerne, la
quale, soltanto a posteriori (nella “risultante”
che ci rende la coscienza),
può venire surrettiziamente immaginata come
“unitaria”. Allora, per una
corretta lettura dell’esperienza, non si
deve più partire da una fantomatica
“sintesi”esperienziale psico-somatica,
ma dalla bipolarità della realtà, che in quanto tale può essere colta
nella sua interezza da funzioni differenziate
del nostro biologico “essere
uno”, con conseguenze a volte concorrenti
e a volte divergenti. Non per nulla
la coscienza è infatti quell’infrastruttura della mente che
completa ed integra il lavoro delle organizzazioni, offrendoci
una “risultante” che può indurci a pensare ad unità mentale
che nella
realtà non esiste. Forse non saremo molto
lontani dal vero nel ritenere che sia
proprio in virtù di questa funzione della
coscienza (che non ci rende
separatamente le diverse prensioni della
realtà da parte delle organizzazioni
ma ce ne dà la “risultante”) se la maggioranza
degli uomini non rischia
continuamente la schizofrenia e che possano
essere proprio malfunzionamenti
della coscienza all’origine della schizofrenia. Probabilmente
accade un
po’ come se il corpo di volta in volta “si accompagnasse” a funzioni
mentali differenti nel cogliere la realtà e che l’esito di questi
differenti “accompagnarsi” e le loro risultanti
determinino quella maggiore o
minore voglia di vivere che la carica vitale all’incirca rappresenta.
Da quanto sopra detto risulta che la carica vitale potrebbe essere resa bene anche con la vecchia
espressione di “voglia di vivere”, ma poiché
la volontà (di vivere) nel DAR non corrisponde a quella teorizzata
da Schopenauer (anche se ne deriva), in quanto
è considerata sempre e solo individuale,
bisognerà ridelineare i termini di questo
aspetto del nostro stare al mondo che può
coincidere oppure no col desiderio di starci.
Si rende allora necessario spendere qualche
altra parola per chiarire in quale rapporto
stia la volontà (di vivere) con la carica vitale e col desiderio di realizzare se
stessi. Potremmo semplicemente dire che la prima
è un “fondamento” biologico, la seconda un
concetto valutativo di carattere psicologico
e che il terzo è l’indicatore della tendenza
di ogni individuo a conseguire degli obbiettivi
specifici all’interno del flusso vitale.
Partendo da questa considerazione possiamo
allora precisare che quell’altra espressione
del linguaggio comune che è “desiderio di
vivere” è dal DAR ritenuta abbastanza impropria,
perché noi riteniamo che si possano desiderare
delle cose definite da conseguire nell’avvenire,
ma non un astratto contenitore che le racchiuda.
Questo (il vivere, la vita) è l’oggetto di
una volontà del tutto inconsapevole, che ha le sue radici
nel fatto
stesso che ogni vivente è contemporaneamente
un’espressione della vita, una
parte della vita e una causa/effetto di vita.
In altre parole la vita ognuno di
noi contemporaneamente la rappresenta, la
costituisce e la produce. Nei
confronti di questa totalità di ciò che vive,
nella quale sempre “già si è”,
un’istintiva e inconscia volontà
d’essere è del tutto sufficiente per indicare
il rapporto che con essa può
avere una singola unità che vive. Ma per
un individuo consapevole di stare
vivendo si pone il problema di dare un “senso”
al suo esistere qui ed ora (a
meno di ricavarlo da un’ideologia religiosa
che lo definisca dogmaticamente a
priori) ed allora è la carica vitale deputata a fornire l’energia
necessaria per la ricerca della propria weltanschauung fuori dagli
schemi precostituiti dalla tradizione culturale
.
Il temibile effetto della caduta della carica vitale consiste in una condizione mentale che produce
un
effetto di decompressione/compressione che
svuota dall’interno l’individuo e
nel contempo lo grava di una cappa pesante
che lo comprime e paralizza le
funzioni della volizione e del desiderio. Siccome di ogni fenomeno che ci concerna
cerchiamo una definizione che ci permetta
di capire di che cosa si parla (riferendolo
a una causa o a un’origine definita) il DAR,
pur senza prescindere da cause cliniche,
in considerazione del fatto che la perdita
della carica vitale rappresenta praticamente l “annullamento”
dell’individuo
nelle sue capacità di volere e di sentire
ha ritenuto accettabile
l’attribuzione ad un metaforico nulla la possibile causa del temibile
fenomeno che si verifica in un individuo
che abbia perduto la carica vitale fino al limite estremo dove potrebbe non
esserci più
“ricaricabilità”. Rimandiamo per ora
una trattazione specifica del concetto di
nulla e ci limitiamo qui a dire che, in
modo approssimativo e vago, esso può essere
definito come l’essenza del
“non-essere” e aggiungere che l’offesa che
può arrecarci consiste nello
svuotare dall’interno l’essere
che ci concerne, determinando un senso di
“vuoto” nella nostra esistenza, e
nello stesso tempo nel bloccare (o almeno
ostacolare) l’uscita da questa
situazione con una compressione paralizzante
sulle nostre capacità di
progettare e decidere relativamente al presente
e all’avvenire.
Avrete già capito che stiamo parlando di
ciò che nel linguaggio
sia comune che scientifico viene indicato
come “depressione”, una malattia che può essere gravissima,
ma con un
gradiente di pericolosità piuttosto ampio
e il cui estremo limite coincide con
la decisione suicidaria. Il depresso grave
(il nichilitico) si suicida perché
la sua carica vitale è ormai nulla e
quindi non ha più nessuna buona ragione per
vivere.
Ci si domanderà però che bisogno c’era, anche
qui, di
introdurre un termine nuovo e di non utilizzare
il termine corrente e noto.
Ebbene, anche in questo caso, il motivo sta
nell’intento di essere il più
chiari possibile nell’intreccio delle nostre
argomentazioni e nel desiderio di
evitare equivoci, nonché al fine di cercare
di fornire la migliore ed esaustiva
definizione dell’oggetto d’analisi che ci
siamo posti. Riteniamo il termine depressione troppo vago (viene
riferito sia allo stato depressivo passeggero
e lieve che a quello molto grave)
e che nello stesso tempo abbia il limite
di mettere in evidenza soltanto un aspetto
del fenomeno (lo svuotamento) e non la compressione,
senza la quale non si
capisce la reale fenomenologia del disagio
di cui parliamo. In effetti gli
psicologi e gli psichiatri hanno molte buone
ragioni per tenere in poco conto
le questioni definitorie, dovendosi preoccupare
dei “pratici, contingenti e
pressanti” problemi diagnostici e terapeutici,
ma noi che dobbiamo fornire un
quadro coerente e chiaro del rapporto tra
la nostra weltanschauung e la prassi del vivere quotidiano (a cavallo
tra
salute e malattia) abbiamo altrettante buone
ragioni di cercare che il nome di
un fatto reale sia il più possibile coerente
ed organico all’interno della
filosofia che lo pone.
Chi (come lo scrivente) ha realmente sperimentato
la nichilìa ed è qui a parlarne, essendone uscito bene,
conosce l’effetto
devastante che quello che potremmo anche
chiamare l “assedio del nulla” produce sulla vita di un
individuo. Il quale assiste impotente al
chiudersi di tutte le porte e allo
spegnersi a poco a poco di tutte le fonti
di luce, fino a trovarsi immerso in
un metaforico carcere pneumatico/iperbarico
dove l’unica via d’uscita per non
patirlo è il non essere più. Sarà perché
personalmente ho trovato accanto a
quella farmacologica un “altra” via d’uscita
(quella filosofica), ma la mia
convinzione rimane questa: il mezzo farmacologico
può essere considerato
essenziale per la cura della nichilìa-depressione,
poiché poche sono le persone che pensano
alla possibilità di una via d’uscita
filosofica, ma esso è utile a curare il male,
non a prevenirlo. Non solo, una
volta risolta la crisi acuta della nichilia è indispensabile che vengano
rideterminate le coordinate esistenziali
che fanno sì che in un individuo torni
la voglia di vivere e per ottenere questo
i farmaci servono a poco. A questo
scopo soltanto un modo “funzionante” di approccio
esistenziale al mondo e alla
vita può evitare la ricaduta della carica
vitale.
Di fronte a questi problemi anche la psicoanalisi
può offrire
un validissimo aiuto, poiché aiuta a comprendere
che cosa e quanto del nostro
passato possa condizionare il presente, possedendo
inoltre valide procedure per
sbarazzarsi delle eventuali negative conseguenze,
ma essa non ci dice nulla sul
quadro esistenziale in cui poter collocare
il nostro avvenire. Ora, noi sappiamo che su questo terreno le religioni
godono di una sorta di monopolio, in virtù
delle loro visioni del mondo molto definite e organizzate, nelle quali
dalla A alla Z si trovano tutte le risposte
(per lo più abbastanza chiare) su che cosa
siamo, che cosa possiamo sperare e dove andremo.
La filosofia non ha questa forza, poiché
più che dare risposte pone problemi e avanza
ipotesi, tuttavia il DAR ad esse si contrappone
con la presunzione di poter offrire orizzonti
certamente meno esaurienti ed allettanti,
ma in compenso più consoni all’esercizio
di quelle facoltà mentali attive (ragione, intelletto ed idema) che
compensano la pressione e l’onnipresenza
di quella reattiva (la psiche), la quale cerca sempre la via
meno perturbativa della sua omeostasi,
e questa via è molto spesso soltanto quella
culturalmente più sperimentata o
più accessibile.
13.5) Il superamento.
Nel DAR il superamento
(che non ha nulla a che vedere con l’Aufhebung
[174]
hegeliana (normalmente tradotta con questo
termine) risponde ad un modo
naturale (ma decisamente “virtuoso”) con
cui l’uomo può affrontare un ostacolo
esistentivo o una difficoltà concettuale,
cercando una soluzione che lo porti
“al di là” dell’ostacolo, cioè di ciò che
lo ha momentaneamente fermato. Per
comprendere la ragione per la quale il superamento concerne specificamente l’uomo e non
gli animali in genere, occorre tenere presente
che questi agiscono quasi
esclusivamente sulla base di ciò che viene
geneticamente loro trasmesso e solo
in rarissimi casi (ad esempio negli scimpanzé)
si può ritenere che un soggetto
che ha risolto un problema pratico sia in
grado di trasmettere ciò che ha
appreso od attuato ad altri suoi consimili.
Nel caso dell’uomo, per contro,
l’istintualità si applica soltanto dove la
comparsa dell’ostacolo è così
improvvisa e l’azione conseguente deve essere
messa in opera in tempi così
stretti che non c’è tempo per riflettere.
Ma, dove questo tempo esista, con la
riflessione sul da farsi entra sempre in
gioco la cultura (o l’esperienza) che
il soggetto possiede e l’azione risulta sempre
conseguente ad una mediazione
tra istinto e cultura. Ciò significa che
il modo di affrontare le difficoltà da
parte di un individuo segue certi schemi
che caratterizzano il modo
strettamente “personale” con cui egli si
rapporta alle difficoltà, dando luogo
ad una modalità abbastanza costante con la
quale vengono messe in atto, sotto
forma di volizioni attuate, le reazioni e le azioni. L’atteggiamento
che ne deriva (anch’esso piuttosto costante)
può condurre abbastanza spesso o
perlopiù a decisioni di rinuncia, di elusione,
di aggiramento dell’ostacolo o
invece quello, appunto, del superamento di esso mettendo in atto soluzioni
adeguate, nuove o già sperimentate.
Nel frangente in cui un uomo venga posto
di fronte a una
difficoltà imprevista e alla prospettiva
di un mutamento (di situazione, di condizione, ecc.) tendenzialmente
peggiorativo rispetto a ciò che gli compete
nello stato in cui si trova (oppure
la perdita di qualche beneficio di cui ha
fin’ora beneficiato) egli ha due
scelte estreme (entro le quali si pongono
però delle varianti intermedie) che
sono: la difesa (o il ritorno o il ripristino
per quanto possibile) della
condizione/situazione considerata acquisita
(ritenuta soddisfacente o almeno
accettabile) oppure il suo superamento verso un nuovo stadio
esistentivo. È evidente che debba esistere
una qualche prospettiva per cui tale
superamento dell’ostacolo risulti preferibile rispetto
al restarne “al
di qua” e che ci sia anche la prospettiva
di qualche ragionevole vantaggio.
Tuttavia si constata che ai due estremi comportamentali
si trovano persone che
sistematicamente preferiscono il sicuro all’incerto
e che quindi tendenzialmente
rinunciano al superamento e altre che invece quasi sempre lo
tentano.
Alla base di tali atteggiamenti estremi (oltre
al già citato
elemento caratteriale) vi è però anche un
forte elemento culturale, che
potremmo definire nell’un caso “statico e
conservatore” e nell’altro “dinamico
ed acquisitore”, i quali spesso fanno riferimento
a weltanschauungen tra loro alternative ed inconciliabili,
nel senso che nel primo caso viene cercata
l’unità, la costanza e l’omogeneità dell’esistere
e nel secondo si accetta la pluralità dell’esperienza,
la sua variabilità e la sua differenziazione.
Date le premesse a cui il DAR si ispira è
inutile dire che il dualista coerente sembrerebbe
chiamato ad optare sempre per il superamento, salvo nel caso
in cui un calcolo preventivo dei rischi/benefici
induca alla rinuncia. In altre
termini, le scelte indotte dalla ragione non è detto che debbano sempre
prevalere, ma nell’economia di un’esistenza
è opportuno che le scelte siano quanto più
possibile razionali e che in
ogni caso il coraggio non debba diventare
temerarietà pura. Ricordiamo qui
quanto già enunciato relativamente all’eleuteria (paragrafo 6.4) per rilevare che il superamento può essere considerato connesso all’esercizio
di essa e alla
sua miglior realizzazione, ma sempre compatibilmente
col progetto destinale a cui ognuno di
noi va soggetto e con cui deve fare i conti.
Un rapporto piuttosto interessante viene
a instaurarsi tra il
darwiniano adattamento (che è
alla base della selezione naturale in generale
e quindi anche dei comportamenti
della nostra specie) e il superamento posto dal DAR, poiché questo si presenta
come una modificazione antropica di quello
dettata dall’eleuteria che
in qualche modo si colloca sull’estremo confine
della necessità e in
qualche caso riesce persino a metterla in
mora. Infatti il superamento richiede
modalità di interpretazione del problema
e di invenzione della soluzione
individuale che qualificano il comportamento
umano come un tipo di adattamento
specificamente attivo e creativo, quindi
non soltanto reattivo e adattativo,
alle novità ambientali in qualunque forma
esse si presentino. Questo non
significa soltanto che le facoltà umane consentono
tutto ciò, ma che
profondamente diverso è l’atteggiamento dell’uomo
nei confronti delle difficoltà
rispetto a quello degli altri animali. Infatti,
la messa in opera del superamento
è probabilmente possibile anche per la presenza
di un idema molto
evoluta, che già di per se stessa (nel suo
accedere all’aiteria) si
colloca un poco “oltre” la necessità che guida e controlla
l’adattamento.
13.6) Ancora
qualcosa sull’aiteria.
Ci avviamo ormai alla conclusione del nostro
trattatello di filosofia spicciola e non
sono del tutto sicuro che i miei propositi
di semplicità e chiarezza esposti all’inizio
mi sia poi riuscito di rispettarli del tutto;
avverto questo rischio, ma nello stesso tempo
mi rendo conto che al momento non sono in
grado di far meglio. Inoltre il libretto
è inopinatamente cresciuto di volume, diventando
quasi un libro, e ad uno che non scrive di
mestiere succede che ogni volta che rilegge
apporta correzioni, per cui alla fine subentra
una certa stanchezza per un compito che sembra
interminabile e ad un certo momento si decide
di chiudere. Il rivolgersi ad un lettore
immaginario tradisce la speranza che la bottiglia
col mio messaggio approdi a qualche spiaggia
e che qualcuno leggerà queste pagine. Credo
di averci messo dentro quanto basta perché
il generoso lettore che ha avuto la pazienza
di seguirmi fin qui abbia capito sufficientemente
lo scenario che il DAR propone e se ne sarà
rimasto deluso, o addirittura penserà che
sia un cumulo di sciocchezze, pazienza! Il
fatto è che queste sciocchezze lastricano
la strada sulla quale cammino ormai da molti
anni e penso proprio che nessun insulto potrebbe
farmi cambiar strada.
Il confine che mi sono posto è stato
quello di trattare soltanto gli argomenti
che hanno buone probabilità di essere
compresi e valutati con la ragione o almeno con un sano buon senso. Al
paragrafo 7.3 abbiamo trattato dell’aiterialità
con una certa ampiezza e
tuttavia mi corre il dovere di dire ancora
qualcosa sull’aiteria. So
però bene che un conto è accennare a ciò
che sta oltre il confine della
materialità e un conto è metterci i piedi
dentro. Già, perché il terreno qui
non è più solido ma un polvere soffice e
impalpabile che solleva nuvole e su
queste nuvole a volte inaspettatamente ci
si scopre seduti e si viene presi da
un po’ di vertigine.
Allora facciamo un passo avanti e
cerchiamo di delineare una possibile natura
dell’aiteria, di questa realtà
nel definire la quale abbiamo dovuto fare
un notevole ricorso all’immaginazione,
ma che tuttavia abbiamo ritenuto così importante
da costituire, insieme con la materia,
il fondamento di una concezione del mondo e di una relativa filosofia
che potrebbero aprire un nuovo e promettente
orizzonte antropico. Vi è un’unica realtà che ci sia
dato conoscere ed è la materia, poiché di essa siamo fatti, da essa
siamo circondati e in essa compresi; tutto
il resto ci è ignoto. Ma
dell’ignoto una certa parte, prima o poi, la conosceremo,
quasi
certamente quella “materia oscura” che costituisce
il 90% dell’universo, ma ve
ne sono altre che invece molto probabilmente
non conosceremo mai, e sono quelle
relative all’aiteria. Quindi il problema gnoseologico che si pone
è quello di stabilire se dobbiamo ritenere
inesistente ciò di cui non ci è data
conoscenza o se si possa ritenere sufficiente
intuirlo per decretarne la
realtà. Abbiamo già risposto ripetutamente
a questa domanda, asserendo che
riteniamo l’intuizione intellettiva deve essere considerata un agente
sufficientemente credibile quale rilevatore
dell’esistenza di un ente come
di una pluralità di enti non conoscibili;
ciò che sono appunto gli aiteri,
nominati collettivamente come aiteria.
Dopo esserci lungamente intrattenuti a
trattare delle caratteristiche e degli attributi
dell’aiteria dobbiamo
però ora tentare di corredarla di qualche
determinazione in più e a questo
proposito come abbiamo anticipato (conoscendo
noi soltanto la materia)
dovremo procedere con un criterio analogico;
ma prima bisognerà anche stabilire
entro quali limiti tale criterio sia applicabile
e legittimo. Cominceremo col
dire che ogni reale (a meno di considerarlo eterno) deve avere
un’origine e che inoltre deve produrre sul
soggetto che lo prende in
considerazione un’effettualità reale certa, vale a dire che gli effetti
da esso prodotti non debbono essere casuali,
isolati o con caratteri di
eccezionalità, dovendo rispondere ad alcuni
criteri, che nel nostro caso sono
quelli già esposti al paragrafo 3.1, vale
a dire l’universalità, la ripetibilità, la costanza, e la normalità.
Aggiungiamo che non si possono escludere
realtà sprovviste di queste
caratteristiche, ma che siamo costretti a
lasciarle da parte, perché dobbiamo
definire il campo del quale ci stiamo occupando
tracciando dei confini precisi.
Abbiamo visto che le esperienze aiteriali
(in quanto comuni a tutti gli uomini)
sono entro questi confini, mentre non lo
sono, per esempio, le esperienze
extrasensoriali del cosidetto paranormale,
i quali presentano sempre caratteri
di eccezionalità.
Abbiamo detto che quando viene posto un reale,
ed è stata definita la sua effettualità, risulta inevitabile porsi delle domande
circa la sua origine. Ora, se pure questo
elemento non è fondamentale per una filosofia
dell’esistenza come il DAR (e che in quanto
tale privilegia l’aspetto pragmatico rispetto
a quello teorico) cercheremo comunque di
proporre un’ipotesi. Ma preliminarmente dobbiamo
porci la seguente domanda: si può pensare
che l’aiteria sia presente in tutto l’universo o solamente
sulla
Terra? A favore della prima ipotesi sta il
fatto che, essendo gli enti
aiteriali irriducibili alla materia, sembrerebbe corretto
pensare che i pneumi (i loro supposti costituenti primi) si siano
originati separatamente da essa. Siccome
però è verosimilmente col big-bang che
è nata la materia (e con essa lo spazio-tempo), se l’aiteria fosse
nata dopo, bisognerebbe pensare che dalla
materia derivi, il ché abbiamo
escluso in virtù della sua evidente irriducibilità
ad essa. Restano
allora due possibilità: o l’aiteria preesiste alla materia (ma in
tal caso sorge il problema di quando e come
essa sia diventata compresente e
coestesa con essa) oppure essa si è originata
nel big-bang contemporaneamente
alla materia e in tal caso essa forse ha avuto un’evoluzione
“sua
propria” ma insieme o accanto a quella della
materia, seguendone quindi le
varie fasi evolutive, compresa l’espansione
tuttora in corso. Precisiamo
tuttavia subito che in tutte queste fasi
primordiali non si può pensare
all’esistenza di aiteri, ma verosimilmente solamente a pneumi in
qualche loro denotazione primitiva, che non
sappiamo quanto rapportabile a
quella posteriore ed odierna degli aiteri che si offrono alla nostra intuizione.
Resta da vedere se i primitivi pneumi sono pensabili come già provvisti
di caratteri o ancora privi di essi, ma questo è un dettaglio
piuttosto
irrilevante.
Ci pare per contro importante avanzare
un’ipotesi circa la funzione delle ideme umane sull’evoluzione dell’aiteria,
completando quanto già esposto al paragrafo
7.3. Da quanto è stato detto
dobbiamo pensarle come delle macchine biologiche
elaboratici di pneumi già
provvisti di caratteri, poiché dobbiamo escludere che la materiale
idema
abbia qualche possibilità di agire sulla
sostanza dell’aiteria
determinandone i suoi elementi, bensì soltanto quella di determinare nuovi
stati di aggregazione e configurazione di
essi.
Dopo le riflessioni appena fatte ci
troviamo ormai nella condizione di formulare
ragionevolmente un’ipotesi sulla
nascita dell’aiteria nei termini seguenti: essa è probabilmente
nata
contemporaneamente alla materia e ne ha accompagnato l’evoluzione fino
alla situazione attuale in una forma elementare
che abbiamo immaginato
costituita da pneumi già “caratterizzati” e diffusi (uniformemente
o
meno) ai margini della materia. Non siamo in grado di spingerci
oltre per chiederci se gli aiteri (in quanto “qualitativamente”
determinati) preesistano all’intervento su
di essi dell’idema umana o
no, ma possiamo semplicemente ritenere che
quelli che esistono al margine di
cose definite, esseri viventi, insiemi o
contesti ambientali, siano quelli
probabilmente elaborati dalle ideme umane attraverso i millenni e che
questi caratterizzino tutti gli ecosistemi
in cui l’uomo è presente. Potremmo
ancora aggiungere che nelle attuali condizioni
della nostra specie sulla Terra,
e diffusa praticamente quasi ovunque, una
sovrapposizione di azioni e
retroazioni tra ideme ed aiteri abbia dato luogo a una
complessità aiteriale con la quale quasi
ogni ente materiale definito e
definibile va ritenuto avvolto da aiteri, singoli o complessi,
che si offrono alla nostra intuizione e determinano
le esperienze idemali
relative alle cinque categorie analogiche (che abbiamo riferito ad
altrettanti caratteri dell’aiteria).
Possiamo allora tirare le somme e
immaginare un universo in cui siano presenti
pneumi allo stato
elementare diffusi in qualche modo. Sulla
Terra essi sono invece sicuramente
presenti sia in forma elementare che in forma
evoluta ed elaborata per
costituire gli aiteri, semplici o complessi, individuali (idioaiteri umani
e di altre specie), cosali, insiemali, locali,
ambientali, ecc.). Lo scenario
che abbiamo così delineato ci fa immaginare
una situazione per la quale, scelto
a caso un ambiente qualsiasi, possiamo pensarlo
saturo di aiteri di
vario tipo. Tutti a disposizione della nostra
idema, che può percepirli
forse anche senza introiettarli, che su di
essi può agire (forse) lasciandoli al
margine degli enti materiali che accompagnano, avendo loro apportato
qualche trasformazione o modifica a seconda
della superficialità o profondità
colle quali si è verificato il rapporto,
in un evento considerato, tra
l’aiterio afferente l’ente materiale e l’idema. Come abbiamo già accennato ci troveremmo
qui
in una situazione simile a quella del primitivo
animismo, che sarebbe in
tal caso una straordinaria anticipazione
(in forma prevalentemente psichica e
di tipo emotivo) degli eventi che l’uomo contemporaneo esperisce
comunemente nelle forme delineate dalle categorie analogiche e che soltanto ora il DAR ha provato a studiare.
[163] Per edonismo si intende una filosofia di vita che
induce alla pura ricerca del piacere in ogni
sua forma e che identifica con
esso il bene assoluto.
[164] Il problema della “durata” in senso filosofico
risale ad
Aristotile. Nel XVII secolo se ne sono occupati
Cartesio, Locke e Leibniz. In
tempi più recenti Bergson (L’evoluzione creatrice – 1907) ha definito il
tempo oggettivo come “spazializzato”, contrapponendo
ad esso il tempo
“vissuto”, come tempo realmente percepito
nella coscienza.
[165] Da questo punto di vista ciò che avviene
è esattamente
il contrario di ciò che pensava Kant, il
quale aveva definito il comico come
l’effetto di un’attesa “che si risolve nel
nulla”.
[166] A questo proposito è significativo che
Aristotile, uomo di mondo e rispettoso di
leggi e tradizioni, considerasse il comico
«qualcosa di sbagliato e di brutto che non
procura né dolore né danno» (Poetica,
5, 1449 a, 32 e sgg.)
[167] Potremmo definire la “rappresentazione”
semplicemente
come la “forma” percepibile ed intelligibile
di un elemento della realtà
antropica.
[168] Non sfuggirà
qualche analogia con la tesi di Jean Baudrillard
secondo il quale si ride del
comico in quanto con esso si verifica un
dissolvimento del “senso”. In altre
parole il comico sarebbe effetto dell’apparire
del “non-senso”.
[169] Kant definisce il riso «un’affezione che
deriva da
un’aspettativa tesa, la quale d’un tratto
si risolve nel nulla» Critica del
Giudizio, § 54)
[170] Henry Bergson in Le rire (1900) conduce un’estesa
analisi del comico, visto come un importante
fenomeno sociale, che si oppone
alla meccanizzazione della vita quale stimolo
delle facoltà immaginative e
creative.
[171] Freud tratta del comico ne Il motto di spirito del
1905 e in L’umorismo del 1927. Sostanzialmente il suo punto di
vista è
che il riso è piacevole perché con esso si
recupera l propria infantilità
perduta (per F. l’infanzia è l’epoca in cui
si vive con minima spesa di energia
psichica) e che si ride quando si gode di
un risparmio di energia psichica.
Infatti, noi, nel rapportarci al mondo, dobbiamo
spendere energia, ma quando ci
troviamo improvvisamente in una situazione
o di fronte a qualcosa che rende
superfluo tale dispendio l’energia così risparmiata
viene scaricata col riso.
[172] Per Jean Baudrillard «il godimento è l’emorragia
del valore»
ed esso c’è quando si verifica la «liberazione
del non-senso », dove nulla più
si risparmia ma tutto si disperde nel ridere,
che assume anche il carattere di
uno “scambio simbolico” con gli altri, poiché,
secondo B., si ride sempre in
compagnia.
[173] Georges Bataille considera il riso quasi
un’esperienza
mistica, simile all’estasi, all’erotismo,
al sacrificio, all’ubbriachezza, ecc.
Tutte esperienze che B. qualifica come “esperienze
interiori”, nelle quali
domina lo sperpero di ogni riserva di logica
e di ricchezza inutilmente
accumulate e che sono pertanto destinate
alla loro dilapidazione.
[174] Nella filosofia hegeliana con Aufhebung si
intende un concetto assai complesso, che
significa nello stesso tempo
“conservare” e “mettere fine”. Essi vengono
posti in “rapporto dialettico” e
nella reciproca negazione non si annullano,
ma si ritrovano in un unità di
livello superiore, resa appunto con la parola
A..