(Uno sguardo oltre l’orizzonte esistentivo)
7.1) Dualismo reale e Materialismo.
Dopo esserci addentrati abbastanza nel DAR
da averne delineata la cornice generale e
alcuni luoghi importanti vorrei lanciarmi
in una considerazione ottimistica, che spero
trovi qualche condivisione nel lettore che
mi ha seguito fin qui. L’apparire della funzione
idemale e la conseguente intuizione dell’aiteria potrebbe stato un fatto così
straordinario e rivoluzionario per l’homo sapiens che è persino difficile coglierne esaustivamente
i contorni. L’idema infatti non ha soltanto aperto l’orizzonte
che ha permesso ad
una certa categoria di esseri viventi di
uscire dal regno della necessità e consentir loro di intravedere un ambito completamente
diverso e sottratto alle leggi della materia, ma li ha soprattutto resi
consapevoli che quest’apertura, per ora realizzata
con l’aiteria, è
teoricamente possibile anche con altri tipi
di realtà. Ciò significa, in
termini pluralistici, che diventa legittima
l’ipotesi che con ulteriori passi
evolutivi sia possibile per l’homo sapiens (o per altre specie più
evolute) andare oltre, accedendo ad orizzonti
oggi impensabili, forieri di
nuove e inimmaginabili esperienze. Ciò che
già l’idema attuale ci mette a disposizione da diversi
millenni sul piano
esperienziale non sembra di per se stesso
ulteriormente molto incrementabile a
breve termine. Ma se l’idema non ci promette per l’immediato
futuro nulla di particolarmente nuovo nondimeno
essa ci “annuncia” quegli
orizzonti ulteriori e diversi a cui abbiamo
accennato. Le generazioni a venire
potrebbero riuscire ad andare molto oltre
la realtà duale posta dal DAR e intraprendere percorsi
diversificati e profondi nell “irriducibile”
alla materia;
si tratti di ciò che qui abbiamo chiamato
aiteria od altro. Noi siamo la relativamente inconsapevole
avanguardia biologica
di uno straordinario superamento dei limiti
della necessità, verso altri sorprendenti ambiti probabilmente
per noi inconoscibili, ma realmente intuibili,
che amplierebbero l’orizzonte
pluralistico che abbiamo ipoteticamente posto.
Dopo aver fatto il mio proclama di
ottimismo devo però anche subito frenarlo
con un dovuto monito a me stesso e a
chi potrebbe eventualmente essere indotto
a seguirmi in questi orizzonti
ignoti: bisogna sforzarsi di restare sempre
coi piedi per terra, poiché,
entrando nel campo del non percepibile e
del non razionalizzabile, i rischi di
lasciarsi prender la mano dall’immaginazione
non sono pochi. Il fatto è che, a rigore,
“i piedi per terra” sono in
fondo coerenti solo con il materialismo e la sua rigida prospettiva, al quale, nella nostra trattazione, abbiamo
lanciato qualche frecciata non proprio benevola.
Con ciò non dobbiamo rimangiarci nulla e
non abbiamo niente di cui fare ammenda, ma
sarà nondimeno opportuno chiarire i rapporti
esistenti tra il DAR e il materialismo (che
abbiamo la presunzione di aver superato)
il quale (molto più di quanto si
pensi) è di esso fondamento e premessa ineludibile.
Dobbiamo ammettere senza mezzi termini che
il materialismo è l’unica visione “concreta”
(documentabile e verificabile) della realtà
percepibile ed intelligibile; esso appare
pertanto irrinunciabile, a
dispetto del fatto che se il suo
orizzonte gnoseologico risulti incompleto
e troppo schematico. Il materialismo costituisce allora l’unica weltanschauung nota che la ragione può ratificare senza riserve, quindi
esso rimane la miglior
espressione di razionalismo monistico.
Se non si vuole lasciare questo solido e sicuro
faro di riferimento nel
nostro navigare verso orizzonti nuovi dobbiamo
sempre verificare che la ragione non venga messa in un angolo e che rimanga
l’irrinunciabile
guida dei nostri viaggi mentali, anche quando
saremo costretti a concedere
qualche spazio all’immaginazione.
Tuttavia il problema è quello già rilevato:
il materialismo è valido entro i limiti del suo
ambito di riferimento (la materia),
ma diventa riduttivo e inaffidabile quando
pretende di applicare i suoi
concetti a ciò che è con tutta evidenza “irriducibile”
alla materia stessa. Filosoficamente
parlando il materialismo dice il “vero” quanto indaga la
realtà percepibile e razionalizzabile, ma
quando liquida ciò che abbiamo
definito abmozioni come epifenomeni della “materia pensante” compie un abuso
che si ritorce contro
la stessa ragione, la quale (scusate
la metaforica personalizzazione) finisce
per giudicare “irragionevole” questa tesi.
La ragione è per sua
natura calcolatrice ed analitica, quindi
non può accontentarsi di
un’affermazione priva di un adeguato corredo
di elementi a sostegno, poiché
altrimenti l’affermazione rischia di assumere
i caratteri di un’acritica credenza [107],
ponendosi con ciò fuori dalla razionalità.
Se poi il materialismo “forza”
per esigenze dialettiche la “riduzione” alla
materia di esperienze “non-materiali” finisce per
“falsare” un
oggetto di indagine che è fuori della sua
portata e così facendo falsa anche se
stesso, invalidando le stesse premesse epistemologiche
che lo fondano.
Per capire di che cosa stiamo parlando
faremo qualche esempio concreto, il quale
andrà a completare quanto già esposto
con l’argomento logico e poi ripreso qua e là in vari altri
punti. Se è materialmente “reale” (e indubbiamente
lo è) un libro di poesie,
che è un oggetto costituito da una certa
quantità di carta e inchiostro, va
aggiunto che esso nel contempo il “prodotto”
idemale-intellettuale di un’individualità poetante (che lo
“produce” in quanto “suo” libro di poesie).
Perciò non si vede perché dovrebbe
essere reale il produttore e non il suo prodotto.
“Quel” libro (e non un altro)
esiste non tanto in quanto una certa quantità
di carta e inchiostro lo
costituiscono, ma soprattutto perché “contiene
e trasmette” una reale
“sostanza” poetica che il poeta ci ha messo
dentro. Allora, come può essere
considerata reale la carta, che non qualifica
quel libro (ma qualsiasi libro in
generale) e ritenuto invece “irreale” ciò
che lo qualifica specificamente come
“quel” libro di poesie che viene preso in
esame? Eppure questo è proprio ciò
che sostiene in fondo il materialismo,
il quale si basa sul fatto che il prodotto
materiale preesiste e può
sopravvivere al produttore, che in un certo
senso “si aggiunge” alla materia che è l’elemento fondante l’oggetto. All’elemento
poetico che
caratterizza il libro (per chiunque lo fruisca
come tale) il materialismo riconosce sì effettualità ma nessuna sostanzialità reale; quindi la
“poeticità” assume soltanto i caratteri della
precarietà emozionale e la
transitorietà dell’epifenomeno. Invece
è esattamente il contrario, poiché “quel”
libro potrà anche andare al macero o
a fuoco ma innumerevoli altre copie di esso
esistono e potranno venir stampate
(a testimonianza della “realtà” extrafisica
dei testi che raccoglie) ed esso
sopravviverà in altre copie (cartacee, su
disco o semplicemente nella memoria
di qualcuno) alla distruzione della materia
che lo supporta.
La “riduzione” del libro a carta e
inchiostro è un’operazione concettuale che
appare visibilmente assurda e
persino irrazionale, poiché implica la tesi
che il libro sia privo di vera qualità indipendente dalla materia
con la quale si offre alla fruizione e che
pertanto è “riducibile” ad una
generale e pura quantità materiale, costituita dalla somma
delle quantità che lo hanno reso possibile (carta, inchiostro,
filo,
colla, ecc.). La conseguenza è che al libro
viene negata la qualità che
lo caratterizza e lo rende differente da
qualsiasi altro libro. Su tale base
concettuale materialistica la realtà di un
manuale di chimica è esattamente
quella di una qualsiasi edizione della Divina
Commedia delle stesse dimensioni
e caratteristiche fisiche.
Per quanto sopraesposto ci permettiamo allora
di avanzare l’ipotesi che il DAR si possa
anche qualificare come una forma di “post-materialismo”,
nella quale, riconosciuta la validità dell’interpretazione
materialistica della maggior parte delle
nostre “basilari” esperienze di vita, si
delimita poi il campo con un “di qua” e un
“di là” dai confini della materia. Ciò rende evidente che l’attendibilità
dell’interpretazione materialistica della
realtà si concretizza e si qualifica come “vera”
proprio e
soltanto se non esorbita arbitrariamente
da ciò che lo concerne, vale a dire la
materia stessa e nulla più. Allora, posta correttamente,
l’interpretazione
materialistica, proprio nell’autolimitarsi
e nell’ammettere la possibilità che
esistano nell’esperienza dell’uomo momenti
di “estraneità” alla materia
e sui quali esso non ha nulla da dire, cessa
di essere un atteggiamento
filosofico rigido (e qualche volta ideologico
e dogmatico) e diventa il
fondamento di un’esplorazione della realtà
irriducibile alla materia.
7.2) Materialità: realtà o illusione?
Nel paragrafo 3.1 nel chiederci “Ma che
cos’è la realtà?” avevamo cercato di definire
i criteri che ci permettono
convenzionalmente di attribuire caratteristiche
irrinunciabili affinché un
oggetto, un fatto o un’esperienza possano
essere legittimamente essere definiti
reali. L’intento era soprattutto quello di
porre a priori delle “regole di realtà”
comuni sia alle esperienze propriamente materiali
sia a quelle “non-materiali”.
La nostra preoccupazione allora era quella
di legittimare l’attribuzione di
realtà alle esperienze mentali sprovviste
di alcuni dei caratteri propri della
realtà materiale, che per lo più ci si offre
provvista di definibilità,
determinabilità, calcolabilità, analizzabilità,
verificabilità, peso, volume,
quiete o movimento, temperatura, solidità,
collocazione spaziale e temporale,
durezza, composizione chimica, eventuale
riproducibilità, permanenza, ecc.ecc.
Ma nell’approfondimento dell’argomento della
realtà (ricordiamo che il DAR lo adotta in sostituzione
di verità) ci andiamo accorgendo che le
“cose” e i fatti comunemente ritenuti reali
su basi percezionali ad un’attenta
analisi presentano dei caratteri fisici che
in qualche caso contraddicono
clamorosamente la “realtà” attribuita dai
nostri sensi agli oggetti delle
nostre percezioni, presentando in qualche
caso le caratteristiche della pura
“apparenza” e in altri quello della pura
“convenzione” numerica.
Succede abbastanza spesso in campo ateo che
un giusto materialismo di fondo si
coniughi con un supposto razionalismo rigido e assoluto, a cui fa
puntualmente eco un cieco scientismo.[108] Tentazioni di questo genere, storicamente
verificate e puntualmente ricorrenti, sfociano
talvolta proprio nel loro
opposto, per cui un’aprioristica e acritica
“fede nella scienza” assume spesso
coloriture quasi mistiche di sotterraneo
irrazionalismo, le quali, come
storicamente si è visto col positivismo di Comte, possono addirittura
sfociare in vere e proprie derive misticheggianti.[109]
Correlato a ciò si incontra, quasi sempre,
l’emergere di un problema di “definibilità”
del campo delle scienza, dei suoi
limiti e dei suoi arbitrî nel creare “modelli”
interpretativi non
necessariamente “veri”, ma il cui valore
sta nel “funzionare” dal punto di
vista conoscitivo in maniera adeguata ai
fini.
Quindi quei modelli sono “utili” (se non
indispensabili) per il progredire
della ricerca, ma non necessariamente basati
sul background della realtà nota e
abbastanza spesso mere costruzioni immagifiche
di ciò che si rivela per il
momento inconoscibile.
Quando la scienza, nell’esplorazione di
nuovo orizzonti, si imbatte nell’assenza
di dati certi rinuncia a “definire” e
si esercita in un lavoro immaginativo che
spesso “crea” dei modelli basati sull
“ammettiamo che...” o sul “se fosse...allora..”
o “potrebbe darsi...” che non
rispondono a criteri scientifici rigorosi,
ma che sono un pò lavori di
progettazione misti a un a certa dose di
bricolaggio. Se si tiene poi conto che
la scienza contemporanea è ormai diventata
una generalizzata “matematica
applicata”, dove l’elaborazione numerica
soltanto a posteriori (e neanche sempre)
trova rispondenza nella realtà, diventa estremamente
difficile pensare che i
procedimenti della scienza possano essere
assunti quali “verità” fattuali.
Quindi le teorie scientifiche, alle quali
si chiede soprattutto di
“funzionare”, possono benissimo diventare
il campo di un “immaginario”
compatibile con la realtà, il quale, senza rispecchiarla, la
“interpreti” matematicamente in modo da trovare
verifica e utilità nelle
applicazioni della tecnologia. In altre parole:
l’importante è per la scienza
esplorare l’ignoto e ridurlo a misura dell’intelligibilità
umana,
interpretandolo come fosse “roba nostra”,
mentre nella realtà come esso sia “in
sé” forse l’uomo non lo potrà mai sapere.
Si sa come molto spesso gli scienziati,
nell’elaborazione di una teoria, partano
dal presupposto che la realtà
fondamentale debba essere “semplice” e che
quando essa offre di sé un’immagine
troppo complessa ritengono che ci sia “qualcosa
che non va” e che ciò sia
dovuto all’incapacità di “leggerla” adeguatamente.
Questo fa sì che lo
scienziato spesso si preoccupi anche dell
“eleganza” matematica della sua
teoria. Non ci dobbiamo quindi stupire quando
sentiamo parlare di “bella” ipotesi, di “bella” tesi, di
“bella” teoria o di “bella” formula. Il senso
estetico degli scienziati
sembrerebbe fuori posto nell’indagine scientifica,
eppure ad esso (è
sicuramente il caso di Einstein come di molti
altri) qualcosa devono certe
straordinarie intuizioni sulla realtà dell’universo.
Recentemente un libro
divulgativo sulla fisica delle superstringhe
è stato intitolato L’universo
elegante [110] e l’aggettivo qui non ha il solo scopo di
rendere accattivante al grande pubblico una
materia così difficile, ma rispecchia veramente
l’eleganza dell’idea di immaginare l’universo
come il frutto dei diversi modi di vibrazione
di infinitesimi filamenti di materia, concepiti
in analogia con le corde di uno strumento
musicale ad arco. Come le vibrazioni delle
corde di un violino creano le note musicali,
le superstringhe (o più semplicemente le
stringhe) vibrando creano le particelle elementari
della materia.[111]
La matematica è, almeno dal XV secolo,
considerata non solo fondamentale per l’indagine
scientifica, ma per molti
versi il linguaggio stesso dell’universo
materiale. Eppure è difficile dire se
alcuni numeri “chiave” nella nostra interpretazione
dell’universo siano “suoi”
o invece puramente “nostri”. La “quadratura”
del cerchio è forse stato il sogno
perduto degli antichi geometri, ma è stata
la sua “triangolarizzazione” a
permettere di ricavare quel pi-greco così
poco semplice, che è un pò il
passpartout di ogni transazione tra il retto
e il curvo del mondo visibile. Ma
come si può pensare che il numero 3,14159...possa
veramente appartenere
oggettivamente alla struttura di un universo
semplice? Esso è con tutta
evidenza uno strumento umano per interpretare
l’universo visibile, ma esso
concerne i nostri calcoli e la nostra indagine,
non l’universo in sé. E questi
numeri complessi e incomprensibili, vecchi
e nuovi, sono numerosissimi (almeno
tutte le costanti della fisica) e per lo
più privi di rapporto tra loro e
irriferibili a una struttura definita ed
omogenea del cosmo. Allora diventa
necessario abbandonare la convinzione che
la “verità” sul mondo e sulla materia
passi soltanto attraverso i numeri e ammettere
che la scienza non può essere
ritenuta in grado di spiegare “matematicamente”
tutti gli aspetti esperibili
dell’universo. Infatti, noi stiamo “costruendo”
con la scienza un universo
materiale e matematico coerente e intelligibile
“per noi”, ma nulla più.
Soltanto in questo modo e in questa forma
esso risulta per noi comprensibile,
indagabile e manipolabile. La nostra interpretazione
matematica dell’universo è
certamente corretta e “funzionante” e noi
potremo continuare ad accrescere “in
estensione” le nostre conoscenze per mezzo
di formule alfanumeriche, ma ciò non
ci assicura di poterlo nello stesso modo
indagare “in profondità”.
Ma veniamo ora all’argomento che titola
questo paragrafo e vediamo nel dettaglio
quanto delle nostre idee “correnti”
sui diversi aspetti dell’universo visibile
risponda alla realtà o sia
incoerente con essa al punto da diventare
illusorio. Relativamente al campo
della determinabilità ci imbattiamo subito
in una prima difficoltà quando si
cerchi di indagare il “molto grande” o il
“molto piccolo”, nel primo caso
perché esso è (ancora) inaccessibile, nel
secondo perché esso è indeterminato.
Nel caso del molto grande il problema è rappresentato
dalle distanze, come dire
che se un dio avesse creato l’universo, tanto
per cominciare non l’avrebbe
fatto per nulla “a misura d’uomo”, dal momento
che nessun esploratore
(quand’anche viaggiasse alla velocità della
luce) giungerebbe ai limiti
dell’universo per vedere se c’è qualcosa
“fuori”. Nel mondo subatomico invece
il problema è assai diverso, perché i suoi
costituenti si presentano a noi in
forme precarie e mutevoli, delle quali si
riesce a volte a cogliere solo
qualche traccia, a volte qualche caratteristica,
senza però mai avere la
possibilità di determinarne contemporaneamente
il moto o la posizione e quindi
collocarli spazialmente. Su questo argomento,
dalla fine degli anni ’20, quando
la meccanica quantistica ha cominciato a conquistare il panorama
della
fisica subatomica, si sono sentite anche
molte sciocchezze, come quella che le
particelle subatomiche sarebbero coscienti
di “essere osservate” dall’uomo e
che ciò le porterebbe ad assumere aspetti
diversi a seconda del “come” l’uomo
entra nel loro mondo [112.
In realtà, le particelle elementari, nella
loro indeterminatezza e instabilità,
costituiscono un territorio infido, anche
perché esse sembrano poter assumere
“a caso” una delle più o meno numerose determinazioni
in cui possono
presentarsi alla nostra osservazione, quindi
noi operiamo secondo criteri di
convenzionalità scientifica nel cercare che
esse ci rivelino “qualcosa di sé”
attraverso i nostri strumenti di osservazione.
Ora, se in molti casi
nell’osservazione del mondo subatomico “ciò
che si cerca è ciò che si trova”,
sembra ragionevole ritenere che ciò si verifichi
non già perché la particella
riveli ciò che è, ma soltanto perché noi
ne scopriamo denotazioni di essa
“leggibili” e coerenti con la nostra teoria
generale. Penetrando in un mondo
così indeterminato, probabilistico e in definitiva
puramente “possibile”, sembra
ragionevole pensare che ogni nostra intrusione
“materializzi” la particella
nella forma cercata o compatibile con le
nostre premesse e che ciò costituisca
un limite forse invalicabile della nostra
ricerca.
In campo macroscopico sembra invece che la
scienza ci abbia condotti molto più vicino
alla realtà dell’universo. Così il
tradizionale modo di considerare lo spazio
e il tempo (e quindi quello di
ritenere determinabile la collocazione spaziale
e temporale di ogni entità
reale) viene messo oggi in crisi dal concetto
di spazio-tempo della relatività
generale, dove il secondo si rivela soltanto
come un modo improprio di
considerare la curvatura del primo. In questo
caso vengono sovvertite dalla
scienza tutte le nostre percezioni del mondo
che ci circonda (che in quanto
tali concernono la realtà del vivere quotidiano)
e ci vediamo costretti ad
assumere un concetto del mondo che ci circonda
sicuramente più vero, ma in
contrasto col nostro modo “corporeo” di interagire
con esso.
Se dal
problema un pó astratto ma oggettivo della
definibilità e della determinabilità
si passa a quello più concreto della percezione
(o della “credenza”
percettiva?) di peso e volume noi uomini
della strada veniamo sempre colti
impreparati e ogni volta siamo vittime della
sorpresa quando veniamo richiamati
alla verità scintifica. E’ vero che tutti
impariamo fin da piccoli che se si
elimina l’attrito dell’aria una piuma e un
palla di piombo fatti cadere da un
tetto arrivano a terra nello stesso istante
(perché ciò che li fa cadere è la
forza di gravità) però noi continuiamo a
pensare che la piuma è “leggera” e la
pallina “pesante”, mentre la pesantezza è
in realtà la forza con cui la terra
“tira” in giù i due oggetti e che questa
è proporzionale alla massa. In quanto
al volume la questione è un pò più sottile.
Nella pentola di metallo o nella
caraffa di vetro che portiamo in tavola distinguiamo
il “pieno”del contenitore
e il “vuoto” del volume che racchiudono,
ma in realtà anche la solidità del
metallo e del vetro è per lo più “vuota”.
Infatti l’unica cosa veramente solida
è il nucleo dell’atomo, che è una massa di
piccolezza infinitesima rispetto
all’enormità dello spazio vuoto che la circonda,
in tale spazio fluttuano
elettroni dalla massa nulla o quasi, che
forse sarebbe meglio definire come
pure “onde di energia”. Il tutto degli atomi
poi sta insieme e non scoppia o
non collassa (e per ciò costituisce le cose
concrete e reali) soltanto per un
equilibrio di forze contrastanti, per cui
alla fine di solido in essi c’è
pochissimo e la solidità è unicamente il
nostro modo di definire ciò che la
pressione del nostro dito non trafigge o
non deforma. Se poi passiamo ai
materiali porosi la faccenda è ancora più
sorprendente. Il tavolo che noi
stracarichiamo a volte di chili di libri
o su cui saliamo per cambiare una
lampadina è due volte vuoto; prima perché
il legno in quanto poroso è pieno
d’aria e poi perché gli atomi che compongono
i suoi costituenti (la lignina e
la cellulosa) sono tra i più leggeri in natura
e pertanto “più vuoti”. E in
definitiva, nel definire pesi assoluti e
pesi specifici, tutte le nostre
operazioni si riducono perciò ad una questione
di astratta matematica. Quello
che “fa essere” le cose materiali non è la
“qualità” ma la “quantità”: il
piombo è “qualitativamente” assolutamente
identico all’azoto, quello che fa la
differenza è soltanto il numero di protoni
e neutroni del suo nucleo, che sono
molti di più del maggiore (e più leggero)
costituente dell’aria.
Anche i concetti di quiete o movimento sono
assolutamente relativi. Sempre restando agli
atomi a cui abbiamo accennato
sopra e a qualsiasi elemento appartengano,
che poi sono la “vera materia”
(perché il resto fa parte delle nostre definizioni,
se non delle nostre
illusioni), sono costituiti da componenti
ognuno dei quali è in moto perpetuo.
A parte gli elettroni che “girano” o meglio
“turbinano” intorno al nucleo è
proprio in questo, che parrebbe “la cosa
ferma”, dove ciò che in realtà lo
costituisce e lo fa essere (i quarks) hanno
un interminabile e curioso modo,
anzi modi (gli spin), di ruotare su se stessi.
Ma chi di noi si ricorda che la
terra viaggia nello spazio e che noi siamo
quindi su un veicolo sferico che
viaggia alla velocità da capogiro di 108.000
chilometri all’ora?
In questo ambito di considerazioni si
colloca anche la temperatura, la quale, considerata
con attenzione, nella sua
realtà sovverte anch’essa i nostri quotidiani
modi di intenderla. Infatti essa
è determinata soltanto da una questione di
quiete o di moto delle molecole che
costituiscono il corpo o l’ambiente considerato.
La “freddezza” o la “caldezza”
dell’acqua con cui ci laviamo non sono delle
qualità, ma semplicemente il
risultato della velocità con cui le molecole
del fluido si muovono. Nel caso
dei gas poi si arriva col riscaldamento ai
livelli parossistici di un moto
velocissimo e vorticoso, dove le molecole
corrono come impazzite scontrandosi e
schizzando da una parte all’altra: eppure
tutto questo nella nostra percezione
è molto semplicemente soltanto “aria calda
ferma”.
Le considerazioni di questo genere
potrebbero continuare a lungo, ma il discorso
diventerebbe pedante e preferisco
fermarmi qui. Quel che mi preme rilevare
che in un contesto esistentivo
materialistico, nel quale comunemente si
ritengono più reali la carta e
l’inchiostro costituenti materialmente il
libro di poesia che teniamo tra le
mani rispetto alle emozioni che ci dà il
fluire dei versi che leggiamo, la
tentazione di dire che “in realtà” è probabilmente
vero proprio il contrario è
molto forte e forse non del tutto ingiustificata.
7.3)
Aiterialità: illusione o realtà?
Dopo la chiusa un po’ provocatoria del
precedente paragrafo mi corre l’obbligo di
non differire ulteriormente il
discorso sull’aiterialità, che fin’ora ho
posto in modo un po’ vago e che ora
dovrò accingermi a trattare adeguatamente.
Sono consapevole di entrare nel
campo dell’incerto e dell’opinabile e quindi
non posso evitare di richiamare il
mio preventivo mettere le mani avanti esposto
in Premessa (una sorta di
furbesca captatio benevolentiae?), e dopo di ché…scoprire le carte.
Nell’esporre al paragrafo 2.5 l’argomento osservazionale-percettivo avevamo un po’ radicalizzato il problema;
nella vita quotidiana e persino nella prassi
scientifica molto spesso le considerazioni
oggettive su singoli enti reali o su insiemi
di essi non sono poi così nettamente disgiunte
da quelle estetico-affettive, che sono per
contro sempre del tutto soggettive. Anzi,
molto spesso è proprio la conoscenza degli
aspetti strutturali e funzionali più nascosti
all’occhio e alla percezione che fanno nascere
(gnoreticamente) l’amore per l’oggetto delle
proprie ricerche. Ciò significa che lo scienziato
ha in realtà quasi sempre un approccio “sintetico”
ad un oggetto d’indagine, che è nel contempo
oggetto d’amore e oggetto di studio; quindi,
secondo le tesi del DAR, portatore di denotazioni
materiali ma anche di stimoli che non sono
riducibili alla materia e che
abbiamo riferito alla misteriosa aiteria. Il problema che con ciò si
pone è il seguente: se “in realtà” (o almeno
per lo più) materialità e
aiterialità si danno insieme nella “prensione”
della realtà, quale
legittimità ha il considerare la supposta
componente aiteriale di un oggetto
“sostanzialmente” disgiunta dalla materia che lo fonda e non invece
coerente con essa? Ed inoltre: dove sta e
come si pone l’aiterio di un
oggetto, di un insieme di essi, di una situazione,
di un fatto rispetto alla
loro fisicità e da che cosa esso può derivare?
Per cercare di rispondere a queste domande
possiamo ritornare all’esempio del libro
di poesia trattato nel paragrafo 7.1,
oppure risalire agli argomenti e ai loro correlati esposti nella Parte
Prima, ma dobbiamo anche trovare risposte
non più generiche ma puntuali e
chiare, sia pur con la consapevolezza che
più procediamo oltre e più “i piedi
per terra” diventa difficile tenerli. Avevamo
detto che il nostro approccio
alla realtà corre sempre su un binario principale (quello
della
materialità) e su uno secondario, ma molto
affascinante e importante, (quello
dell’aiterialità) e che su questo incontriamo
delle entità non materiali,
impercepibili e solo intuibili, che abbiamo
chiamato aiteri, i quali, secondo il DAR, starebbero al margine dell’entità materiale
considerata. Avevamo rilevato che
dobbiamo ritenere reali gli aiteri (quali elementi dell’aiteria)
poiché essi sono intuibili attraverso le
abmozioni, e riferirci
agli effetti che essi producono sul nostro
sistema mentale, nel quale avevamo
identificato una funzione speciale, l’idema, che come un’antenna
percepisce l “irriducibile” alla materia, lo riceve, lo elabora e lo
restituisce come “forma” di sé. Adesso per
continuare a sostenere che ogni ente
della realtà è avvolto da un aiterio bisogna decidersi a
definirlo nella sua genesi.
Avevamo anche supposto che l’ambito
aiteriale fosse costituito da una sorta di
costituenti primari ed originari che
avevamo chiamato pneumi. Confermiamo questa ipotesi e diciamo che,
a
partire da essa, siamo costretti ad immaginare
i pneumi in due soli
modi: o indifferenziati tra loro e contenenti
“tutti” i caratteri aiteriali,
oppure diversificati e quindi potenzialmente
in grado di dare origine ad aiteri
rispondenti soltanto ad uno o più caratteri (ma in ogni caso non a
tutti). Lasceremo in sospeso questa
questione in quanto irrilevante, mentre è
invece importante chiederci come sia
possibile che dai supposti pneumi (che sarebbero aiterialità pura e
quindi del tutto “estranei” alla materia) si potrebbe passare agli aiteri,
i quali (in un certo senso) “aderirebbero”
alle entità materiali rendendole
“sensibili” alla nostra idema. La risposta più plausibile sembra quella
che segue: non si può pensare che i pneumi spontaneamente si aggreghino
per costituire gli aiteri “modellandosi” sulle entità materiali, ma
bisogna pensare ad un intervento esterno
affinché ciò avvenga. Infatti, avendo
supposto l’aiteria come una modalità dell’essere relativamente
stabile, non sembra appropriato immaginare
che i pneumi diventino
dinamici, aggregandosi per formare nuove
entità aiteriali. Ma se i pneumi si
modificano o si aggregano per cause esterne bisogna ipotizzare delle
forze interne all’ambito aiteriale che agiscano in tal senso. Ma il
concetto di forza appartiene
all’ambito della materia e pare quindi non pertinente all’aiteria.
Sembra allora plausibile immaginare che sia
proprio l’idema dell’homo
sapiens, quale avanguardia
biologica sul versante dell’aiteria, ad agire in tal senso e che essa,
dal momento in cui il primo uomo ha potuto
attivarla, abbia cominciato a
sintetizzare pneumi producendo aiteri. Utilizzando un criterio
analogico rispetto alla materia (della quale abbiamo conoscenza) abbiamo
avanzato una tesi sulla formazione degli
elementi dell’aiteria (che non conosciamo) coi quali abbiamo un
rapporto “effettuale” e quindi “reale”. Tale
operazione è legittima? Secondo me è legittima
nella misura in cui può esserlo la nostra
tesi di fondo. Ci troviamo pertanto al punto
cruciale in cui dovremo decidere se buttare
il DAR come pura spazzatura intellettuale
o come ipotesi di ricerca degna di essere
sviluppata.
A nostro favore non abbiamo uno straccio
di documentazione reale o di verifica, ma
soltanto gli effetti (questi
sì inconfutabili) che un “qualchecosa” di
non-materiale (analogico ai caratteri
alfa, beta, gamma, delta ed epsilon che avevamo
ipotizzato come da noi intuibili) produce
nella nostra vita corrente, sotto forma di
emozioni particolari (le abmozioni) non razionalmente riconducibili a cause
materiali. Se non vogliamo pensare che la
nostra coscienza, il nostro intelletto
e la nostra ragione (che supponiamo ci dicano il “vero” circa
la materia)
ci ingannino, dobbiamo pensare che questo
“qualchecosa” (che abbiamo chiamato
arbitrariamente aiteria) sia assolutamente “reale”, che “abbia
esistenza” (ovvero effettualità) e che non sia assimilabile e
riducibile in alcun modo alla materia, i cui effetti fisici (attraverso
le sue forze e i suoi enti) danno luogo a
realtà di carattere completamente
diverso.
Avevamo cominciato col dire che l’idema
attraverso la propria formazione contemporaneamente formi un idioaiterio
(aiterio di un’individualità) ed ora ci vediamo indotti a
ritenere che l’idema faccia molto di più, producendo e “incollando”
alle
cose degli aiteri che le “qualificano” non più soltanto come
entità materiali,
ma come entità complesse e portatrici di
caratteristiche sia fisiche che
extrafisiche. Se questa tesi è legittima
siamo portati a pensare che sia le
cose naturali (che preesistono a noi) sia
le cose artificiali (da noi
prodotte), nella misura in cui entrano in
relazione con l’idema di un
uomo che le investe di sentimento, si “rivestano”
di un aiterio che le
concerne. Che i nostri lontani antenati (prima
di venire corrotti dalle
religioni) immaginando che ogni cosa avesse
un “anima” e che l’insieme costituisse
un’anima globale o “del mondo” avessero già
intuito ciò che noi stiamo
ipotizzando soltanto ora?
Abbiamo così delineato uno scenario in cui
le cose del mondo che si offrono alla nostra
attenzione, fruizione ed uso non
sono soltanto come appaiono, ma nascondono
una seconda realtà, ad esse
aderente e tuttavia separata. Da ciò deriva
una sorta di divaricazione nella
nostra prensione della realtà e di conseguenza la necessità di rivedere
le idee che abbiamo sul nostro cervello,
anzi, sulle nostre funzioni mentali,
poiché dobbiamo cercare di capire come sia
possibile che noi, fatti di materia,
possiamo accedere ad una realtà che con tutta
evidenza materiale non è. Abbiamo
così escogitato un dispositivo euristico
(il procedimento partitivo) e
fatto a fette la mente, ricavandone sei funzioni
analiticamente isolabili tra
le quali una (l’idema) che ha il compito di aprirci la porta su
un
particolare secondo ambito della realtà a noi accessibile .
Entità alla quale dobbiamo riconoscere una
sua sostanza effettuale,
poiché “agisce” su di noi, ma della quale
non sappiamo assolutamente nulla, per
il semplice fatto che essa è “fuori portata”
rispetto agli strumenti d’indagine
che la materia ci mette a disposizione. Adesso però dobbiamo
spiegare
come abbiamo scomposto la mente e come essa
sia poi ricomponibile nella realtà
del nostro esistere e se tutto questo marchingegno
funzioni oppure no. Siamo
così arrivati al momento di parlare di quel
procedimento partitivo attraverso
il quale (come la sorpresa nell’uovo di Pasqua!)
salta fuori l’idema.
7.4) Il procedimento partitivo.
Dopo aver assolto il gravoso compito di parlare
di ciò di cui “non si può sapere nulla” possiamo
cominciare finalmente ad entrare nella selva
dei singoli elementi del DAR, che avevamo
avanzato un po’ arditamente senza preparazione
e che possono aver creato un pò di vertigine
terminologica. Di fronte a un secolare panorama
dove esimi pensatori hanno sempre perseguito
l’omologazione e l’unificazione si sarà già
capito che io (che non credo nei “principi
primi” unitari né totalizzanti) perseguo
invece “stradalmente” la pluralità e la diversificazione.
E questo lo faccio in quanto (almeno così
a me pare) ciò per un indagine esistenziale
risulta in definitiva molto più realistico
che perseguire l’unificazione delle funzioni
del nostro sistema emotivo-cogitativo in
un’unità decisamente posticcia e poco sostenibile.
Con buona pace dell’onesto Occam, sì, qui
si “moltiplicano” gli enti! E lo si fa applicando
un piccolo metodo da
“bricolieri del pensiero”, al quale, poiché
un nome bisognava pur darglielo, ho
attribuito quello che sapete. In effetti,
il benevolo lettore che è arrivato
fin qui, dopo essersi sorbito la prima parte
di questo fitto libriciattolo si
sarà chiesto per l’ennesima volta perché
mai si sia trinciata la mente in
quattro organizzazioni e due infrastrutture. Ma, credetemi, non
si è trattato di un ulteriore “raptus pluralistico”,
bensì dell’utilizzo di un
criterio per l’approccio al sistema nervoso-encefalico
non di tipo fisiologico
(non ne avrei neppure la cultura) ma semplicemente
“induttivo-funzionale”.
Sulla base di tale approccio sono state individuate
(diciamo per
“condensazione” funzionale) delle virtuali
entità cerebrali (le ho chiamate organizzazioni
come avrei potuto anche
chiamarle “moduli” funzionali) che a fini
della nostra ricerca si prestano ad
essere considerate ed analizzate singolarmente.
Può darsi che ci sia molto di arbitrario
in questa partizione e certamente a qualcuno
si rizzeranno i capelli in testa,
perciò, se devo venire impallinato bisogna
pur che mi dia da fare per crearmi
un debole scudo. Tuttavia (scusate la presunzione),
con buona pace degli
scienziati a me pare che questo “macchinetta”
filosofica tutto sommato
“funzioni”, nel senso che ci permette di
focalizzare l’attenzione sulle
“direzioni” operative della mente, le quali,
sia pure a fronte di una “reale”
indistinguibilità strutturale, offrono nell’insieme
un panorama, forse un pò
semplicistico ma chiaro, sulla individuazione
dei processi intellettivi ed
emotivi. Esse infatti ci permettono di analizzare
i procedimenti del pensiero,
gli stati d’animo e le emozioni come dei
“prodotti” di funzioni distinte, con
caratteri relativamente identificabili che
li differenziano per gruppi.
Su questo terreno, d’altra parte, si
contano illustri precedenti, tra i quali
il più noto è forse quello freudiano
di affettare orizzontalmente la mente, per
evidenziarne strati nascosti che
stanno sotto ed altri più presenti alla coscienza
che stanno sopra. Uno strato
profondo (l’inconscio) che noi non conosciamo e non controlliamo,
dove
finiscono ricordi ed esperienze sgradevoli
(quindi rimosse [113]) al
punto da farlo sembrare una “spazzatura psichica”,
che vive sotto i pochi
centimetri di tappeto erboso e ben lavorato
della nostra coscienza vigile. Così
lo “scienziato” Freud, se ha voluto veramente
creare una metodica “funzionante”
per curare i disturbi psichici, si è dovuto
inventare una “partizione” che di
scientifico ha poco o nulla. Per venire poi
ai giorni nostri un altro esempio
abbastanza interessante di partizione è la
“mente modulare” dello psicologo
statunitense Jerry Fodor [114], il quale articola la mente in “moduli”
che vengono
posti in rapporto con analoghi elementi dell’intelligenza
artificiale. Questo
studioso pensa le funzioni mentali preposte
alla percezione come delle
strutture modulari specifiche e indipendenti
tra loro, funzionanti in modo
separato ed in base a vincoli operativi e
procedurali innati e specifici della mente
umana.
A questo punto però bisogna affrontare con
chiarezza il problema di un’apparente contraddizione
interna al nostro
discorso. Infatti, da un lato abbiamo negato
validità ad un atteggiamento
riduzionistico (che attribuisca operazioni
mentali “reali” alle funzioni così
isolate) e per altro verso abbiamo poi applicato
un criterio partitivo
arbitrario, nell’individuare tali funzioni
isolabili della mente, la quale
ovviamente funziona invece come un sistema
unitario. L’apparente contraddizione
emerge soltanto qualora non si compia preliminarmente
una distinzione tra
livelli interpretativi [115] delle strutture mentali, dove il primo livello,
che è
quello fisiologico (o neuronale-sinaptico),
si rivela assolutamente inadeguato
per un approccio cognitivo ad alcune funzioni
superiori. Le quali, peraltro,
non sono mai singolarmente distinguibili
nella pluri-funzionalità uniformemente
e costantemente presente del pensare (poiché
si presentano concadenti), ma sono soltanto analizzabili in riferimento
a “configurazioni”
mentali nelle quali emergano i loro caratteri,
distinti e separabili.
Andando oltre il discorso di chi, come
Paul Davies (nota 115), sostiene la necessità
di una lettura olistica e non
fisiologica della mente, si potrebbero individuare
tre livelli di
interpretazione di essa, che potremmo chiamare:
a) fisiologico, b) strutturale
e c) funzionale. Al primo livello a) la mente
non esiste in quanto tale, ma si
può parlare soltanto di cervello. Al secondo
b) la mente è una totalità
strutturale che può assumere nel tempo diverse
configurazioni funzionali
strettamente coordinate, per cui, a partire
da una “macchina” sola, si danno
“modi” di funzionare differenti e distinguibili.
Al terzo livello si opera
partitivamente un’analisi funzionale e “soltanto
ed esclusivamente a fini di
ricerca” si pongono ”parti” distinte di funzioni
mentali del tutto differenti.
I nostri sei fattori della mente si
pongono allora come elementi “esistentivi”
funzionali separati e distinti, che
se si vuole usare una similitudine culinaria
sono un pò come la frutta, le
verdure, i cereali, il pesce o la carne,
i quali vengono tutti distrutti nello
stomaco allo stesso modo per fabbricare quel
sangue che è l’alimento
“sintetico” del nostro corpo. Così i frutti
del lavoro della psiche,
della ragione, dell’intelletto, dell’idema, della memoria
e della coscienza vengono distrutti dall’esistenza in quel
“flusso”
pensante-senziente che alimenta la mente.
La quale però, considerata unicamente
quale sintesi olistica, risulterebbe un oggetto assolutamente misterioso
e indefinibile, di fronte al quale l'unica
opzione ragionevole sarebbe il
silenzio, mentre analizzato per parti funzionali
diventa un’unità strutturale
articolata e ricca di tutti quei significati
che la riflessione filosofica e
psicologica da sempre evidenzia.
D’altra parte, anche gli illustri
precedenti psicanalitici non è che avessero
molti elementi scientificamente
oggettivi a loro favore per elaborare quelle
meritorie teorie applicabili nella
prassi psicanalitica, le quali, tuttavia,
fuori dello stretto campo
terapeutico, non sono state esenti da arbitrî
(compresi quelli dello stesso
Freud) molto più “fantasiosi” dei nostri.
[116]. In effetti dalla psicanalisi il DAR ha
tratto numerosi spunti, anche se il suo obbiettivo
(esistenziale anziché sanitario) non è quello
di risolvere problemi di salute psichica,
ma semmai quelli di relazionare l’individualità al
mondo e alla vita e di trarne qualche utile
indicazione pratica per vivere nel
miglior modo possibile.
Ma, se nell’analizzare le funzioni
virtuali della mente col procedimento partitivo ci stiamo esponendo come
vittime sacrificali a feroci critiche è assai
probabile che nel trattare dei caratteri
dell’aiteria andrà molto peggio, in quanto addirittura
proporremo uno scenario
“aperto”, dove ognuno potrà decidere se togliere,
condensare o aggiungere
possibili frutti delle sue intuizioni personali
o semplicemente della sua immaginazione
al panorama aiteriale. D’altra parte, lo
scopo che ci siamo prefissi è proprio
quello di aprire una pista percorribile nella
selva di quell’ignoto
“necessariamente” sconosciuto e (purtroppo)
molto probabilmente inconoscibile
anche in avvenire per l’homo sapiens.
Non so se questa spiegazione sia risultata
soddisfacente, ma se non lo è subito spero
possa diventarlo quando questo
argomento sarà stato trattato nel dettaglio.
Per ora non mi resta quindi che
invitarvi ad aver pazienza e ad aspettare
ancora un poco, prima di decidere se
alla fine la ciambella vi sembrerà riuscita
col buco oppure senza.
Dopo aver
delineato il procedimento partitivo vogliamo tentare di darne ancora una
sintetica definizione che potrebbe suonare
così: « esso è la suddivisione
puramente “strumentale” (a fini euristici)
di un “insieme”, strutturalmente e funzionalmente eterogeneo,
nei suoi “fattori-agenti” basilari ». Come
si sa già questi fattori funzionali
sono le organizzazioni (psiche,
ragione, intelletto, idema) e le infrastrutture (memoria,
coscienza).
7.5)
Il corpo.
Prima di approfondire il nostro discorso
sulla mente si rende indispensabile dedicare
un pó di attenzione a quella
meravigliosa macchina grazie alla quale,
attraverso l’evoluzione, è stato
possibile supportare gli sviluppi dimensionali
e prestazionali del nostro
cervello. Un errore in cui spesso si cade
e in cui ancora più spesso ancora
sono caduti e cadono i filosofi è quello,
se non sempre di svalutare, quanto
meno di ignorare il fatto che qualsiasi funzionalità
della mente dipende
prioritariamente dalle condizioni in cui
il corpo funziona. Col mal di testa o
il mal di denti, tanto per banalizzare, non
si fa né matematica né poesia né
filosofia, per la semplice ragione che si
fa già un’altra cosa, che nella sua
deprecabilità è tuttavia uno degli aspetti
fondamentali della vita, ovvero
“soffrire”. Quando nel paragrafo 6.2 abbiamo
trattato della moira
abbiamo anche stigmatizzato con essa il trionfo
della necessità, madre
di questa forma oggettiva della nostra sensibilità
intellettiva, che abbiamo
anche chiamato “senso” del tragico. E della moira (insieme all’ignoranza)
la sofferenza è parte fondamentale; così fondamentale
e importante che
avevo chiuso il paragrafo 1.4 (L’ignoto e la verità)sostenendo che “forse” essa è l’unica
esperienza umana nella quale si dà (e in
modo non feticistico) la verità metafisica.
Queste categorie extrafisiche che il DAR
introduce potrebbero apparire abbastanza
astratte (o varianti di una tornante metafisica)
se mancassimo di sottolineare la loro stretta
correlazione col corpo;
il quale è sì anche la “carrozzeria” che
ci porta a spasso, ma soprattutto è
quell’insieme di tessuti e organi meccanici,
chimici e specialmente
elettro-chimici che presiedono al funzionamento
di tutta la baracca, per
concludersi col nostro sistema nervoso, fino
al confine estremo dell’ultima
cellula della nostra corteccia. Perciò quando
parliamo di cervello stiamo
ancora sempre parlando di corpo, mentre quando
parliamo di mente ci riferiamo a
qualcosa di molto più impreciso e sfuggente,
dove i nostri metodi di indagine diventano
sempre estremamente imprecisi, e dove ci
inoltriamo in una realtà sfuggente,
per la quale essi sono sempre inadeguati.
Se poi (più correttamente) parlassimo
di encefalo (di cui il cervello è parte)
dovremmo anche aggiungere che la
nobile materia grigia non c’è solo nella
testa, ma anche all’interno del
midollo spinale, il quale, scendendo lungo
la schiena, va a finire dalle parti
di quel luogo corporeo ritenuto a torto molto
meno nobile “dove non batte il
sole”. D’altra parte è noto (e ognuno di
noi ne è testimone) che le multiformi
interazioni psicosomatiche fanno sì che corpo
e mente costituiscano un “unità”
inscindibile nella “navigazione” della vita
e che senza di essa non sarebbe
neanche possibile il sorgere di nessuna delle
prospettive esistenziali di cui
ci stiamo occupando.
Allora noi dobbiamo guardarci seriamente
da tentazioni palingenetiche del dualismo
platonico o di quello cartesiano, che a dispetto
dell’omonimia non hanno proprio niente in
comune col DAR, poiché ciò significherebbe
distruggere quell’unità inscindibile che
l’evoluzione ha fatto crescere nella sua
globalità specifica, dove la stazione eretta
e l’arto superiore prensile sono altrettanto
fondamentali delle aree di Broca [117]
o di Wernicke [118] , che in un
certo senso ne sono le ultime conseguenze.
Abbiamo già sostenuto che senza la pancia
piena non si fa nessuna filosofia, ma forse
sarebbe opportuno aggiungere che
senza buone condizioni di salute (se non
continuative almeno saltuarie) nessuna
attività intellettuale degna di questo nome
risulta possibile e che anche un
genio come Chopin se ha composto della musica
immortale ha potuto farlo
perché “ogni tanto” i sintomi della sua
tisi lo lasciavano in pace. Ma bisogna anche
combattere contro i pregiudizi
ideologici che vedono con sospetto un eccessiva
concessione ai cosidetti
“piaceri materiali” (del corpo), poiché se
è vero che la musica di Bach o il
“Giudizio” di Michelangelo possono mandarci
in estasi non è inopportuno
lasciarsi andare (quando si può) ai sani
piaceri “della materia”. I quali,
praticati con saggezza, sono (insieme a quelli
“dello spirito”) l’unico
“salutare” antidoto contro l’assalto continuo
dell’angoscia esistenziale
e della sofferenza.
Così mi sono dato qui l’occasione di
sottolineare il mio edonismo, che va molto
al di là di quello del grande
Epicuro, il quale in verità era assai più
“spiritualista” di me, per quel suo
privilegiare in special modo i piaceri intellettuali
e quelli etici connessi
all’amicizia. D’altra parte, io ritengo che
una volta sciolti i lacci della
perversa sessuofobia paolina [119]
(passata pari pari nel Cristianesimo) si
debba andare verso un’etica che non
demonizzi mai il piacere, ma lo ritenga il
modo migliore di disporsi alle più
eccelse virtù etiche. Ma voglio aggiungere
(tanto per introdurre anche una nota
personale) che il destino (che più o meno ci costruiamo con le nostre
mani) è poi quello che “ci capita”, sicché
(per esempio) tutti i miei
adolescenziali sogni di libertinaggio si
sono poi spenti nella realtà “quasi
monastica” del mio vivere, che mi ha portato
a riflettere sui temi che stiamo
trattando e che non hanno molto a che fare
con l’edonismo puro e sano che ho
appena promosso. E con ciò chiudo il mio
inno al corpo, disponendomi
alle rarefatte atmosfere della mente, della
quale mi accingo a trattare,
“sempre” sperando nella benevolenza di chi
continui a seguirmi.
7.6) La mente in
una nuova prospettiva.
Io non so se l’opzione di fare proprio il
DAR e credere al pluralismo sostanziale del cosmo porti dei grandi
vantaggi in termini esistentivi, so però quali aperture produca in
termini esistenziali [120].
Ma devo anche mettere in guardia il lettore
da qualche rischio che corriamo nel
concedere troppo all’immaginazione, per cui mi corre l’obbligo di dare prima
sinteticamente risposta a qualche plausibile
domanda. L'atteggiamento del dualista è forse
caratterizzato dal fatto di privilegiare
un futuro incerto rispetto a un presente
certo? Questo non lo credo proprio. E dando
credito al DAR c'è il rischio di prendere
una cantonata, di inseguire un'illusione
e per di più finire all'inferno? Questo è
possibile. Oppure il rischio vero è di condannarsi
all'isolamento e alla solitudine rispetto
ad un mondo ossequioso della religione o
della sapienza filosofica ufficiale? Questo
è sicuro. Ma….
Il dualista
peraltro sa che, almeno prima di qualche
millennio (e sempre che l’homo
sapiens ci sia ancora), non sarà possibile una verifica
sperimentale
dell’esistenza dell’aiteria. In
fondo in fondo il dualista si pone nella
stessa identica posizione di Pascal:
la sua è una “scommessa”. Con una differenza
però: che Pascal scommetteva
sull'irrazionalità ed il dualista scommette
sulla razionalità. Effettivamente
egli non ha nessunissima garanzia di essere
nel vero e tuttavia crede di saper
distinguere quali visioni del mondo sono sicuramente false. Il dualista
ha operato un processo di esclusione per
il quale, allo stato attuale della
conoscenza umana, l'ipotesi dualistica gli
sembra essere la sola che
ragionevolmente possa avvicinarsi al vero,
ben sapendo che la verità (a parte
quella della logica) non esiste e che tutt'a’
più possiamo accedere al reale
“per noi”. Però è anche consapevole che questa
opzione un pò avventurosa e priva di approdi
sicuri e consolanti può condurlo forse ad
un’autentica mutazione antropica. Poiché
il DAR, aprendo la mente al pluralismo della
realtà, sfonda le porte della “fortezza monistica”
in cui l’uomo si è
rinchiuso da qualche millennio e che lo costringe
ad un circolo vizioso
filosofico, col quale si torna sempre al
punto di partenza.
Se è
corretto definire la mente una macchina che
produce pensiero, prima di
occuparci di essa sarà opportuno soffermarci
sul suo prodotto. Prodotto che è
quanto di più vario si possa immaginare e
che non si configura soltanto nel
discorso mentale (tradotto o meno in suono
vocale) ma più generalmente in ciò
che viene definito “immagine mentale”.
L’immagine mentale in senso letterale riguarderebbe esclusivamente
la
formazione di una visione (di un oggetto
o di una scena) ma in realtà nelle scienze cognitive l’espressione ha assunto un significato più
ampio e può quindi
riguardare una situazione in generale, uno
stato d’animo, un suono, un odore,
una sensazione tattile e naturalmente un
discorso. Tanto per esemplificare
quest’accezione molto ampia di pensiero aggiungeremo
che con essa si può
sottintendere l’emozione in generale, l’angoscia,
la paura, la speranza, il
desiderio, i frutti dell’immaginazione e
della fantasia, i progetti o le
credenze.
Il pensiero,
di per se stesso, sia che lo si consideri
nell’accezione ristretta sia in
quella più ampia, è tuttavia qualcosa che
non presenta evidenti caratteristiche
di materialità, ma non sarebbe neppure corretto
definirlo immateriale. Dopo
tutto anche un computer produce pensiero,
sia pure di tipo esclusivamente
computazionale ed analitico (almeno per ora),
e per questo motivo esso può
essere legittimamente definito una “ragione
umana artificiale” che funziona ad
energia elettrica. Potremmo allora
affermare che il pensiero è un prodotto materiale
all’origine ma che poi, a
seconda della forma che prende assume la
sostanza di tale forma. Se questa
riguarda un entità materiale il pensiero
resta materiale, se invece il pensiero
prende la forma di un evento riferibile
ai diversi caratteri dell’aiteria abbiamo una sua transustanziazione nell’immaterialità.
Questa considerazione apparirà certamente
schematica ed in effetti non rende la complessità
della fenomenologia cogitativa, la quale
non si lascia ovviamente ridurre in schemi,
ma essa ci aiuta ad analizzare il fenomeno
riferendolo ai due grandi campi esperienziali
che il DAR teorizza. Il pensiero in questa
sua “neutralità” funzionale ed oggettivante
rappresenta forse il vero spartiacque tra
la specie homo e le altre, anche se non va dimenticato
che ridere o piangere (ma anche i cani lo
fanno) non c’entrano col pensare, ma sono
altrettanto caratterizzanti.
A suo tempo
prenderemo in considerazione un altro aspetto
delle modalità con cui il
pensiero si manifesta come prodotto delle
nostre funzioni mentali, alludo alla sintesi
intellettiva che la nostra coscienza ci rivela quale “risultante”
definita ed identificabile del lavoro sinergico
delle diverse organizzazioni.
In essa i contributi di ogni organizzazione concorrono a quell’unicità
sintetica che è il “pensiero coerente” di
cui abbiamo consapevolezza, che
risulta chiaro, formulabile e trasmissibile.
Ma sarà molto difficile capire
qualcosa del complesso processo “a più mani”
che ad esso conduce senza avviarci
umilmente su questa strada, operando quindi
un’operazione di avvicinamento
senza pretese o illusioni di conclusioni
chiare ed esaustive.
(107) La credenza è un concetto filosofico che ha
impegnato diversi pensatori, a cominciare
da Platone che l’ha posta a metà
strada tra la vera conoscenza e la fede. Per Hume essa ha un
valore gnoseologico molto relativo, ma un
ruolo psicologico importante; essendo
fondata su elementi certi relativi ad esperienze
pregresse essa è una sorta di
estensione di ciò che si sa; quindi il contenuto
della credenza è
ritenuto attendibile attraverso un meccanismo
mentale del tipo “se-allora”. La credenza
è concetto molto importante per il pragmatismo, ma con significato
differente: per C.S.Peirce è ciò che determina
un comportamento abitudinario,
per W. James è ciò che trova la propria conferma
nel ricevere assenso, a
prescindere da criteri di verità o falsità,
e acquista valore per i vantaggi
esistenziali che produce.
(108) Per scientismo
si intende quell’atteggiamento filosofico
che assume la scienza come criterio
unico di approccio alla realtà e ritiene
che non ci siano limiti di campo alla
validità delle sue indagini.
(109) Auguste Comte (1798-1857), filosofo e sociologo
francese, a cominciare dal suo Corso di
filosofia positiva (1830-42) e nei successivi Politica positiva o trattato di sociologia (1851-54) e Catechismo positivista (1952) pone la legge dei tre stati come quadro generale
di interpretazione della realtà storica e
fattuale. Al primo stato (infanzia
dell’umanità), teologico o fittizio, segue
naturalmente quello metafisico ed
astratto (giovinezza dell’umanità), individualistico
e distruttivo, che va
superato fino al conseguimento dello stato
“scientifico e positivo” (maturità
dell’umanità), dove l’intelligenza umana
si applica scientificamente a scoprire
le leggi dei fenomeni naturali senza più
occuparsi delle origini o dei destini
dell’universo. Questo processo, riscontrabile
a livello ontogenetico in ogni
individuo, trova la sua conferma a livello
filogenetico e storico e costituisce
il quadro epistemologico di riferimento.
La sociologia è intesa come fisica soclale e anche ad essa va
applicato rigorosamente il metodo
scientifico, grazie al quale sarà conseguibile una società
umana del
benessere e dell’armonia, priva di contrasti
interni e unicamente volta al progresso. Quest’atteggiamento porterà Comte a concepire
una vera e propria religione positiva, laica e
materialistica, nella quale l’umanità diventa
un mistico Grande Essere.
(110) L’universo elegante di
Brian Greene (Einaudi 2000).
[111] In realtà la teoria delle superstringhe è
un “sistema” matematico estremamente complesso,
costituito da ben cinque teorie diverse ed
interconnesse, la cui risultante è la cosiddetta
M-theory. Va aggiunto che le stringhe possono
essere aperte o chiuse e che sono dinamiche,
infatti, oltre a muoversi attorno al proprio
baricentro, possono generare dei corpi bidimensionali
(branes) e tridimensionali (tribranes).
[112] Questa tesi
viene sostenuta nel già citato Dio e la scienza (nota 75 della Parte Prima)
del filosofo cattolico francese Jean Guitton
con la collaborazione dei fratelli
Bogdanov.
(113) Nella psicanalisi la rimozione è l’inconsapevole
processo col quale il soggetto espunge dalla
coscienza certune rappresentazioni
legate a una pulsione (perlopiù sessuale)
che se venisse soddisfatta entrerebbe
in contrasto con le esigenze dell’Io o del
Super-Io.
(114) Fodor Jerry A. (1935) partendo dalle tesi
di Chomsky, e
in netta opposizione al comportamentismo, ha sviluppato tra gli anni ’60 e
’70 una ricerca volta alla ricerca di una
sorta di “linguaggio del pensiero”
codificabile e soggetto a sperimentazione,
per approdare infine al campo
specifico delle scienze cognitive con La
mente modulare del 1983.
[115] Il discorso sulla differenza dei livelli viene posto molto bene da Paul Davies nel
suo Dio e la nuova fisica (Mondadori1 1984)
dove si propone una lettura olistica delle
funzioni mentali, richiamando (pag.93) la
struttura del computer, dove lo hardware
e il software costituiscono
esemplarmente i due livelli in base ai quali
funziona la macchina. Il software non può funzionare senza l’hardware, ma questo da solo non potrebbe
mai spiegare le funzioni che il software
consente di effettuare al computer.
(116] Mi riferisco alle analisi estetiche di Freud
relative ad
opere della letteratura e dell’arte, tra
le quali spiccano Delirio e sogni
nella “Gradiva” di Jensen (1907), Un ricordo d’infanzia di Leonardo da
Vinci (1910) e Il Mosé di Michelangelo (1914). Rilette dopo
circa un secolo dalla loro formulazione e
analizzate con un minimo di realismo
appaiono, pur nella loro innegabile coerenza
“interna” dal punto di vista
psicanalitico, fortemente arbitrarie e il
loro risultato analogo ad operazioni
di pura “fantasia” interpretativa.
(117] Al chirurgo e antropologo francese Paul-Pierre
Broca
(1824-1880) è dovuta la localizzazione del
centro della produzione del
linguaggio nella terza circonvoluzione
frontale dell’emisfero cerebrale sinistro.
Lesioni all’area (o centro) di Broca provocano
l’afasia motoria, la forma più grave
di tale tipo di disturbi.
[118] L’area di Wernicke,
situata un pò più verso la nuca di quella
di Broca (nel lobo temporale) è
preposta alla comprensione del linguaggio.
[119] Le lettere di Paolo di Tarso pullulano di
invettive
contro i piaceri del sesso e di inviti a
frenare e mortificare la concupiscienza della
carne (vedi Romani: 6,12;
8,8; 13,14; Galati: 5,16; Efesini: 4,22;
5,3; Colossesi: 3,5; Timoteo I: 2,12;
Ebrei: 12,1)
[120] Per la distinzione tra i due aggettivi rinvio
alla nota
80 della Parte Prima.