CAPITOLO 2 (La realtà duale)
2.1) A partire dall'individualità
Perché "a partire dall'individualità" e non piuttosto dalla totalità? Per la semplice ragione che una filosofia
che intenda fondarsi sulla realtà si deve basare su ciò che costituisce
la realtà "prima" percepibile
"per noi"(che siamo i soggetti
che indagano), ed essa è quella dell
"io", o se si preferisce del "sé".
La totalità si riferisce ad un'entità del tutto astratta
e irreale, designabile soltanto come somma
di tutti gli enti reali, e in quanto tale
un puro "flatus vocis" (un universale)(42)
per ripetere la famosa espressione di Roscellino
(43).
Entrerò nell'argomento dall'esterno,
con un cenno storico sul più significativo
pensatore moderno che abbia posto l'individualità
e i suoi diritti a base di tutto il suo pensiero.
Questo pensatore, che si chiamava Max Stirner
(44), poco più di centocinquant'anni
fa, poneva il problema della singolarità
umana come "unicità" assoluta,
coniugando questa, in termini di "potenza"
individuale, con il possesso e l’asservimento
incondizionato di ogni oggetto sia reale
(le cose) che virtuale (il pensiero), dai
quali doveva cessare ogni dipendenza fisica
o psicologica. Stirner si qualifica quindi
come un filosofo eversivo, il quale bolla
come "spirito" tutto ciò
che si pone fuori dell'individualità
e le impedisce di realizzarsi pienamente.
La sua è pertanto una delle più
radicali visioni materialistiche del mondo
e dell’esistenza. Per Stirner ciò
che è "spirito" si manifesta
come un insieme di "fantasmi",
tra i quali si collocano principalmente le
religioni e gli umanesimi (siano essi cristiani o marxisti), ma tra
i quali compare inaspettatamente anche la
libertà, in quanto, nella sua forma
classica, sarebbe incapace di esprimere adeguatamente
l'esigenza profonda che sta alla base della
realizzazione dell'unico, che non è tanto un "liberarsi
da" ma un "impossessarsi di".
Coerentemente con questo principio Stirner
ci dice infatti che anche la libertà,
più che realizzata, va "posseduta"
e analogamente il pensiero non va esercitato
ma, appunto, "posseduto". Alla
base del possesso generalizzato che si realizza
per mezzo della "potenza" individuale
sta un atteggiamento egoistico radicale,
assoluto e incondizionato, senza il quale
l'individuo vivrebbe "estraniato da
sé" (45).
Ho iniziato questo mio discorso sull'individualità citando Stirner poiché ritengo di
non trovare miglior aggancio storico per
introdurre il tema che intendo sviluppare.
Già nell'antichità i filosofi si erano posto
il problema dell'individualità (in senso laico), per arrivare ai pensatori
scolastici cristiani secondo i quali a imprimere il
crisma dell'unicità (o singolarità) era l
"anima"(46) , elemento immortale
senza il quale l'individuo umano non sarebbe
che un corpo vivente tra altri. L'aspetto
interessante in Stirner è quello di
aver capovolto questa prospettiva, attribuendo
all'unicità corporea "volente"
il valore "unico" e assoluto a
cui fare riferimento, riservando perciò
all’anima un’esistenza puramente fantasmatica.
Il modo dissacrante e provocatorio col quale
Stirner pone il problema della realizzazione
dell’individualità nasconde sicuramente anche l’intendimento
di porsi in antitesi al conformismo romantico
che calava nel "genio" creatore
i segni della "divinità".
L’essenza dell’individualità per Stirner è rappresentata invece
dalla volontà individuale di non dipendere
da altro da sé, e di attingere "esclusivamente"
da se stessa le ragioni del proprio essere.
Tuttavia questo termine ultimo ed originario
dell unicità appare in definitiva
molto prossima a quella cieca volontà di vita posta da Schopenauer a base di tutto il
"vivente" (47), trasferita ed enfatizzata
a livello individuale. Ma la cosa interessante
da rilevare è che in ogni caso questa unicità
corporea stirneriana non può sottrarsi
alle leggi della necessità, alle quali va soggetta la materia vivente nella sua generalità ed è pertanto
lontanissima dalla libertà; ciò la rendepertanto del tutto differente
dall'individualità come viene intesa nel DAR.
Mi sono servito del pensatore tedesco per
porre in termini chiari il tema di un’individualità
"forte", come è stata da
lui concepita, per poi rilevare la paradossalità
della sua tesi e contrapporle la nostra,
che si incentra nel nucleo dell'idema, come unicità non già sul
piano della materialità "necessitata",
ma su quello di una tendenzialità
extramateriale libera dalle leggi fisiche.
D’altra parte l’idema non è un qualsiasi "ente"
materiale che vive nell'istante del presente
(come è l'individualità stirneriana)
ma è il "luogo" potenziale
in cui avviene il "processo" di
elaborazione e formazione di qualcosa che
è "irriducibile" alla materia.
Il tema dell'individualità, che ho introdotto a partire dal pensiero
di Stirner e sul quale mi sono soffermato
è una delle basi su cui si è costruito il
DAR ed è a partire da esso che si potranno
cogliere le grandi differenze con altre filosofie
immanentistiche (da quella di Buddha a quella
di Spinoza) le quali ipostatizzano un Nulla
o un Tutto in cui l'individualità deve sciogliersi per conseguire la pace
(il nirvana) o la realizzazione di sé nella totalità
del Dio-Natura. L'individualità è infatti
rappresentata soprattutto da quel "desiderio"
di identità che il buddhista vuole annullare
del tutto, in quanto fonte primaria della
sofferenza. Desiderio di identità che stimola e inquieta,
che tormenta ed esalta, ma che ci spinge
ad ipotizzare un naturale orizzonte di quel
desiderio, che secondo il DAR è un ambito
in cui si annullano le "apparenti"
(o meglio "funzionali") qualità
delle forme di aggregazione della materia (in realtà sempre riducibili a quantità)
(48) dove emergono quelle autentiche, sfuggenti
a tale riduzione quantitativa. Su questo
punto diventa però opportuna una sintetica
precisazione sulla quale torneremo. Quando
noi dichiariamo "apparenti" le
qualità della materia non intendiamo affermare che non si possano
attribuire delle "qualità" alle
entità materiali, ma semplicemente che esse
non sono sostanziali all'oggetto che le mostra
e quindi (si perdoni il bisticcio) si tratta
di qualità "non qualitative". In
effetti le qualità inerenti la materia in realtà delle "funzioni" e non
hanno mai "in sé" le prerogative
estetiche o affettive che noi possiamo loro
attribuire (49).
Tuttavia il DAR,nel suo contrapporsi al Buddhismo
e ad altre filosofie ascetiche (che perseguono
la fusione dell'individuo nel Tutto allo
scopo di conseguire l'affrancamento dalla
sofferenza) non porta per nulla l’uomo a una situazione
di costante "tensione", che in
tal caso sarebbe l'esatto opposto di ciò
che si propone, ma pone la sua "risoluzione"
non nell'annullamento dell’individualità, bensì nell"assunzione" di essa
come base di partenza dell'evoluzione positiva
della persona e della sua realizzazione.
In altre parole, mentre le filosofie spiritualiste
monistico-immanentistiche, con le quali il
DAR per alcuni versi si apparenta, propugnano
lo "scioglimento" dell'individualità nella totalità, esso ne ricerca invece
il "consolidamento" e la continua
"formazione" qualitativa e distintiva,
nel perseguimento della "differenza"
e non dell "omologazione" (50).
Allora ripetiamo la domanda iniziale: perché
a partire dall’individualità? Perchè non solo essa è l’unico
reale sicuro e irrinunciabile per ognuno di noi,
ma perchè esso rappresenta anche la
"frontiera" della materia. È solo nell’individualità che un’entità materiale perde il
carattere intrinseco della quantità, per accedere a una qualità che dalla materia deborda, entrando così
in contatto con quell’ambito che "è"
la qualità stessa. Questa considerazione ci allontana
quindi diametralmente da un materialismo
totalizzante dove l'individualità alla fine
è soltanto il più nobile aspetto della materia.
Ed è su questa base che possiamo dire ai
materialisti irriducibili che dal momento
che il suono che sta alla base della musica
di Beethoven o il colore che anima gli affreschi
Michelangelo sono delle pure quantità (delle
frequenze acustiche od ottiche) diventa indispensabile
cercare nell'individualità dell'artista ciò che trasforma tale quantità
nella qualità della musica o della pittura.
Ma c’è di più: l’individualità non è soltanto ciò che ci
fa pensare e amare (od odiare) in un "certo
modo", ma è anche quella che
ci fa parlare in quel certo modo, dire un
sì o un no in un certo modo, sorridere
in un certo modo, guardare in un certo modo,
camminare in un certo modo, ecc. Allora essa
diventa il vero elemento "emergente"
della materia. D’altra parte agli spiritualisti vorremmo
ancora chiedere quale senso abbia umiliare
l’individualità, (che è qualità) per farla confluire in uno spirito indifferenziato,
nel quale essa raggiungerebbe una "perfezione"
generalizzata ed astratta. A noi pare un’evidente
contraddizione in termini: ciò che
si distingue dalla generalità, in
quanto qualità particolare, deve essere
considerato un valore e non un disvalore,
e ciò, ci pare, possa valere in generale.
A meno che non si dica che l’unica virtù
sta nell’obbedienza a un principio astratto
e nell’annullamento di sé, nel qual
caso probabilmente il massimo valore è
raggiunto dai singoli componenti di un gregge
di pecore.
Tuttavia qualcuno potrebbe avanzare il sospetto
che abbiamo cacciato il concetto di anima dalla porta per farlo rientrare dalla finestra
con quello di idema. Questo sospetto svanisce ove si consideri
che l’ idema è materiale e si origina dalla materia, mentre l’anima è un elemento divino calato nel corpo.
Mentre la prima è l’esito di un processo
evolutivo della materia vivente (attribuibile
perciò, seppure in forme probabilmente
più elementari, anche alle altre forme
della biosfera) la seconda è un’entità spirituale
estranea al corpo, dal quale sarebbe soltanto
ospitata.
D’altra parte va detto che il concetto di
anima, non quale entità di origine divina
ma come principio materiale di "animazione"
(cioè di vita) è antico quanto l’uomo e che le
teologie l’hanno semplicemente assunta, alterandone
le caratteristiche. La stessa istanza escatologica
della sopravvivenza dell'anima alla morte
del corpo è stata teorizzata sì
dalle religioni istituzionalizzate, ma preesiste
ad esse come primitiva espressione antropologica
dell'inequivoca separazione reale tra l'essenza
del "vivere" e quella del "sentire".
Ciò suggerisce una sorta di paradigma
antropologico originario (e non necessariamente
religioso) che potrebbe essere espresso con
"il corpo vive, la mente pensa e l’anima
sente", dove questo sensibile sentire
dell’anima non è altro che l’essenza
dell’individualità. Se questa elementare constatazione, che
ha fatto l'uomo di centomila anni come la
facciamo noi e come con tutta probabilità
la faranno gli uomini del XXII secolo viene
confusa con la teologia, che la ratifica
a posteriori, ammantandola di "divinità"
e di trascendenza, si compie un errore storico
e di prospettiva, col quale si ricade negli
schemi ingessati del più ottuso materialismo. Ed è proprio il superamento di vecchi
schemi mentali che permette il recupero del
riso dalla pula, di ciò che è
autentico da ciò che è scoria
ideologica.
Il sentimento della sopravvivenza dell'individualità alla morte del corpo è antica quanto
l'uomo e le religioni semmai, nella loro
opera di sistematizzatizzazione etica e metafisica
di ciò che era antropologicamente
intuito, non hanno fatto altro che risistemare
il "sentire" in un "credere",
bloccandolo nel dogma. L'uomo è da
sempre avvolto nel mistero di ciò
che la sua ragione non può analizzare e comprendere;
in compenso l’intuizione potrebbe avvertire
il non-razionalizzabile, come chi, trovandosi
in una stanza completamente buia, può
intuire l’immobile presenza di qualcuno che
né ode né vede. Proprio questo
è il punto che distingue nettamente
una filosofia da una religione: questa stabilisce
quella "presenza" come certa per
dottrina, mentre quella l'avanza come proposta
ragionevolmente concepibile ma dubbia, per
cui ci costringe (comunque e sempre) a cercarne
verifiche e conferme. Proposta che ognuno
può rifiutare, e in questo caso tornare
all'alternativa secca materialismo/teismo, oppure prenderla euristicamente in considerazione
e continuare a metterla e rimetterla in discussione.
Per quanto ci riguarda, questo significa
che non si deve, in ogni caso, accettare
"a scatola chiusa" ciò che
la nostra filosofia della realtà duale propone, come si farebbe con una religione,
ma semplicemente entrare "nel recinto"
della tesi posta e valutarne la sua validità
argomentale.
2.2) Una tesi in cerca di verifiche.
Il DAR parte dalla tesi che la realtà
non sia unica bensì plurale e che
all’interno della pluralità per la
specie homo sapiens si possaragionevolmente porre soltanto una
seconda realtà, irriducible alla materia che ci costituisce e ci fonda; perciò,
antropicamente, possiamo argomentare solo
in termini di dualità. Partendo dall’ipotesi generale noi ci ritroviamo
pertanto con una tesi dove due ambiti reali
coesistono e sono diffusi uniformemente,
ma la cui natura, sostanzialmente differente,
li rende separati, ancorché coestesi
e compresenti. Per dare un idea concreta
di questa coesistenza nella diversità
si pensi a una qualsiasi schiuma (panna montata,
gommapiuma, ecc.) dove la sostanza liquida
o solida dispersa condivide lo spazio occupato
con l’aria che l’avvolge, senza avere alcun
rapporto fisico-chimico con essa.
Ma in che cosa potrebbe consistere questo
misterioso secondo costituente dell'universo?
Proviamo a prendere le cose da lontano: nella
mia stanza ci sono i muri, i mobili, oggetti
della più varia natura, aria, luce,
rumore e infine, in rappresentanza della
biosfera, io e una miriade di minuscoli insetti,
giù giù fino a miliardi di
batteri e virus e a miliardi di miliardi
di elettroni, neutrini, quarks, ecc. Tutto
ciò costituisce la realtà materiale
di cui la mia stanza è un minuscolo
frammento. È allora questo il tutto
che riempie l'universo e lo definisce? Da
un punto di vista strettamente razionale
nulla contrasta a quest'ipotesi, ma il nostro
senso generale del mondo e l'insieme delle
nostre facoltà di approccio alla realtà
ci rivelano che le cose non sembrano stare
proprio in questo modo. Noi intuiamo chiaramente
che la materia, anche nella forma evoluta della nostra
"materia grigia" cerebrale non
può costituire "il tutto"
della realtà, poiché se così
fosse alcuni aspetti essenziali del nostro
essere uomini diverrebbero assolutamente
irreali e illusori, considerato che essa
non presenta caratteristiche tali da costituirne
né causa né origine.
Che cos'è infatti uno stato d’animo
e come si potrebbe configurare quale composto
di particelle elementari di materia in attività
(anche se nello stato di aggregazione dei
neuroni e delle sinapsi)? Quali processi di assemblaggio e trasformazione
possono determinare un sentimento, quando
esso sarebbe dal punto di vista dei costituenti
elementari esattamente identico a un pezzo
di cute, ma anche ad un pezzo di sasso? Allora
diventa legittimo supporre che nello stesso
spazio della stanza in cui scrivo e leggo
il mio stato d'animo appartenga ad un "altra"
realtà da considerare. Questa realtà
"altra" non potrebbe forse allora
essere costituita da una moltitudine altrettanto
sterminata di essenze immateriali che esistono
in modo completamente indipendente da quelle
materiali e delle quali io posso percepire
soltanto alcuni effetti e che quindi riesco
soltanto ad ipotizzare in termini di "effettualità
emotiva"? O forse di esse riesco adddirittura
ad avere una qualche intuizione? Forse. Ma
se questa intuizione, che ognuno di noi ha
avuto almeno una volta davanti a un tramonto
sul mare o ad una cima innevata, oppure davanti
a un bel quadro o al volto di una persona
amata, fosse proprio un segnale sensibile
di quell’ignota realtà che ancora
ci sfugge?
Questa è stata infatti l’ipotesi di
partenza del DAR; però si badi, forse
insolita, ma non del tutto nuova, poichè
esiste un importante precedente. In un certo
modo persino già la res extensa (materia) e la res cogitans (spirito) di Cartesio, alludevano a qualcosa
del genere, anche se alla fin fine entrambe
erano subordinate all'unica "sostanza"
divina, e quindi si trattava di un dualismo
apparente, condannato a ricadere (sia pure
per le "linee esterne" della Creazione)
nel monismo. Ma vi è un altro solco profondo
che divide il dualismo cartesiano dal DAR: questo infatti considera l’intelletto e la ragione non già nella res cogitans (lo spirito), come pensava Cartesio, bensì
in quella extensa (la materia).
Ma una vera teoria dualistica del mondo era
già apparsa ben ventisei secoli fa,
nell'ambito del pensiero indiano. Fu coltivata
e sviluppata sino a ricevere una formulazione
sistematica nel secolo XIV, per poi decadere,
oscurata dal trionfante monismo buddhista
e dal politeismo delle correnti induiste
dominanti, basate sul dharma(51) e giustificanti la stratificazione sociale
delle caste. Sto parlando di quel sistema
filosofico conosciuto come Samkhya(52), che rappresenta uno dei sei antichi sistemi
filosofico-religiosi dell’India storicamente
identificati.
Di esso io sono venuto a conoscenza dopo
essermi tormentato per anni sull’ipotesi
della convivenza di due ambiti diversi di
realtà. Ipotesi della quale non avevo
trovato traccia da nessuna parte e che mi
appariva come qualcosa di talmente stravagante
da non osare tematizzarla esplicitamente
. Dalle mie incerte riflessioni era derivata
una massa di idee soltanto confuse, dalle
quali emergeva questa affascinante ipotesi
dualistica, che rendeva giustificazione della
realtà di un campo particolare di
nostre emozioni e nello stesso tempo della
nostra impossibilità di avere alcuna
nozione della possibile causa. La mia vaghissima
ipotesi mi appariva affascinante, ma anche
molto problematica e in contrasto con la
mia stessa ragione. Mi ero certo anche spinto
verso un abbozzo di dualismo, ma mi mancava
il coraggio intellettuale di assumerlo seriamente
e di dargli una forma definita. Avevo bisogno
di un raggio di luce che ne illuminasse la
sagoma oscura. Avevo bisogno di un precedente
noto e riconosciuto che legittimasse la comparsa
di quell'idea assurda e mi spingesse ad abbandonare
la mia insicurezza sulla legittimità
di quell’ipotesi. Quel precedente avrei dovuto
trovarlo fortunosamente e fortunatamente
in quell’antico sistema filosofico, di cui
avevo trovato traccia in un testo di storia
comparata.
Debbo sottolineare il fatto che non mi ero
mai interessato di filosofia orientale, sentivo
quel contesto culturale a me totalmente estraneo
e lo guardavo con profondo sospetto. Tuttavia,
quando tra le pieghe di quel mondo a me sconosciuto,
è apparso in modo del tutto casuale
e improvviso il Samkhya, ho ricevuto d'un sol colpo quella luce
e quel coraggio che mi servivano per rompere
ogni indugio. A poco a poco tutti i pezzi
di quel mio puzzle sgangherato trovavano
il loro posto, e man mano che procedevo si
apriva un'orizzonte oltre il quale si stagliava
qualcosa di straordinario, scandaloso, negato
ed emarginato da sempre. Tutto mi appariva
finalmente chiaro e ciò che era stato
soltanto un'ipotesi prendeva adesso sempre
più forma, sino ad assumere i contorni
di una vera e propria visione del mondo, che mi riconciliava con ciò che
io sentivo di esso da sempre.
Ma infine, a posteriori, mi ripeto ancora
una volta la retorica domanda: perché
dovrebbe esistere una seconda realtà
di cui non abbiamo percezione alcuna? Questo
infatti rimaneva il problema, ma mi accorsi
più tardi che era proprio la sua premessa
ad essere sbagliata. La percezione è
un atto di conoscenza dovuto ai sensi e "invece"
quelle esperienze, che io avevo sempre considerato
il frutto di una realtà "altra"
dalla materia (i sentimenti, le emozioni
estetiche, le istanze etiche, ecc.), potevano
sì passare attraverso i sensi, ma
da essi non dipendevano affatto. Allora queste
esperienze andavano ascritte a un inafferrabile
"qualcosa" che doveva avere sì
effetti sul cervello (in quanto esse sono
legate in qualche modo alla materia pensante),
ma questo inafferrabile "qualcosa"
doveva essere di natura molto più
complessa di ciò che produceva il
pensiero o gli stati psichici, vale a dire
i processi elettro-chimici facenti capo a
neuroni, sinapsi, ecc. Poichè, ponendosi
questo "inafferrabile" al di fuori
dell’emotività convenzionale non era
possibile definirlo con un pensare di tipo
linguistico, nè razionalizzarlo con
induzioni o deduzioni formulabili e verbalizzabili,
ma si trattava di "sentirlo" per
vie extraintellettuali in quanto esso sfuggiva
ad ogni determinazione.
Col tempo arrivò la risposta. Essa
era semplice, persino troppo semplice, ma
alla fine si impose con una forza logica
quasi elementare che mi convinse: noi possiamo
percepire e conoscere soltanto ciò
che è direttamente o indirettamente
"riducibile" alla materia che ci
costituisce, dai piedi alla testa, cervello
compreso. Mi resi subito conto che quella
risposta non era per nulla originale (44);
ma come mai aveva tardato tanto ad arrivare?
Ed inoltre, se i sentimenti nascono in un
centro estraneo al pensiero come si può
pensare di "pensarli"? Senza una
qualche nozione, se non razionale almeno
razionalizzabile, su tutto ciò non
si poteva che lasciar calare un manto di
silenzio, lasciando alla mia personale immaginazione
campo libero, ma chiudendo poi il tutto nella
mia testa e gettando via la chiave. Poi,
con la riflessione, venne il sospetto che
quel mio vizio di voler portare sempre tutto
davanti al tribunale della ragione potesse
condurre paradossalmente a una sorta di iper-razionalistico
"irrealismo". Fu così che,
a poco a poco, cominciai a trovare la mia
ipotesi più plausibile e persino ragionevole.
A ciò seguirono anche degli scenari
possibilistici in cui l’ipotesi acquistava
sempre più consistenza. E la realtà
di ciò che ponevo si venne poi configurando
in quello che in seguito avrei chiamato argomento dell'irriducibilità. Per un pò questo rimase solo, poi se ne
affiancò un altro che mi parve gettargli
una certa luce riflessa, risultandone un
arricchimento di carattere etico. Infine
il terzo argomento, relativo ad una precedente
riflessione, concernente la percezione differenziata
della realtà materiale e di quella aiteriale
di uno stesso oggetto. A questi tre argomenti
avrei poi dato il nome di "logico",
"etico" e "osservazionale-percettivo".
2.3) Argomento logico. (L'irriducibilità).
Questo primo argomento può anche venire
impostato partendo dalla metafisica classica,
(tutt’oggi a base del Cristianesimo), nella
quale, poste due sostanze non omogenee tra
loro, come la materia e lo spirito, quella che ontologicamente è causa
dell’altra(Dio) può conoscere quella
inferiore da lui creata (il mondo) e non
viceversa. Nel momento però in cui,
togliendo di mezzo Dio, l’ipostasi del rapporto
causale e gerarchico tra le due sostanze
venga a cadere, esse non sono più
connesse tra loro ed emerge anche l’impossibilità
teorica di qualsiasi conoscenza reciproca.
Quindi, se la nostra tesi di una doppia realtà
antropica è plausibile, le facoltà
intellettive e razionali del mio cervello
(fatto di materia) non avranno mai alcuna
possibilità di accedere alla conoscenza
di ciò che non ha origine nella materia, ma in qualcos’altro che è ad essa
"irriducibile".
Vediamo di sviluppare meglio l’argomento.
Ci sono momenti della nostra vita durante
i quali noi viviamo delle esperienze i cui
effetti mentali sono riconducibili, in termini
ipotetici, a misteriosi processi cerebrali
che sfuggono ad ogni indagine scientifica.
La loro natura, proprio da un punto di vista
scientifico, è così effimera
e inconsistente che, passate le circostanze
in cui si sono verificati, quegli effetti
sembrano scomparire nel nulla, lasciando
di sé soltanto una traccia mnemonica
più o meno marcata. Essi sono come
sospensioni o accelerazioni del flusso vitale,
che alterano per un istante dell’esistenza
le normali modalità di esistere e
di sentirsi esistere, per poi scomparire,
restituendo quella metaforica "luce"
materiale che rende riconoscibile la quotidiana
realtà, le leggi di causa/effetto,
la certezza dei fatti e dei corpi, la percezione
sicura dell "io penso", la consapevolezza
del nostro corpo e del resto del mondo che
ci circonda. Se non ché, mentre noi
sappiamo esattamente ciò che costituisce
la realtà della materia, che in ogni
suo dettaglio possiamo definire e calcolare,
che cosa sappiamo del "buio" causale
della commozione che si impadronisce di noi
durante l'ascolto di una certa musica? Assolutamente
nulla che non siano gli effetti riscontrabili
sul nostro sistema nervoso. Ma saremmo piuttosto
ottusi se ci limitassimo a identificarlo
semplicemente con quell’accelerazione del
battito cardiaco che accompagna anche ogni
altra più banale emozione. E tuttavia,
questa "causa" misteriosa non possiamo
peraltro ritenerla poco "reale",
ma neppure casuale, poiché entro certi
limiti essa è ripetibile. Non solo,
ma può addirittura essere comune ad
altre persone con le quali siamo in compagnia.
D’altra parte, una musica è fatta
sì di suoni, ma non sono i suoni ad
autoorganizzarsi nella musica. Così
come un dipinto è fatto di colori,
ma coi soli colori non si fa pittura. E,
analogamente, la poesia è resa con
parole, ma le parole di per se stesse non
bastano a fare la poesia.
In generale si può dire che ogni sentimento
ha sì anche una causa materiale, che
però è sempre del tutto insufficiente
a spiegarlo. Per tornare alla musica voglio
fare un esempio: in un aria per voce di Mozart
sono materiali i suoni che ne sono sottofondo,
come sono materiali gli strumenti che li
emettono, come è materiale la voce
che la canta, eppure il risultato di tutto
questo possiede un "valore aggiunto"
senza il quale quell’aria "non esisterebbe".
Ma dal momento che non c’è il suo
creatore (Mozart) a produrla qui ed ora,
vuol dire che essa ha una realtà immateriale
e potenziale che si "attualizza",
qui ed ora, per mezzo di quello strumentario
materiale che il creatore ha immaginato e
legato al prodotto aiteriale che egli ha
creato, il quale può essere riprodotto
e replicato in migliaia di esemplari tecnologici.
Il prodotto aiteriale di partenza è
uno solo, ma esso si può attualizzare
nel tempo e nello spazio in un numero praticamente
infinito di esecuzioni nelle quali un ulteriore
"valore aggiuntivo" aiteriale può
essere dato da ogni singolo interprete che
possegga la sensibilità per andare
oltre la materialità del testo musicale
e di ciò che emette suono.
In considerazione del fatto che comunque
quell'effetto musicale si verifica nel nostro
cervello, del quale sono note la struttura
e le funzioni, si potrebbe legittimamente
pensare che si tratti di un fenomeno secondario
della materia cerebrale, del frutto di un
particolare stato di eccitazione di essa,
di quello che alcuni filosofi positivisti
hanno chiamato epifenomeno(45). È ciò che avevo pensato
anch'io per anni, senza mai derivarne autentica
convinzione, per questo motivo tale conclusione
era sempre accompagnata da un certo sottile
tormento di insoddisfazione intellettuale
che sfociava in un deciso rifiuto nel profondo
della mia coscienza. Per entrare ancora meglio
nel tema mi concederò pertanto una
digressione di carattere storico-personale,
che illustrerà l'antefatto e la genesi
di questo argomento, che ho definito un pò
pomposamente: logico.
Per molti anni, nel mio materialismo radicale,
che pareva a me l'unica visione del mondo
"razionalmente possibile", questa
spiegazione epifenomenica la sentivo come
logicamente ineccepibile, ma nello stesso
tempo come intuitivamente inaccettabile:
una specie di "assurdo". E tuttavia
non riuscivo ad immaginare niente che non
fosse, in qualche modo e comunque, riducibile
alle particelle elementari della materia:
atteggiamento non privo di elementi schizofrenici.
Questa convinzione, inesorabilmente maturata
in vari anni di riflessione (e più
"voluta" che sentita) mi aveva
gettato in un profondo stato di frustrazione.
Essa veniva a negare ogni realtà alle
emozioni estetiche, agli affetti, ai sentimenti
etici e agli entusiasmi conoscitivi che io
sperimentavo e sentivo come assolutamente
"reali".
Nell'adolescenza e nella prima giovinezza
avevo pensato che tutto ciò che di
bello e nobile mi fosse dato sperimentare
fosse un segno della divinità. In
generale tutte le risposte ai miei problemi
esistenziali mi sembravano semplici, immediate
e convincenti. Ogni realtà era chiara, alla
luce di una fede che spiegava e garantiva
ogni cosa. In seguito invece, da materialista,
tutto sembrava precipitare in un pozzo di
nichilismo assurdo e privo di senso. Nel periodo più
grave della mia crisi di cinquantenne, con
fasi di autentica disperazione, avevo provato
anche a rivisitare quelle mie credenze cadute
in un passato ormai lontano, nel tentativo
di recuperarle, anche a costo di umiliare
la mia ragione. Era trascorso molto tempo,
ma non tanto da dimenticare i fondamenti
della fede in cui ero cresciuto, che avevo
accettato e praticato fino a diciotto anni.
Allora ho riesaminato il percorso che mi
aveva condotto al materialismo, pronto e
disposto a rigettarlo a favore di un ritorno
ad una credenza trascendentalistica che mi
ridesse benessere psichico. Ma alla fine
la conclusione non è stata diversa
da quella maturata negli anni: l'idea di
una divinità "creatrice, legislatrice,
ordinatrice e provvidente" mi parve
ancor più priva di senso di quanto
avessi mai pensato, e ciò a tutto
favore della cieca e unitaria "necessità"
della materia.
Tuttavia questa indagine mi aveva permesso
di recuperare un concetto divenuto poi fondamentale
nell'elaborazione del DAR: quello di anima, sostituito solo più tardi da quello
di idema. Essa, dopo l'abbandono della religione,
era rimasta per me quel vago concetto del
parlare comune che ad essa attribuisce sentimenti
e comportamenti di carattere elevato. Improvvisamente
mi appariva invece per quello strumento collocato
nel cervello il quale, come un'antenna, poteva
ricevere i segnali dell"irriducibile"
alla materia (54). Segnali non decodificabili,
proprio perché di natura diversa da
quella materiale della nostra mente. Da qui
la completa assenza di percezione dell'irriducibile, ma soltanto la sua intuizione in occasione
di particolari stati mentali, quelli in cui
l "anima" (ora idema) è attiva. Che questa intuizione
non potesse essere un puro stato allucinatorio
mi sembrava d'altra parte evidente: chiunque
la può sperimentare, anche se con
cause e circostanze differenti, in normali
condizioni di salute, a qualsiasi razza appartenga,
sotto qualsiasi latitudine e probabilmente
fin dalla notte dei tempi.
Ho riflettuto a lungo sul nome da dare all'irriducibile
e alla fine, come si è già
visto, ho optato per quello di aiteria. Ma lo debbo ripetere a scanso di equivoci:
l’aiteria non ci trascende, ma è immanente
a noi, ancorché inconoscibile: questo
la differenzia in modo profondo dalle tradizionali
concezioni dello spirito dei monoteismi abramitici.
Essa è "qui", entro noi
e intorno a noi, ai margini della materia
a cui si accompagna, più o meno come
in una dispersione (una schiuma) un gas (l’aria)
è presente entro il liquido disperso
senza tuttavia farne parte.
Ma dove sta alla fine la logica di questo
argomento? Direi nel cancellare l’ipostasi
irrazionalistica dello spirito e nel ricondurre
le esperienze cosidette "spirituali"
all’essenza della nostra individualità (idema), che pur essendo corpo eccede la "corporeità"
e che pertanto nella sua unicità si
sottrae ai processi "necessari"
della materia. Ed è proprio grazie a questa capacità
di sottrarsi alle leggi della materia (che pure la costituisce) che l’ idema ha allora la possibilità di accedere
ad un rapporto con ciò che a quella
è "irriducibile". L’aiteria quindi è quell’inconoscibile realtà, che si offre soltanto alla sensibilità intuitiva, sempre supposta dall’uomo fin dalla notte
dei tempi e il cui concetto è stato
abusivamente fagocitato e manipolato dalle
religioni in senso trascendentalistico.
2.4 Argomento etico. (Senso della giustizia e della pietà: l’assurdo e la contraddizione)
Nella quotidianità, al di là
del senso di soddisfazione o di insoddisfazione
per come "ci vanno le cose" noi
siamo continuamente colpiti dall'iniquità
che pervade il nostro mondo. Iniquità
che non è soltanto generata dalla
cosidetta "malvagità" dell'uomo,
ma che è interna e strutturale alla
vita e all’evoluzione di tutta la biosfera. Questa è un teatro di ferocia e
di crudeltà sulla terraferma, nel
mare e nel cielo, poiché l'energia
vitale è fondata sulla nutrizione,
che esige e determina le terribilità
della catena alimentare. Né la prospettiva
muta se noi pensiamo agli accadimenti naturali,
nei loro riflessi, talvolta perversi, proprio
sull'esistenza dei più deboli e indifesi.
Guardando un pò più da vicino
ciò che noi siamo, ci accorgiamo che
il nostro patrimonio genetico ha determinato
delle doti o degli handicaps, siano essi
fisici o mentali, che sono assai più
determinanti, per il successo o la sconfitta,
di tutti i buoni propositi o dei lodevoli
sforzi per raggiungere un fine legittimo
ed auspicabile. Se la rettitudine talvolta
è premiata lo è in senso spesso
incerto e relativo. Troppo sovente la prepotenza,
la furbizia e la frode (tra le bestie come
tra gli uomini) producono effetti positivi
e duraturi sull'esistenza di un individuo
o di un gruppo, secondo logiche che la nostra
coscienza e il nostro istinto di giustizia
rifiutano. In generale le disgrazie o le
fortune colpiscono l'umanità alla
cieca, in un modo che ci sembra appunto "immorale".
Questo ha fatto dire ad alcuni che se Dio
c'è non governa il mondo secondo amore
e giustizia, ma semmai con perverso sadismo.
Ciò specialmente per il fatto che,
con poche eccezioni, il male e il bene si autoalimentano come un contagio, al di
là della buona volontà o dell'onestà
delle intenzioni di chi li fugge o li cerca.
Il male, col suo accadere, favorisce e provoca altro
male, mentre il bene "benefica", "benedice"
e genera altro bene.
La rivolta morale che si scatena in noi di
fronte a un'iniqua distribuzione di premi
e castighi non è casuale o sporadica,
ma generale, motivata e profonda. Essa esige
una risposta (e non meramente consolatoria)
che delinei credibilmente un quadro di riferimento
di carattere globale e non legato ai capricci
del caso o di una divinità che si
voglia supporre benevola e non maligna. Quest’esigenza
è reale, costante e universale.
A questo quadro decisamente pessimistico
noi opponiamo quello ottimistico derivante
dell’evoluzione della civiltà, la
quale oltre che cultura giuridica e organizzazione
dei mezzi d’intervento promuove anche un’etica
della compassione e della solidarietà,
coniugate con una struttura sociale democratica
funzionale ed efficiente, nella quale si
riconosce l’umana eguaglianza dei diritti
e dei doveri, congiunta all’attenzione ai
meno fortunati, ai quali una civiltà
moderna deve riconoscere l’ulteriore diritto
di essere aiutati e protetti. Ma tutto ciò
che l’uomo civile può fare per correggere
le crudeli leggi della biosfera non cambia di una virgola la struttura del
mondo vivente, chè è biologicamente
"perfetta" e nello stesso tempo
(dal punto di vista etico) decisamente "perversa".
Ma c'è di più; la realtà che noi sperimentiamo non è soltanto
iniqua in termini etici, ma è anche
fortemente contradittoria in termini gnoseologici.
Nel senso che appena si esca dalle ferree
leggi della fisica e della biologia, che
sono come l'involucro esterno della vera
realtà che ci riguarda in quanto uomini,
tutti gli accadimenti che interessano il
genere umano, a livello del singolo come
delle moltitudini, si presentano molto spesso
casuali, incoerenti e incomprensibili. E
ci si deve domandare perché mai l'uomo
dovrebbe essere dotato di un'intelletto così
distorto da fargli apparire illusivamente
negativo ciò che non esisterebbe nella
realtà: la contraddizione e l'assurdità
del mondo dal punto di vista etico.
Allora, se la contraddizione esiste, e se
sentimenti umani come la pietà diventano a loro volta assurdi rispetto
alla logica del vivente, della selezione e del prevalere del più adatto, bisogna
chiedersi da dove provenga l’istanza etica
che fa nascere quei nostri atteggiamenti
su base affettiva o solidaristica che si
allontanano totalmente dalle logiche collaborative
di tutti gli altri animali sociali e dalle
cure parentali comuni a tutto il mondo vivente.
È evidente che non vi sia nessuna
logica razionale nel mantenere in vita una
persona anziana e malata soltanto per ricevere
ancora il suo affetto e per prodigarle il
nostro. Gli affetti umani, in se stessi,
non possono avere origine nella materia vivente,
che viaggia su strade completamente diverse
e che per evolvere positivamente deve anzi
ignorare questa "degenerazione"
umana. Il branco degli elefanti abbandona
il vecchio ammalato perché sarebbe un peso
intollerabile nei frequenti spostamenti,
l’aquilotto più forte ammazza quello
più debole perchè i suoi genitori
non potrebbero procurare il cibo ad entrambi,
il piccolo cuculo butta giù dal nido
i suoi piccoli amici che ne sono i legittimi
abitanti perché i suoi genitori non sanno
fare i nidi, e si potrebbero fare altre centinaia
di esempi di "immoralità"
(dal punto di vista "antropico")della
natura (55). Piaccia o non piaccia questa
è la natura "vera", quella
natura che qualche irrealistico ed ingenuo
giusnaturalista "della bontà"
(tardo seguace di Rousseau) (56) ancora oggi
immagina come un biblico paradiso terrestre
che l’uomo avrebbe stravolto e di cui invece
l’uomo deve razionalmente accettare e comprendere
la logica spietata,ferrea ed ineluttabile.
Per questo diventa necessario pensare che
quello che è assurdo per la materia
vivente e trasgredisce le sue leggi debba
in qualche modo risolversi virtualmente "al
di fuori" della ragione biologica(57) che la governa. Perciò questo
argomento etico rinvia e può trovare
conferma nelle connotazioni di quella realtà
"altra" che il DAR ha posto a fianco
della materia. Una realtà che in qualche modo si
rivela e ci coinvolge proprio sul piano dell'eticità,
nel cui ambito devono essere assenti quegli
aspetti del mondo che si rivelano incompatibili
col nostro "umanamente etico" senso
della giustizia, che la materia vivente nel
suo conservarsi ed evolvere non risolve,
ma anzi accentua drammaticamente e in maniera
radicale.
Allora possiamo fare un altro passo avanti
e arrivare ad ipotizzare che la nostra sensibilità
individuale contenga un elemento "di
contrasto" con le leggi della materia
e che, in quanto tale, faccia riferimento
a qualcosa di totalmente estraneo (e forse
anche di inopportuno) rispetto alle leggi
della selezione biologica. Ciò significa
molte cose relativamente al nostro modo di
vivere e di rapportarci al mondo, ma una
in particolare, che qualche nostra funzione
mentale orienta i nostri giudizi in maniera
non coerente con le modalità in cui si presenta
la realtà esterna all'uomo. Se questa funzione
è reale e non illusoria, ciò significa anche
che essa potrebbe "teoricamente"
non andare soggetta alle leggi del vivente,
o per lo meno tendere a liberarsene, promuovendo
dei comportamenti rispetto ad essa difformi.
Se questa ipotesi è legittima "qualcosa"
di derivato da questa funzione potrebbe allora
forse addirittura sottrarsi alla morte del
corpo che lo supporta, in un'abbastanza plausibile
"permanenza" extramateriale più
o meno lunga. Tuttavia, se ciò fosse accettabile,
non lo sarebbe certo per un ingenuo e banale
principio di risarcimento compensativo, come
ci propone la religione, ma perché sembrerebbe
logico pensare la finitudine del corpo materiale
non possa implicare l'annullamento anche
di ciò che, con ogni evidenza, persegue logiche
diverse da quelle della materia vivente.
Le contradittorietà della storia passata
e recente delle società umane sembrano
pertanto confermare l'esistenza di qualcosa
che "inquina" i meccanismi del
mondo perfetto della materia, regolato dalla
fisica e dalla ragione biologica della materia vivente in evoluzione. Questo
"qualcosa" si deve allora supporre
che sia un costituente della realtà
fin'ora sconosciuto, seppure sentito e intuito,
ma del tutto inconciliabile con le ragioni
evolutive e conservative della biosfera, la quale prescinde completamente dalle
"nostre ragioni" morali.
Anzi, le nostre ragioni morali sono spesso
in contrasto e addirittura lesive delle leggi
di quella ragione biologica che governa la
vita e il suo mantenimento al meglio. Che
cosa pensare di quel magnifico campione dell’evoluzione
felina che è il leone maschio se dopo
aver ammazzato il rivale non ammazzasse anche
tutti i suoi figli? Se venisse preso dalla
pietà che ne sarebbe della sua discendenza
e di converso delle leggi della selezione?
E che dire delle leonesse se non andassero
subito in calore per farsi montare dal nuovo
capo, ma invece si soffermassero a piangere
i loro piccoli? Come si vede, già
solo prendendo in considerazione il sentimento
etico della pietà, ci si rende conto
che questa è di per se stessa un grave
insulto alla "logica" della materia
vivente.
Fin'ora tutte le risposte alla iniquità
e alla contradittorietà del nostro
mondo sono sostanzialmente riferibili a tre
categorie, che per semplicità e concisione
definirò "razionale", "elusiva""
e "trascendentale". La prima, nata
nell'antichità, ma affermatasi nell'ottocento
col positivismo evoluzionistico, nega ogni tipo di realtà extramateriale
che ci possa concernere e postula, con la
morte, l'azzeramento di ogni essere vivente
nella sua individualità, a favore
della "vita" nella sua globalità.
Essa vede pertanto la giustificazione di
ciò che accade nei meccanismi generali
del macrocosmo e nella logica evolutiva delle
specie viventi, che si mantengono e si perfezionano
attraverso l'adattamento, la competizione
e la lotta per la sopravvivenza. Lo sviluppo
e il miglioramento di una specie si verificano
proprio perché essa è in grado
di reagire positivamente, adattandosi, agli
accadimenti e alle evoluzioni del contesto
in cui è inserita. Mentre la decadenza
e l'estinzione sono l'esito della debolezza,
sia essa sessuale, caratteriale o somatica
di un individuo, di una specie, di un genere.
In definitiva il "bene"biologico
si identifica con l'inarrestabile affermazione
del più forte o del più adatto
e il "male" quando vi è compromissione
di questo inflessibile principio eugenetico.
La seconda si ritrova nelle grandi filosofie
spiritualistiche orientali (Buddhismo, Taoismo,
ecc.) che postulano, a grandi linee, un processo
di formazione e di elevazione dell'anima
individuale verso l'anima del Tutto, con
l'abbandono dell'individualità, schiava
del desiderio e del dolore, verso una condizione
di "fusione" nello spirito globale,
quale realtà stabile, ultima ed eterna.
Ho definito "elusiva" tale soluzione,
poiché a me pare che attribuire il
dolore nel mondo a cause puramente psichiche
o intellettive (attaccamento e ignoranza)
e ritenere che sia sufficiente "scoprire"
la verità per farlo scomparire, mi
sembra che significhi eludere in maniera
ideologica e astratta i termini della realtà
stessa.
La terza risposta è quella espressa
(anche qui generalizzando un pò) dalle
tre religioni monoteiste "abramitiche"(58)
(Ebraismo, Cristianesimo ed Islam), e più
specificamente dalla seconda, le quali ci
dicono press'a poco che le disgrazie e le
sofferenze (gli effetti del male in generale)
vengano da Dio consentite o mandate affinché
sia messa alla prova la fede degli uomini
e che, attraverso il loro comportamento (fedeltà,
amore od ubbidienza), si evidenzi il rispetto
per la divinità (o il suo peccaminoso
contrario). È questa una risposta
di grande efficacia, poiché garantisce
un risarcimento della sofferenza, anche se
differito, per chi ha fede e la vive in modo
conforme alla dottrina dettata dalla divina
rivelazione in termini di comandamenti e
precetti. Si tratta inoltre di un vero e
proprio "sistema" di premi o castighi
post-mortem, strettamente connessi al bene o al male
che gli uomini producono con la loro professione
(o negazione) della fede e con l'esercizio
del loro libero arbitrio.
Evidentemente la prima risposta pare troppo
crudelmente disumana e quasi rivoltante per
la maggior parte di noi. La seconda, un pò
troppo elusiva nella sua fuga dalla sofferenza,
con la negazione della realtà di un'individualità
percepibile e vivibile, a vantaggio di una
"totalità" vaga ed astratta.
La terza, nella sua meravigliosa arbitrarietà,
è "divinamente" e "provvidenzialmente"
consolatoria, foriera di speranza in un avvenire
in cui Dio ci renderà giustizia, ma
cozza contro le più elementari cognizioni
scientifiche relative al nostro universo,
nell’immaginare "fuori" di esso
luoghi di castigo o di premio dalle connotazioni
assolutamente materiali. La prima pertanto
insulta il sentimento, la seconda insulta
la nostra identità di uomini e la
terza insulta la nostra ragione.
A fronte di questa opposizione inconciliabile
il DAR offre una risposta che conferma la
prima (relativamente all'ambito materiale)
e in un certo senso rende quasi vera la terza,
purché la si riferisca ad un futuro
sì immateriale, però immanente
all’universo e non trascendente o fantasticamente
localizzato "fuori" della realtà
di esso. E qui trascuro quella contraddittoria
e assurda "resurrezione della carne",
per cui il nostro corpo verrebbe a coesistere
con lo "spirito" divino, ma che
una volta di più sottolinea l’evidente
"materialità" che pervade
le dottrine abramitiche, dove l’ipostasi
dello spirito si innesta su concetti riferibili
esclusivamente alla materia.
L'argomento etico quindi ci è utile per collocare adeguatamente
l’idema nel contesto fisico ed extrafisico dell'esistenza
e dell'escatologia. L'idema, come si vedrà meglio in seguito,
dovrebbe avere verosimilmente la funzione
di accogliere l’aiteria e di elaborarla, generando quella specie
di "spirito individuale" (o idioaiterio) che "potrebbe", coerentemente
con le premesse, sussistere anche dopo la
morte del corpo, entrando allora in un futuro
escatologico che in un modo del tutto nuovo
sostituirebbe il mistificante "aldilà"
delle religioni e della parapsicologia. Ma
l'idioaiterio non potrà ovviamente e in ogni caso
che avere caratteristiche conseguenti e funzionali
all'idema che ne è all'origine e quindi sottrarsi
totalmente a ogni parentela spiritualistica
non solo con l’anima del monoteismo occidentale, ma anche con
l’atman(59) della filosofia orientale.
L' idema, quale "funzione" extraintellettiva
della nostra mente, nel funzionare ricevendo
aiteria e trasformandola, "si forma" per
concrezione ed evoluzione (60) . Questo ipotetico
futuro potrebbe allora assicurare la sopravvivenza
di qualcosa di noi che è diventato
irriducibile alla materia e che non soggiace più alle ferree
leggi della necessità. E diventa allora persino legittimo e conseguente
aggiungere che in noi, fin d'ora, si sta
formando un entità extramateriale
che potrebbe proiettarsi forse in un futuro
escatologico. Se così fosse, noi saremmo
protagonisti anche di un processo di autoevoluzione
dell’ "io" verso un’entità
aiteriale, per cui (e in un certo senso)
potremmo dire che noi forse "saremo
ciò che stiamo diventando", giorno
per giorno, fino al momento in cui la nostra
meravigliosa macchina corporea ritornerà
alla natura da cui proviene.
In ogni caso il futuro dell’essenza della
nostra individualità non sarebbe immaginabile come un "paradiso",
nel senso che tutto ciò che riguarda
l’aiteria non potrebbe arbitrariamente essere espresso
in categorie umane e quindi materiali, tipo
piacere o beatitudine. Poiché una
cosa è del tutto ovvia: le categorie
di sofferenza e di piacere, strettamente connesse alla nostra struttura
materiale, sarebbero del tutto prive di senso
se riferite ad un’entità extramateriale
come l’aiteria. Questa "coda" escatologica del
DAR non fa parte della base teorica di esso,
ma è una pura ipotesi conseguenziale alle
premesse di "irriducibilità" del
prodotto idemale rispetto alla logica del
vivente. Essa è quindi uno dei punti aperti
alla riflessione, relativamente al quale
ognuno può sviluppare un proprio personale
iter filosofico ed esistenziale, in funzione
delle proprie convinzioni e delle sue personali
aspettative.
2.5 Argomento osservazionale-percettivo.
Veniamo al dunque: ogni aspetto della realtà (sia esso fenomeno naturale od oggetto) è inosservabile e impercepibile congiuntamente e contemporaneamente da un punto di vista fisico-strutturale e da uno affettivo-estetico. Questa è la tesi che intendo sostenere. Ognuno di noi ha potuto fare questa constatazione abbastanza banale in più occasioni e con le più svariate categorie di elementi della realtà. Se noi osserviamo un fiore dal punto di vista del botanico non possiamo farlo contemporaneamente da quello del pittore. Questo non significa che il pittore non possa essere uno studioso di botanica e che il botanico non possa essere un pittore, ma semplicemente che l’approccio dell’osservatore all’osservato nel “qui ed ora” o è scientifico oppure è estetico.
Ma prevedo l’obiezione a questo mio assunto esprimibile in termini del tipo: non è un problema di prensione “alternativa” di ciò che viene osservato, ma di attenzione; la nostra mente è infatti funzionalmente strutturata per percepire “selettivamente” la realtà, altrimenti verrebbe sottoposto ad un super-lavoro improprio e improduttivo. Da qui la necessità dell’intenzione-attenzione che conduce il sistema a considerare gli elementi della realtà “uno alla volta”, per poterli mettere a fuoco opportunamente, con un appropriato e concentrato investimento psico-cognitivo. L’obbiezione è corretta e motivata, ma essa non va “contro” la tesi esposta, semmai la completa, nel senso che la dualità da noi sostenuta coincide con la focalizzazione monotematica dell’attenzione, filogeneticamente determinata al fine di evitare malfunzionamenti del nostro cervello. In altre parole, il tema della selezione “attenzionale” al “percepibile” della realtà accompagna biologicamente ciò che quello “osservazionale-percettivo” pone sul terreno filosofico che qui stiamo sviluppando.
Tuttavia, la nostra operazione, che mira a suddividere ancora una volta la realtà in due ambiti anche sul piano della percezione, è legittima e obbiettiva oppure è aprioristica e strumentale? Se noi analizziamo con calma la questione, dobbiamo constatare che l’essere consapevoli dell’ecosistema che accoglie il fiore, o della struttura del carbonio che è a base della materia organica che lo costituisce o i fenomeni luministici che determinano i suoi colori, sono in definitiva tutti elementi “concorrenti” con le ragioni delle forme di petali antere e pistillo in funzione della riproduzione, mentre l’elemento estetico rimane completamente estraneo ad essi e persino distraente. E viceversa, se un fiore viene colto nella sua bellezza (o per i ricordi che evoca) le considerazioni di tipo fisico o biologico non soltanto sono estranee ma forse anche distorcenti e alienanti lo stato d’animo stesso che viene esperito. Con ciò si intende dire che vi è un blocco di informazioni (fisiche, chimiche e biologiche) che concorrono all’approccio gnoseologico (intellettivo-razionale) e un altro blocco informazionale-emotivo (bellezza/bruttezza, attrazione/repulsione, ecc.) che porta a stati di coscienza di carattere sentimentale (idemale) e che pertanto i due blocchi dal punto di vista osservazionale e percettivo sono tra loro incompatibili e alternativi.
Il problema ulteriore, ma che concerne le scienze cognitive e non la filosofia, è se siano in partenza separate le informazioni inviate dall “osservato” all “osservante”, oppure se siano i sistemi percettivi di questo a far capo a strutture nervose differenti che creano ed elaborano l’immagine mentale. Ma come è già stato osservato al paragrafo 1.1 (nota 12) a proposito della trasformazione delle strutture animali in funzione delle informazioni derivanti dall’ambiente, saremmo propensi a dare maggior credito alle teorie cognitive su base “ecologica” rispetto a quelle su base “analogica” **, anche se si tratta di un campo di indagine che esula dai nostri fini e i cui sviluppi ci dovremo limitare a seguire con attenzione, ma da lontano.
La “dualità” dell’approccio alla realtà riguarda ogni aspetto del mondo visibile, come di quello udibile,come di quello esclusivamente pensabile o immaginabile. Sia che si consideri l’acqua del mare, o i raggi solari al tramonto, la terra sotto i nostri piedi o gli insetti che ci abitano, il cielo di giorno o di notte, sempre ci comportiamo come osservatori tendenzialmente “estetico-affettivi” oppure “scientifico-pragmatici”. Nella nostra considerazione degli altri soggetti umani la questione può presentarsi in termini decisamente più complessi, poiché è difficile dire quando la simpatia per un’altra persona sia determinata più dalla stima o più dall’attrazione sessuale, o l’antipatia dal timore di riceverne danno o dalla repulsione fisica, ma certamente possiamo sempre individuare, nella complessità, due sfere di percezione che concernono separatamente gli elementi fisici-strutturali della persona osservata o quelli estetico-affettivi. Un medico, abituato a giudicare la salute dei suoi pazienti dallo stato della cute o dal colore della congiuntiva oculare, laddove colga aspetti negativi sul volto della propria madre sarà solo nell’istante successivo alla notazione “clinica” che trasferirà sul piano dei sentimenti ciò che ha percepito e non contemporaneamente alla valutazione scientifica. Oppure avverrà esattamente il contrario, e l'iniziale percezione dello stato di sofferenza di una persona amata (e l'impulso a porvi rimedio) lo spingerà all'osservazione clinica per decidere il da farsi per risolvere il problema.
Il fatto che uno studioso di ragni o di vermi arrivi ad amare talmente i suoi oggetti d’indagine dal trovare bellissimi ed amare svisceratamente gli animali che studia, contrariamente o ciò che ne pensa il profano, non infirma la nostra osservazione ma ne è solo un corollario. Infatti la bellezza o la bruttezza, così come l’amore o la deprecazione, non sono fenomeni oggettivi ma unicamente relativi alla soggettività del giudicante. È invece importante rilevare che quando lo scienziato considera analiticamente il suo oggetto di studio prescinde dall’atteggiamento simpatetico che ha fatto di lui un entomologo piuttosto che un botanico, mentre in un altro momento può guardare o pensare ai suoi animaletti con apprensione o simpatia senza attivare per nulla i suoi consueti criteri professionali d’indagine, che riserverà ad altri momenti.
Ma vi è ancora un’altra considerazione da fare a completamento di questo argomento. Qualunque sia la ragione per cui un aspetto della realtà si offra alla percezione involontaria o all’osservazione volontaria vi sono sempre due blocchi di considerazioni che confluiscono nel giudizio generale che se ne da e che restano separati all’origine. Le considerazioni concernenti l’utilità e l’utilizzabilità sono sempre scisse da quelle di piacere o repulsione nei confronti della realtà. L’ammirazione di un subacqueo per l’eleganza con cui si muove uno squalo nell’acqua non ha nessuna possibilità di coincidere col terrore che prova quando ne coglie la minaccia; ciò anche se i due sentimenti possono stare insieme nel determinare la risultante alla base del suo comportamento. Così come la tentazione di un meteorologo di stare fermo mentre il ciclone si avvicina, per coglierne compiutamente la terrificante bellezza, è estranea all’istinto di conservazione che lo spingerebbe a fuggire. In altre parole, sia il subacqueo che il meteorologo, sono sul filo del rasoio dell’esperienza materiale e di quella aiteriale e proprio il sovrapporsi delle due li sottopone ad un terribile stress dovuto alla contrapposizione stessa. Questo tipo di esperienza dissociativa è probabilmente assente nelle maggior parte delle altre specie animali dove l’idema è molto primitiva o irrilevante ai fini del comportamento.
Lo stress materiale/aiteriale di certe situazioni dissociative, certamente comparso in modo netto in una certa fase dell‘ominazione (63), ha probabilmente avuto altresì una ricaduta importante sul piano evolutivo, anche se penso sia molto difficile valutare (penso anche per gli addetti ai lavori) se tale stress abbia potuto addirittura condurre a modificazioni del genoma nell homo sapiens (64) o più semplicemente sia stato fondamentale per l’evoluzione culturale relativamente alle disposizioni emozionali nei confronti di situazioni di attrazione/paura, di repulsione/interesse o di vere e proprie pulsioni di amore/autodistruzione.
L’accesso dell’homo (in una qualche fase della sua evoluzione) alla percezione idemale dell’aiteria ho portato con sé un complesso di situazioni e stati emotivi impensabili prima di quel momento. Se l’attuale struttura dell’idema fosse comparsa all’improvviso avrebbe probabilmente avuto effetti devastanti sulla conservazione della nostra specie, per cui non resta che pensare ad una graduale (sia pure rapida in termini di temporalità cosmica) strutturazione dell’idema quale noi ce la ritroviamo, tale da permettere l’adeguamento delle altre organizzazioni mentali a tale emergenza dirompente. Resta da chiedersi perché della pluralità delle realtà da noi ipotizzata soltanto un’altra (l’aiteria) oltre alla materia (la sostanza che scorre entro noi e attorno a noi) e non “altre” siano diventate accessibili. Probabilmente perché noi non saremmo in grado di “sopportare” il bombardamento di informazioni e sollecitazioni che da esse verrebbero. Ma non possiamo certo escludere che mutazioni dell’homo sapiens, foriere di una nuova speciazione, oppure la comparsa di nuove specie derivate da altre linee biologiche, possano andare verso orizzonti di questo genere. Ma se ciò dovesse avvenire (o fosse già persino avvenuto da qualche parte) noi non lo sapremo mai.
NOTE
NOTE 2.1
(42)Mi riferisco alla cosidetta "disputa
degli universali, che ha contrapposto, tra
l'XI e il XIV secolo i cosidetti "realisti",
sostenitori della realtà dei concetti generali
applicati agli individui (come classi o specie), e i "nominalisti" che negavano
tale realtà, sostenendo che solo i singoli
individui sono reali e ogni generalizzazione
è solo un nome, un "emissione di voce".
(43) Filosofo e teologo francese del medioevo
(fine XI sec.) considerato fondatore del
nominalismo riteneva priva di realtà la Trinità (quale
puro nome) e divine soltanto le tre persone
prese singolarmente.
(44) Max Stirner (pseudonimo di Kaspar Schmidt)
(1806-1856) viene anche considerato il maggiore
teorico dell'anarchismo individualista. Il suo capolavoro, a cui ci riferiamo,
è L'unico e la sua proprietà (1845).
(45) Concetto strettamente derivato da quello
di alienazione. Posto inizialmente da Hegel come oggettivazione
dello spirito assoluto, viene poi ripreso da Marx per indicare
il processo in base al quale ciò che è "proprio"
dell'uomo gli diventa estraneo a causa della
perversa situazione sociale determinata dal
capitalismo.
(46) Va tuttavia tenuto presente l'interessante
fenomeno religioso dell' orfismo. Si è trattato
di una corrente misterico-spiritualistica
nata nel VI secolo a.C. che considerava la
vita come preparazione di un esistenza più
alta, nella quale l'elemento terreno risultasse
superato e "purificato" nell'unione
con quello divino. Nell orfismo anche se
non del tutto esplicitato è presente un dualismo
corpo/anima che avrà notevole influenza nel
pensiero filosofico contemporaneo e posteriore,
soprattutto in quello di Pitagora e di Platone.
(47) Arthur Schopenhauer (1788-1869) nel
suo Il mondo come volontà e rappresentazione (1818) ha teorizzato la "volontà di
vita" quale principio cieco e irrazionale
che governa tutti gli esseri viventi.
(48) Il DAR, come si vedrà più avanti, correla
da un lato quantità e necessità e dall'altro
qualità e libertà.
(49) Ci riferiamo ad esempio ai "seduttivi"
colori e forme di vegetali e animali, che
sono nella realtà "materiale" delle
"funzioni" unicamente al servizio
della riproduzione.)
(50) La formazione, come noi la intendiamo, corrisponde a grandi
linee al concetto tedesco di bildung come lo concepisce Goethe. Vale a dire come
processo formativo della sensibilità individuale.
Nel quale, in un certo senso (come avviene
per le forme della natura) si verifica l'incontro
tra necessità e libertà.
NOTE 2.2
(51) Il dharma nell'Induismo è la legge cosmica che governa
il mondo, creatrice di un armonia alla quale
l'individuo deve concorrere, rispettando
il ruolo che gli è stato assegnato dalla
nascita, in base alla casta di appartenenza
dei suoi genitori. Una rigorosa precettistica
religiosa prescrive per ciascuna casta le
norme di comportamente da rispettare. Il
compimento di tale dovere è uno dei fondamenti
della religiosità induista in generale. Il
dharma possiede quindi questo aspetto di "dovere
etico" assoluto.
(52) Fornirò un breve quadro dei tratti essenziali
del sistema Samkhya. Per esso la realtà è
duplice, costituita dalla prakriti (la materia)
e da infiniti purusa (anime o spiriti individuali).
La prakriti è l'elemento primordiale: origine
e causa di tutte le cose esistenti, caotico,
attivo, incosciente, infinito ed eterno.
Il purusa rappresenta invece la monade spirituale
dell'individualità, la quale (identificabile
anche con il sé) è anch'essa eterno. Ma,
a differenza della prakriti, il purusa è
immateriale, senza forma, inattivo, immutabile
e insensibile. D'altra parte va detto che
la sua esistenza viene percepita proprio
come coscienza dell'individualità. Esso è
inoltre intellezione pura, luce della conoscenza
e stabilità cosmica. A differenza dell'immutabilità
di esso la prakriti è motore inconscio dell
"evoluzione", che determina il
destino delle creature attraverso la legge
del karman (il morto si reincarna in forme
corrispondenti alla qualità delle sue azioni
in vita) che è alla base del ciclo delle
rinascite, il samsara. Al raggiungimento
dell "evoluto" (il proprio purusa)
si oppone l'illusoria e fallace "soggettivazione"
empirica (ahamkara) che è immagine falsa
e sviante del purusa. Questa ignoranza della
verità è causa di quel dolore che impregna
di sé l'esistenza umana. L'uscita da questo
circolo vizioso si ha quando la sostanza
pensante (la buddhi) anch'essa materiale,
perviene alla vera conoscenza. In questo
processo il purusa agisce nei confronti della
prakriti individuale come una calamita, che
senza agire direttamente, l'attira verso
di sé fino al raggiungimento della verità.
A questo punto, superato il rispecchiamento
nell'io empirico, l'io raggiunge il suo autentico
essere in uno stato di superiore, eterno
ed assoluto isolamento.
(53) Già Empedocle aveva sentenziato che
"il simile conosce il simile".
NOTE 2.3
(54) Solo molto più tardi mi resi conto dell'inopportunità
di utilizzare un termine ormai così abusato
e corrotto, sostituendolo con idema.
NOTE 2.4
(55) Questa è una delle ragioni per le quali
il DAR riiene che la "poetizzazione"
della natura sia un fenomeno specificamente
umano, determinato dallaidemale percezione
dell'aiteria che avvolge gli enti della materia.
(56) Il giusnaturalismo è quella dottrina filosofo-giuridica che
sostiene l'esistenza di norme di diritto
naturali e razionali a cui le leggi umane
dovrebbero uniformarsi. Elaborata nel XVII
sec. ebbe come iniziatore Ugo Grozio, seguito
da Locke e Hobbes. Jean Jacques Rousseau
intervenne sul tema ipotizzando un primitivo
e perfetto "stato di natura" (del
"buon selvaggio") che la cultura
umana avrebbe pervertito, favorendo l'iniquità
e la prevaricazione.
(57) Introduco qui il concetto di ragione biologica, quale complesso di leggi necessarie ad
assicurare la continutà della vita in generale
e i rapporti interspecifici. Ciò a favore
delle specie e degli individui in grado di
assicurare, a partire da condizioni ambientali
date, il miglior adattamento e le migliori
prestazioni ai fini della conservazione del
livello evolutivo raggiunto.
(58) Nel senso che riconoscono ad Abramo
la "paternità" dell'apertura del
rapporto diretto tra l'uomo e Dio.
(59) Nell'Induismo e nel Buddhismo, con poche
differenze, l'atman è considerato l'essenza spirituale e la
causa prima e ultima di tutto l'universo.
In tal senso esso viene anche identificato
col brahman, la forza vitale che ha generato e tiene
in vita ogni essere dell'universo. L'idema risulta invece concettualmente vicina al
purusa del Samkhya che è spirito o coscienza individuale, ma
che significa anche semplicemente "persona"
o "uomo".
(60) Anticipo qui che l'aiteria potrebbe possedere degli elementi-base (come
lo sono le particelle elementari della materia) quali unità minime portatrici dei caratteri
dell'aiteria. A queste unità ipotetiche ho
dato il nome di pneumi. Essi potrebbero costituire la "materia
prima" aiteriale che l'idema percepisce, introietta ed elabora, formando
e sviluppando l'idioaiterio. I pneumi potrebbero essere inoltre essere considerati
(per l'idema) anche degli analoghi delle fondamentali
fonti di energia per la sussistenza dei corpi:
quali il cibo, la luce e l'ossigeno.
NOTE 2.5:
(62) Senza entrare nel merito del complesso dibattito
su questo punto, che percorre da qualche
tempo il mondo degli specialisti delle scienze cognitive, basti dire che l’approccio che abbiamo
qui definito “analogico” si basa sul principio
che analizza il funzionamento del cervello
umano come struttura a sé stante, la quale
creerebbe immagini mentali (informazioni)
sul mondo esterno a prescindere dalla realtà
intrinseca presa in considerazione (in tal
senso “analoghe” al reale), mentre per quello
“ecologico” l’informazione è “già” presente negli stimoli
che la realtà (l’ambiente) produce sulla
funzione osservante-pensante, la quale non
fa che registrarla entrando “in risonanza” con essa. Questo secondo punto
di vista, introdotto da James J.Gibson negli
anni ’70 , contestava l’approccio strettamente
cognitivista fondato sull’HIP (Human Information Processing), che basa le proprie ricerche sulle analogie
tra il funzionamento del cervello umano e
quello dei computers. Dal 1976 (con Conoscenza e Realtà) anche Ulric Neisser, uno dei fondatori
delle scienze cognitive, ha accolto la tesi
di Gibson, sia pure con delle varianti.
(63) Viene così definito in antropologia il complesso
dei processi evolutivi che dal primitivo
ominide hanno condotto all’homo sapiens.
(64) Vale la pena riportare il punto di vista
sull’argomento di Konrad Lorenz, esposto
in L’altra faccia dello specchio (Adelphi 1974 pag. 302): «Quando troviamo
che determinanti schemi motori e determinate
norme del comportamento possono essere definiti
generalmente umani, quando cioè la loro presenza è riscontrabile
nella stessa identica forma presso gli uomini
di tutte le culture, allora possiamo supporre
con probabilità vicina alla certezza, che
esse sono programmate filogeneticamente e
che si sono fissate per via ereditaria.».