CAPITOLO 5 (Essere dualisti esistenziali)
5.1 ) Homo sapiens dualis
Per la scienza l'uomo è a tutt'oggi
il migliore (o almeno il più interessante)
prodotto dell'evoluzione delle specie. Il
mammifero che con l'assunzione della posizione
eretta ha liberato le due zampe anteriori
dagli impegni della deambulazione, riqualificandole,
come mani, verso funzioni assolutamente straordinarie
di presa e manipolazione, che sono alla base
di quasi tutte le attività umane e
causa primaria di grandi sviluppi intellettuali.
Ma è il suo cervello ad essersi sviluppato
in massa e facoltà rispetto allo scimpanzé,
col quale condivide l'antenato comune. Esso
ha così affinato le sue funzioni e
ampliato le proprie capacità di prensione
e intuizione della realtà verso orizzonti intuitivi, immaginativi
e logico-computazionali preclusi ai suoi
cugini primati, che ha finito per consentire
all’uomo di travalicare i limiti della sua
natura materiale,.
Però le indiscutibili doti mentali
dell’uomo hanno creato nella sua psiche anche quel complesso di superiorità
che gli ha fatto dimenticare le sue origini
e quindi il fatto di rimanere ancora, sempre
e irrimediabilmente, un animale, ancorché
un pò più evoluto degli altri.
La sua presunzione non gli ha impedito di
autonominarsi principe della terra e di proiettare
la propria eccellenza ideale in un Dio "super-umano",
che ha poi collocato in una fantastica e
celeste trascendenza. Proiezione topologica
che persiste neanche tanto metaforicamente,
a dispetto della consapevolezza che nel cielo
è un pò difficile che Dio possa
starci e che è diventato altrettanto
difficile dargli un qualsiasi altro posto
dove stare, a meno di immaginarlo in un altro
universo oppure, panteisticamente, diffuso
in questo. È abbastanza curiosa questa
sufficienza di immaginarci un nostro creatore
e padre trascendente e poi di disegnare l’universo
in base alla sua presenza, come molti teologi
contemporanei continuano a fare.
Abbiamo già detto che recenti ricerche
sulla materia elementare e sul cosmo abbiano
permesso di ipotizzare che l’universo nel
quale viviamo non sia che uno dei tanti esistenti,
e che all’interno di questo possano esistere
dimensioni spaziali nascoste che sfuggono
a tutti i nostri mezzi di osservazione e
di indagine (82). Ancorché queste
teorie fisiche e cosmologiche siano per il
momento lontane dall'essere confermate, dovrebbero
comunque farci venire il dubbio che il nostro
primato metafisico sia, in definitiva, difficilmente
difendibile. Intendo dire che la nostra possibilità
(già piuttosto opinabile) di raggiungere
i limiti della nostra galassia in "questo"
universo (che peraltro non muterebbe di molto
il rapporto esistente tra la nostra nullità
e la realtà della totalità)
verrebbe decisamentre ridicolizzata dalla
scoperta di altri universi (dove magari c’è
vita), al punto che ogni presunzione diventerebbe
risibile oltre ogni misura. Ma c’è
di più; tutto ciò che noi definiamo
"oggettivo" dovrebbe essere più
correttamento definito "antropico",
poichè noi leggiamo il libro dell’universo
ancora sempre con occhi umani e la realtà
a cui abbiamo accesso resta irrimediabilmente
limitata al nostro piccolissimo raggio d’azione.
Il ché, sia chiaro, non cambia neppure
quando si sia fatto il piccolo passo avanti
che comporta il nostro DAR, il quale tuttavia
apre una breccia non da poco nelle mura di
quel sigillato "castello antropico"
che il monismo ha costruito pervicacemente
nel corso dei millenni.
Fin dall’era neolitica l'uomo, aumentato
nel numero e nelle sue esigenze, ha iniziato
una sistematica trasformazione della Terra
ai propri fini, con operazioni di predazione
delle risorse esistenti spesso cieche e sconsiderate.
La tronfia nobilitazione della nostra specie
si è spinta al punto da staccarla
geneticmente dal resto della biosfera, la quale, madre asservita e sfruttata,
ha finito per costituire un parco di risorse
a disposizione, senza che nessun freno morale
ponesse dei limiti al suo utilizzo arbitrario.
Così il genere umano, giunto oggi
al numero di sei miliardi di individui, deve
fare i conti con un degrado dell'ambiente
e dell'atmosfera inquietanti. E tutto ciò
è avvenuto senza che al suo interno
sia neppure stato trovato un modus vivendi intraspecifico tale da far venir meno le
crudeli regole dei conflitti per la supremazia,
la selezione e la stratificazione tra gruppi
e individui, in un’implacabile logica di
predominio e di asservimento. Anzi, proprio
le sue doti intellettuali gli hanno fornito
i mezzi e le capacità per ogni tipo
di sopraffazione intraspecifica, di cui le
guerre, locali o regionali, sono l'aspetto
più significativo. E tuttavia queste
considerazioni non devono indurci ad avviarci
su un percorso moraleggiante assolutamente
fuori luogo. Si tratta invece di valutare
il passato, il presente e il futuro a breve
termine ancora sempre nell’ottica di un essere
vivente il quale, malgrado i suoi progressi
intellettuali ed etici, rimane fondamentalmente
una bestia tra le bestie. Si direbbe anzi
che l’uomo utilizzando gli strumenti che
gli sono propri si autopromuova sia "secondo"
sia "contro" la ragione biologica che regola la biosfera. D'altra parte, da un punto di vista etologico,
non si vede neppure perché dovrebbe,
al suo livello di evoluzione, aver superato
ed eliminato gli istinti afferenti la sua
natura, che resteranno probabilmente in gran
parte fissi e immutabili anche in avvenire,
se pur correggibili con il raggiungimento
di livelli di civilizzazione sempre più
avanzati.
Nasce allora la clamorosa contraddizione
di un animale che da un lato si è
attribuito un investitura divina e nello
stesso tempo non è stato capace di
andare molto oltre le logiche predatorie
e spietate di tutti gli altri esseri viventi,
dai quali si distingue per il livello evolutivo,
ma non già per la natura. Le capacità
immaginative e astrattive della sua mente
sono certamente straordinarie proiezioni
oltre i limiti della sua intuizione della
realtà, e non meno importanti e significative delle
spesso sopravvalutate capacità della
ragione, ma tutto ciò non lo ha per nulla
staccato dalla materialità che lo
costituisce e lo condiziona. Pertanto, ciò
malgrado e dal più al meno, l’uomo
continua a rimanere legato, come ogni altro
animale, a quelle universali leggi della
necessità, che concernono i quarks come ogni suo neurone. Ma, va detto, senza quelle eccezionali
capacità proiettive non sarebbe neppure
stato creabile, ed ora interpretabile, quello
straordinario fenomeno storico, a un tempo
antropologico (naturale) e culturale (artificiale),
che è il sorgere del "senso del
sacro", a cui ha fatto seguito, attraverso
passaggi per lo più sconosciuti, la
creazione e l'instaurazione delle religioni
organizzate.
Il fatto religioso assume pertanto un’importanza
antropologica particolare, poichè
getta luce sulla struttura mentale dell'uomo
e sulla sua esigenza di dotarsi di riferimenti
ideali ed assiologici, i quali, proiettandolo
in un orizzonte esistenziale che va oltre
il piano animale, sono stati in grado di
soddisfare esigenze psichiche specificamente
umane, peraltro riscontrabili già
in specie che hanno preceduto quella dell'homo sapiens. Per evitare allora di "gettare il
bambino con l’acqua sporca" una filosofia
dell’esistenza che voglia giungere ad una
concezione dell'uomo esaustiva e corretta,
ma che nello stesso tempo contempli e superi
tali ancestrali esigenze psichiche, deve
prendere in considerazioni anche questa importante
realtà storica del sentimento religioso,
per interpretarlo correttamente e collocarlo
in modo adeguato nel contesto antropico.
Tenere conto di ciò non significa
peraltro farci condizionare dall’esigenza
psichica che la religione soddisfa, ma semmai
coglierne il più profondo significato,
in una lettura filosofica dell’importantissima
funzione conservatrice e protettrice della
psiche (che si protegge contro i rischi dissociativi
e disgregativi) all’interno di quel complesso
funzionale a cui concorrono le altre tre
organizzazioni mentali da noi considerate.
In altre parole la ragione biologica ha "programmato" la nostra psiche per funzionare così e non altrimenti,
pertanto bisogna fare i conti con questa
realtà, per vedere che cosa significhi
e quali indirizzi euristici possa fornire.
Il punto di vista scientifico in senso stretto,
che attiene principalmente alla struttura
e al funzionamento dell’organismo umano,
nei suoi rapporti col tutto, non ha molto
da dirci in questo campo, a meno di considerare
tout court scienze la psicanalisi e la psicologìa in generale, che restano comunque utili
(ma limitati) strumenti di indagine funzionale.
L’importante è che si riesca a recuperare
l’autentica realtà aiteriale, sottostante
(ma equivocata o nascosta) all’interno delle
ipostasi spiritualistico-religiose, riconoscendola
in trasparenza come oggetto di un’intuizione
vera, di cui è stata data (ingenuamente
o furbescamente) una lettura scorretta.
Sostituendo al falso "spirito"
divino teista l’aiteria, ed eliminando ogni elemento di fantasiosa
trascendenza, il DAR tenta di recuperarne
la traccia autentica e nello stesso tempo
di cancellare quell’orma contingente e impropria
che si è impressa nella psiche attraverso i millenni. Nell’idema, nucleo dell’individualità, l’aiteria viene percepita, introiettata ed elaborata
in un prodotto umano, ma nello stesso tempo
anche extracorporeo, spendibile nell’etica,
nell’estetica e in tutte le altre forme in
cui si sarebbe espressa, secondo la tradizione
teista, l’anima d’origine divina. Quindi
col DAR si passa da quell’interpretazione
trascendentalistica e impropria, che considera
l’anima come emanazione dello spirito di Dio, a
quella che considera l’idema costituita dalla stessa materia del corpo
e quindi ad esso omogenea. Non solo, ma va
anche sottolineato che l’aiteria non è un "altrove" rispetto
alla materia, ma le sta "al margine" (83),
in uno strettissimo rapporto "topologico"
a dispetto della sua totale estraneità "sostanziale".
L'homo sapiens diventa allora nella prospettiva dualistica
la straordinaria fase di un'evoluzione della
materia che la spinge verso un suo avvicinamento
a quella che potrebbe essere una metaforica
"sorella" d'origine, da cui è
separata forse dalla nascita o forse da un
precedente e ignoto evento cosmico. L'idema, che è presente, a diversi gradi
di evoluzione, in tutto il mondo animale,
ma fors'anche, elementarmente, in quello
vegetale, diventa così elemento "interno"
della biosfera in generale, quale frutto avanzato dell’evoluzione.
L'idema, nella prospettiva dualistica, espunge la
vecchia ipostasi dell "anima",
ma in quanto prodotto emergente della vita
sulla Terra nella sua generalità,
perde anche quel carattere specificamente
antropico che la presunzione umana aveva
conferito all’anima stessa. In quanto teoricamente comune a tutto
il mondo vivente essa, forse (e sottolineo
il forse), ha raggiunto nell'homo sapiens il più elevato livello di funzionalità
ai fini del passaggio dalla pura materialità
a una certa forma di partecipazione ad una
realtà, quella aiteriale, probabilmente preclusa
ai più bassi gradi evolutivi.
È tuttavia evidente come l'idema umana resti uno strumento della materia in ogni caso molto rozzo per aver commercio
con l’aiteria, ma nessuno ci vieta di pensare
che in altri pianeti fuori del sistema solare
o nello stesso avvenire della Terra esistano
o esisteranno esseri viventi dotati di un’idemaassai più evoluta della nostra e in
grado quindi di avere un rapporto con l’aiteria molto meno confuso e precario di quello
che possiamo sperimentare noi. Questa considerazione
ci rende anche consapevoli del lungo cammino
che potrebbe attendere la biosfera, prima che possa ragionevolmente raggiungere
livelli da produrre un essere vivente capace
di costituire un vero ponte di comunicazione
con l’aiteria o con gli altri presumibili reali che abbiamo ipotizzato.
Ma, come è già stato detto,
la reciproca "estraneità"
di aiteria e materia è assai lontana dal concetto di trascendenza
dello spirito rispetto alla materia posto dalla religione, che presuppone un rapporto gerarchico tra
ciò che trascende e ciò che
è trasceso. Nel DAR i due ambiti, e ciò che li costituisce, sono reciprocamente
indipendenti e con la stessa dignità
ontologica. L'essere dinamico(o divenire) della materia, nella sua provvisorietà, sembrerebbe
(ma questa potrebbe essere solo una mia "inevitabile
deformazione antropica") rivelare tuttavia
un "muovere fuori di sé verso
altro" molto più spiccato rispetto
all'essere, probabilmente più stabile, dell’aiteria. Ciò equivale a dire che la materia rivelerebbe in più la capacità
tendenziale di superare i propri confini
e le proprie dimensioni strutturali, proiettandosi
verso la pluralità della realtà generale. Questa capacità sembrerebbe
rivelarsi nel fatto che essa, attraverso
l'idema, diventa realmente una co-creatrice delle
forme dell’aiteria. Per portare alle estreme conseguenze questo
discorso "a ruota libera" sembrerebbe
allora che la materia possa avere la capacità di andare
verso l’aiteria. Questaparrebbe invece incapace di fare altrettanto,
proprio perchè non sembrerebbe venire
incontro alla materia, ma al contrario sottrarvisi, ed è
questa la ragione per cui siamo indotti a
pensarla fondata su un essere più
"stabile". Come si vede nel DAR
il rapporto tra materia e aiteria risulta capovolto rispetto a quello delle
filosofie ideologie spiritualistiche e delle
ideologie religiose, dove è lo spirito
ad essere mobile e andare alla materia bruta
e immobile creandola. (84)
Allora l'homo sapiens, in termini dualistici, potrebbe essere
considerato un avamposto biologico verso
la realtà "plurale" che
abbiamo ipotizzato; essendo capace, già
oggi, di gettare uno sguardo oltre i limiti
della materia. E forse in avvenire, per evoluzione propria,
o quale materiale base per ulteriori mutazioni
genetiche, anticipatore di forme più evolute
della materia ed ancora più aperte
verso ciò che oggi ci è totalmente
ignoto. Un ignoto che non è lontano,
come le galassie in fuga, ma "qui",
negli anfratti di una realtà complessa,
che i teologi e i filosofi deputati hanno
più o meno sempre consapevolmente
o inconsapevolmente voluto (o dovuto) semplificare
ipostatizzando una monistica realtà
"una e unitaria", per mantenere
a un basso livello quelle tensioni che avrebbero
potuto mettere in crisi una psiche non ancora abbastanza evoluta, la quale,
per ragioni di omeostasi, non poteva accettare una realtà
plurale che avvertiva come potenzialmente
pericolosa.
5.2) Essere ed esistere
Se Heidegger si preoccupava che la sua ontologia non venisse scambiata per esistenzialismo, la mia preoccupazione nello stilare queste
pagine è esattamente opposta. La consapevolezza
della mia materialità e dei limiti
del mio pensiero mi precludono la presunzione
di indagare l'essere in quanto "origine e trascendenza"
dell’esistente. Se contrappongo l'essere che sta "dentro l'universo" al
nulla che potrebbe stare fuori e se uso termini
come essere dinamico ed essere (probabilmente) stabile per designare ciò che sta alla base
dei due ambiti della realtà, non per questo spero di aggiungere qualcosa,
ontologicamente, al puro suono delle parole
che li designano. Essi sono utilizzati come
semplici termini di riferimento, per indicare
ciò che deve essere supposto come
origine, causa e sostanza di ciò che esiste, senza che di essi
si possa avanzare alcuna ulteriore connotazione.
L'essere per il DAR è semplicemente la totalità
degli enti reali, poiché, senza enti reali
a testimoniarlo l'essere semplicemente "non
è". Ma se vogliamo concederci una licenza
poetica possiamo azzardarci a dire che forse
si tratta della misteriosa "potenza"
a cui va riferito l "atto" dell'esistere del nostro universo nel suo complesso; e
tuttavia noi dell’essere in ogni caso potremmo sempre e soltanto
percepire (kantianamente) il mostrarsi dei
suoi effetti. E con un processo di riduzione
al "certo", alla fin fine, l'unica
esistenza della quale ci possiamo veramente
occupare è ancora sempre soltanto
la "nostra". E ciò ci riconduce
al "primato" ontologico che avevamo
riconosciuto all’individualità a suo tempo, quando l’avevamo assunta quale
punto di partenza delle nostre ricerche.
È infatti la "nostra esistenza"
in rapporto al "tutto" il vero
oggetto del DAR. Tutto quello che noi possiamo
pensare di ciò che sta fuori di noi
è il frutto delle limitate facoltà
intellettive di cui disponiamo e tuttavia
non possiamo contare su altro. L'importante
è non tarpare le piccole ali del nostro
intelletto e rinunciare a porci le domande che l'esistere ci pone, accettando passivamente le allettanti
risposte preconfezionate che ci vengono offerte
dalle ideologie religiose, oppure, al contrario, limitandoci ad un
monismo materialistico che ci preclude ogni apertura all’ignoto in cui siamo immersi. È in questo
senso che il DAR è anche una filosofia
esistenzialistica, avendo per oggetto soprattutto
l’esistenza dell’uomo. Ma degli esistenzialismi laici noti e più recenti non possiede quel
taglio intellettualistico da cui sono pervasi,
i cui esiti vanno dall'ontologia mistica
(85)alla surrogazione della religione, oppure
verso un libertarismo velleitario, diventato
l'intrigante e ambiguo substrato di mode
culturali e comportamentali di carattere
anticonvenzionale e disinibito (86), che
hanno assunto il carattere di "estetismi"
alla moda. Il DAR è invece un esistenzialismo terra-terra, per l’uomo della strada, in
cui prevale il buon senso comune unito ad un pizzico di pragmatismo; caratteristiche che lo mantengono lontanissimo
dalle acrobazie dell’intelletto e della ragione
fini a se stesse.
5.3) Il Bene e il Male.
I due termini indicano concetti interpretativi
e di riferimento di enorme importanza, anche
linguistica, i cui significati molteplici
coprono tutta la complessa gamma dell'esperire
umano. In origine essi devono essere stati
delle semplici espressioni legate al piacere
e al dolore corporei, poco dopo devono essere
diventati segni verbali del desiderabile
e dell'indesiderabile, soltanto in seguito
hanno acquisito, per correlazione, analogia
od estensione, la vasta gamma di accezioni
attualmente in uso. Tuttavia è nel
campo culturale e specialmente in quello
metafisico che bene e male hanno avuto lo
sviluppo più sorprendente, allontanandosi
gradualmente dal significato primitivo sino
a stravolgerlo ideologicamente nel reciproco
opposto. Così la trasgressione della
legge divina che produce piacere può
essere considerato male e il dolore sopportato
in omaggio alla divinità può
essere ritenuto bene.
Ma la relatività di male e bene è di più vasta portata, poiché
il desiderio è un impulso che va in mille direzioni
talvolta opposte. Così il danno di un'individuo
può andare a vantaggio dell'altro, fino all'esito
estremo espresso dal proverbio latino "mors
tua vita mea". E tuttavia, uscendo dagli
abusi dell'ideologia, noi possiamo chiederci
se dobbiamo abbandonare il male e il bene
al puro relativismo espressivo o tentare
di attribuire ai due termini un significato
meno vago, dotato di un significato univoco
e definito che non contrasti il buon senso
e la ragione.
In una prospettiva dualistica emerge immediatamente
una difficoltà in più, poiché
ci dobbiamo porre preliminarmente il quesito
circa la legittimità dell'uso della
coppia di opposti relativamente ad entrambi
o a uno solo dei due ambitidella realtà dei quali ci stiamo occupando. E in ogni
caso, quali potrebbero esserne i rispettivi,
e diversi, significati? Per fortuna possiamo
sgombrare facilmente e subito il campo di
un corno del problema, affermando che, probabilmente,
ove sia presumibilmente assente una qualche
forma di divenire di tipo materiale, ed è
il caso dell’aiteria, diventi assurdo cercare di applicarvi questi
due concetti meramente antropici. Dove c'è,
presumibilmente, essere stabile e non divenire (essere dinamico) in senso materialistico-evolutivo, non
possono esistere stati conflittuali tra le
forme diverse dell’aiteria relativamente al binomio bene/male.
Per altro verso, essendo i modi d'essere
fondamentali dell’aiteria quelli della libertà e della qualità, non possiamo di conseguenza introdurre
nell'ambito dell’aiteria gli effetti delle leggi della necessità, inerenti alla sostanza e al divenire della materia, che possono ammettere gli
esiti opposti del "positivo" e
del "negativo". Resta persino da
vedere se, e in quale modo, abbia senso applicare
la nostra coppia di termini all'ambito della
stessa materia, dal momento che in essa tutto è
in trasformazione e in evoluzione continua, per cui i meccanismi della necessità (alterabili dal caso), con lo scambio e il trapasso delle cause
negli effetti (compresi quelli di feed-back) (87), li rendono a volte sovrapposti, confondibili
e talvolta interscambiabili.
Che a proposito della materia inorganica
sia impossibile decidere in una reazione
chimica, dove determinate sostanze diventano
altre, se ciò che avviene sia bene
o male, se non in termini di utilità
o danno per gli uomini che la osservano,
la effettuano o la subiscono, è fuori
discussione. E la stessa cosa si può
dire di quella materia organica solo virtualmente
vivente che precede o segue la vita. Le cose
stanno in modo diverso se si tratta di materia
vivente. Le cellule che costituiscono un
corpo si rigenerano continuamente e la morte
di una cellula e funzionale alla nascita
di quella che la sostituisce; proprio questo
consente la sopravvivenza del corpo (88).
Ma se dall'unità minima che costituisce
la materia vivente ci spostiamo sull'essere
vivente pluricellulare nel suo insieme, il
binomio vita/morte così espresso diventa
immediatamente un'antinomìa. La "nostra"
vita si distingue e si contrappone alla vita
in generale e il nostro vivere diventa il
sommo bene da difendere al di là di tutto. Persino
il piacere da cui siamo biologicamente attratti
passa in seconda linea, al punto che siamo
disposti a soffrire per una terapia o un
intervento chirurgico che ci assicurino la
conservazione della vita.
Il fatto è che l'arresto cardiaco
in un essere vivente non è una pura
trasformazione, ma la cessazione funzionale
di un entità conchiusa ed isolabile
del "tutto" biologico. Ciò
risulta ancora più evidente se si
pensa che dal punto di vista chimico resta,
almeno per qualche tempo, immutata la stessa
consistenza corporea e la sua composizione
molecolare. Il male sta allora proprio qui,
nel passaggio dell’individualità a una totalità che conclude un processo dove si passa dall'esistenza
di un "io" al suo annullamento,
mentre la putrefazione che segue la morte
è una normale trasformazione chimica,
dove la natura e la somma degli atomi rimane
invariata. Ma se il "soffio vitale"
è quasi un nulla rispetto alla struttura
basilare della materia, esso è tuttavia
la forma di essa che ne testimonia l'evoluzione
e il progresso, per questo deve essere considerato
il valore più prezioso da essa conseguito.
Né è possibile spingerci oltre,
per affermare che un valore ancora maggiore
possano avere la psiche, la ragione, l'intelletto o l'idema, poiché si tratta di mere funzioni
dell'organismo vivente, che hanno fine nel
momento in cui si verifica la morte cerebrale.
Ma la dialettica della vita, con le implicazioni
sopra ricordate, sotto il profilo teorico
(e quindi generale) non ammette soltanto
il nostro punto di vista individuale, ma
anche quello collettivo del nostro gruppo
o del nostro popolo, anzi, quello dell'intera
specie. Però questo legittima allora
anche il punto di vista virtuale di ogni
altra specie vivente e persino la somma di
tutte le specie viventi, quindi la biosfera nel suo insieme. Allora, se noi vogliamo
adottare un criterio valido per l'utilizzo
dei concetti di bene e di male ci vediamo costretti, logicamente, ad includere
i punti di vista virtuali che riguardano
tutte le forme di vita, con le quali siamo
apparentati dall'origine comune. Se il criterio
deve avere validità generale noi dobbiamo
quindi abbandonare il riferimento al desiderio
individuale, che ha una pura valenza psicologica,
passando decisamente a quello della generale
"volontà di vita", che ci
orienta verso l’autoconservazione e la sopravvivenza.
Il termine, che viene mutuato da Schopenauer
(89), nel DAR assume però un significato
un pò differente. Per noi la volontà di vità è irrazionale e cieca soltanto a
livello individuale, mentre per Schopenauer
essa assume carattere di totalità.
Sotto il profilo della totalità invece
per noi la volontà d.v. risponde pienamente alla ragione biologica, che la prevede e la include. Ragione biologica che potrebbe anche venir definita come una
specie di " intelligenza della materia
evoluta", in quanto la regola e la guida,
per la conservazione e il miglioramento adattativo
(nella sua generalità) al mondo inorganico
che l'accoglie.
Emerge allora chiaramente che la coppia bene/male e i suoi derivati hanno senso unicamente
in relazione alla vita nel suo insieme, ma che il loro significato
non può essere neppure riferito solamente
agli estremi della vita e della morte; perciò
dobbiamo anche includere tutto ciò
che, sotto forma di situazioni, accadimenti
o corollari ad essi, si colloca nel corso
vitale di ogni esemplare della biosfera nell’arco
dell’intera esistenza, che sta tra il "venire"
alla vita e l’ "andarsene" della
rigidità cadaverica. Non è
soltanto più questione di esistere
o no, ma anche di "modalità"
dell'esistere stesso, che sono soggettivamente
forse più importanti del vivere o
del morire.
A questo punto possiamo trarre una conclusione,
asserendo che è bene tutto ciò che in qualsiasi modo afferma
la vita, la conserva, la sviluppa e la migliora,
per contro è male tutto ciò che la nega, la compromette,
la fa regredire e la peggiora. Ne deriva
che anche il danneggiamento di un qualsiasi
strumento o mezzo che accompagni utilmente
la nostra vita è un accadimento negativo.
La precarietà della vita in sé è accompagnata da quella
di ogni nostro potere o attributo, e la considerazione
di ciò ci consente un'ulteriore formulazione
più estensiva (ma non priva di qualche
ambiguità) che potrebbe suonare così:
<<Nel divenire della materia e nel suo mutamento continuo è bene ciò che comporta conservazione, incremento e progresso, mentre è male ciò che comporta distruzione, riduzione e deterioramento.>>
Ma che ne è dei significati metafisici
ed etici che il bene e il male hanno assunto in tutte le religioni e in
tutte le culture ad ogni latitudine e longitudine?
Diciamo che il DAR non nega aprioristicamente
ogni valore a queste determinazioni tradizionali
e culturali, ma che si astiene dall’esercitare
un giudizio su parametri che sono specifici
ed inerenti a forme di civiltà a tutt’oggi
non ancora sovrapponibili, e che quindi è
praticamente impossibile stabilire criteri
univoci per pesare valori e disvalori che
eccedano i criteri su esposti. I quali, eleggendo
la vita, ovvero la sua conservazione e il
suo miglioramento, a metro di giudizio, posseggono
quei caratteri di universalità difficilmente
attribuibili alle singole culture e alle
morali locali.
Ma avendo noi posto dualisticamente materia ed aiteria ed inoltre, in un certo senso, contrapposto
necessità a libertà, non possiamo neppure astenerci dal pronunciarci
in proposito. Ebbene, dal punto di vista
dualista (e coerentemente con quanto fin’ora
esposto) non possiamo neppure dire che la
libertà sia più prossima al bene di quanto
lo sia la necessità, dove si tenga conto che questi due termini
hanno soltanto un significato antropologco
e non cosmologico. Allora diviene evidente
che ogni affermazione della libertà individuale, contro ogni forma di costrizione, limitazione
od attentato sia da parte delle forze della
natura, sia a causa di altre forme di vita
(virus, batteri, ecc.), sia per cause endogene,
esogene, ambientali o sociali, deve essere
considerate un valore correlativo al bene unicamente "per l’uomo" nella
sua singolarità; ma a questo bene, ribadisco, non può essere concesso
alcun valore più estensivo che vada
oltre il "per me" o il "per
te".
5.4) Trasformazione e persistenza.
Nel paragrafo precedente abbiamo tematizzato
la vita e le abbiamo riconosciuto il carattere di
sommo bene per quella porzione di universo che ci concerne,
ma abbiamo anche sottolineato che non è
possibile disgiungere la morte dalla vita senza cadere negli schemi acritici delle
ideologie. Si tratta delle due facce della
stessa medaglia, e diventa persino difficile
affermare, malgrado ciò che abbiamo
sostenuto sopra, che la morte di un individuo
sia "in senso assoluto" male. È, tutt’al più, a livello
di specie che la scomparsa può ritenersi
un male quando depaupera la "diversità"
biologica, ma a livello del singolo e da
un punto di vista generale tale considerazione
è abbastanza irrilevante. E tuttavia, se
il DAR è un filosofia dell’esistenza,
che vuole essere strumento utile per la vita
di chi lo faccia proprio e lo adotti come
concezione del mondo, è indispensabile affrontare anche
il tema della morte. Ma qui dobbiamo essere molto cauti, poichè
ci addentriamo su un terreno concettualmente
pericoloso, dove è facile sia utilizzare,
più o meno consapevolmente, elementi
psicologici piuttosto che biologici, sia
cadere nelle prospettive culturali di un
tradizione millenaria, ricca di elementi
letterari e poetici, ma in quanto tali spesso
irrealistici. La morte è un evento variamente visto e sentito,
ai limiti amato/odiato od esaltato/disprezzato.
La morte è da sempre e per lo più sentita
come "fine" di qualcosa ed "inizio"
di qualcos’altro, ascesa all’essere od immersione nel nulla, accesso al Tutto o perdita di tutto, ingresso
nel regno di Dio o condanna a rinascere per
espiare.
Nella prospettiva dualistica è evidente
che il problema della morte diventa il problema dell’idema e dovremo limitarci a procedere per induzione,
evitando di cadere nella trappola delle suggestioni
metafisiche. Abbiamo detto che l’idema riceve ed elabora aiteria e che ogni forma di questa è svincolata
dai destini della materia vivente, in quanto
appartenente ad un altro ambito. Inoltre noi, con la morte, patiamo l’annullamento
della nostra persona, ma nello stesso tempo
partecipiamo alla conservazione della vita in generale. In altre parole, la "nostra"
morte va contro la "nostra" volontà
di vita, ma a favore della volontà di vita nella sua generalità. In un certo
senso la volontà della parte va contro la volontà del tutto, ma la parte riscatta questa colpa morendo.
Ma che cosa succederà al "prodotto
aiterico" che l’idema ha costruito quando essa muoia? Di questo
prodotto, che avevamo chiamato idioaiterio, il quale non possiede le qualificazioni
né della materia né della vita (in quanto di diversa natura) che "ne
è" quando si trovi privo di supporto
materiale? Prima ancora però di abbozzare
una risposta emerge un’obiezione alla domanda
stessa, che potrebbe suonare: e perchè
mai l’idioaiterio dovrebbe avere bisogno di quel supporto
"per essere"?
Vediamo: se tale prodotto è svincolato
dalle leggi della necessità allora (contestualmente al decesso del corpo)
esso dovrebbe poter accedere a quel mondo
della libertà che l’aiteria costituisce (e di cui l’idema era ad un tempo testimone ed anticipatrice
senza esserne partecipe) già nella
sua fase di "formazione", senza
che l’accesso all’ambito che gli è
proprio (l’aiteria) debba attendere la morte di quella materiale
"macchina percettrice e formatrice"
che è l’idema. Ciò ci permetterebbe forse addirittura
di ipotizzare che già nel corso della
vita individuale una qualche forma aurorale
dell’idioaiterio goda già di esistenza autonoma in
grado di rapportarsi all’aiteria nella sua globalità? Forse.
Ma allora, potremmo noi concludere che l’idioaiterio può venire supposto come un entità
"reale" anche "al di fuori"
della vita individuale che lo genera e lo
supporta, durante la quale peraltro esso
si "forma"? Se ne potrebbe perciò
dedurre che in quanto figlio del nucleo della
nostra individualità (l’idema) e in quanto sottratto per la sua natura
alla necessità inoppugnabile della materia, l’idioaiterio debba stare "tendenzialmente"
(e fin dal suo sorgere) non "dentro"
la materia, ma "ai margini" di essa?
In ogni caso (ma sull’argomento torneremo)
dobbiamo concludere che l’idioaiterio (che persiste "al margine" del
nostro cadavere) "entra" (o "rientra")
sotto nuova forma nell’ambito che gli è proprio? Ci siamo forse
reinventati una forma camuffata di immortalità dell’anima? Decisamente e con tranquillità possiamo
rispondere: no! Infatti non è l’idema che sopravvive, poiché in ogni caso
lo sarebbe soltanto il suo "prodotto",
quale elaborazione di una "materia prima"
aiteriale di cui l’idema non è parte e che può soltanto
percepire e trasformare. Noi allora siamo
legittimati a ritenere che l’idioaiterio possa sopravvivere alla morte dell’idema, ma in ogni caso non per quanto tempo: forse
ciò potrebbe durare soltanto un istante!
Già, ma è la materia che ha creato il tempo, avendolo come coordinata; può l’aiteria avere un tempo o collocarsi nel tempo? Ne riparleremo.
5.5 Il destino.
Il concetto, nella sua accezione comune,
è abbastanza banalizzato, diventato
ormai quasi un’idea terapeutica per l’accettazione
di noi stessi o di ciò che ci compete
e ci circonda, insieme con la deresponsabibilizzazione
per la nostra apatia o per la nostra incapacità
di scegliere e di decidere. In termini filosofici
la sua storia ha radici lontane e si interseca
con quella del fato, già presente nella più lontana
mitologia greca, che ha assunto nel mondo
romano persino le connotazioni di un dio.
Ma più in generale possiamo dire che
il destino viene considerato come una forza misteriosa
(una "vis a tergo"), razionale
o irrazionale non si sa, che in modo ineluttabile
determina tutto ciò che avviene nell’esistenza
di un individuo, di una famiglia, di un popolo,
dell’umanità, del pianeta. Quindi
storicamente il concetto di destino, più che riferito al singolo (a cui
viene più spesso riferito il concetto
di fato), riguarda il mondo nella sua totalità
ed è stato anche interpretato come
"causa necessaria del divenire"(90) . In questa accezione è
stato inteso talvolta anche come provvidenza, ed evidentemente ha creato qualche problema
a filosofi o teologi preoccupati di non inficiare
il libero arbitrio e la libertà dell’uomo in generale
(91). Il punto di vista del DAR (che lo assume
per ora soltanto dal punto di vista individuale)
si discosta nettamente da quanto sopra delineato,
infatti esso vede il destino come un "sistema" di cause, che
disegna un "progetto" di vita al
quale, ognuno di noi, involontariamente,
si uniforma nel proprio pensare e specialmente
nel proprio agire.
Da un punto di vista etologico e psicanalitico
si sa che le esperienze vissute nel periodo
infantile sono determinanti, almeno quanto
le caratteristiche ereditate per via genetica;
se ad esse si aggiunge il contesto ambientale
e le successive incrostazioni esperienziali
si ha un quadro abbastanza chiaro di ciò
che si intende nel DAR con destino. A completamento del quadro si aggiunga
che, in termini fisiologici e non patologici,
il destino come noi dualisti lo intendiamo ricorda
per un verso la freudiana coazione a ripetere, che è quell’inconscia tendenza alla
ripetizione, in frangenti analoghi, di modi
di atteggiarsi e di comportarsi costanti
(perchè condizionati dal proprio passato)
ai quali è molto difficile sfuggire.
Ma nello stesso tempo per il dualista il
destino è qualcosa che lo concerne positivamente,
che attiene la sua personalità, e
che quindi non va solo accettato ma, entro
certi limiti, condiviso ed approvato.
Nel DAR gli elementi-agenti che vanno a determinare,
quali concause, il "progetto destinale"
sono: 1) l’eredità genetica, 2) gli imprinstings infantili, 3) la condizione, 4) la situazione, 5) il ruolo, 6) la classe sociale, 7) il censo. La somma funzionale di questi agenti delinea
un percorso esistentivo nel quale noi siamo
immessi e dal quale può essere tanto
difficile quanto, in taluni casi, inopportuno
derogare troppo. Detto questo, ne deriva
che quando noi parliamo di libertà umana (e più propriamente di eleuteria(92)) in senso corrente (cioè esistentivo)
noi ne dobbiamo riconoscere la relatività,
senza inseguire fantasmi velleitari e ideologici
(93) che ci allontanerebbero dalla realtà. Vediamo ora nel dettaglio questi elementi.
Dell’eredità genetica non c’è molto da dire, se non che
ci riferiamo ai risultati delle ricerche
scientifiche in proposito, sia genetiche
in senso stretto, sia etologiche e psicologiche,
che su questo argomento hanno già
chiarito quanto basta per definirne l’importanza
fondamentale nella determinazione del carattere
individuale, nonché delle predisposizioni,
capacità o incapacità, tendenze
di pensiero e di comportamento.
Per quanto riguarda gli imprintings infantili sono state le ricerche e le esperienze
di Konrad Lorenz con gli animali, intorno
alla metà del ‘900, a dire una parola
decisiva in proposito (94). E le ricerche
successive, sue e di altri etologi, non hanno
fatto altro che confermare l’importanza di
questo fattore di condizionamento comportamentale
nell’uomo relativo alle primissime fasi della
vita, anche molto al di là dei termini
di partenza del suo scopritore.
La condizione potrebbe quasi essere considerata elemento
superfluo, poiché è in realtà
una risultante di eredità genetica ed imprintings, ma ad essa concorrono e si sovrappongono
altri fattori concomitanti e divergenti dell’esperienza
adolescenziale e giovanile, per cui essa,
nell’adulto, assume caratteri definiti che
ci consentono di porla indipendentemente
da essi.
La situazione è il "medium", l’elemento-ambiente
esterno, in cui l’individuo è inserito,
si muove ed agisce; potremmo anche definirlo
il contesto geografico-temporale-sociale
nel quale la persona viene a trovarsi. La
situazione può assumere pertanto un
carattere contingente, come anche stabile
o ripetitivo, possedere carattere di eccezionalità
o di normalità, come di transitorietà
o costanza, ma in ogni caso è un decisivo
fattore di condizionamento dello stato d’animo
di un individuo e del suo comportamento.
Come ognuno di noi ha sperimentato, siamo
pesci abituati a nuotare in una certa acqua,
se ci trasferiscono altrove andiamo incontro
a un disagio e a difficoltà più
o meno accentuati, a seconda del grado di
"desiderabilità" e di "congenialità"
del nuovo ambiente. In termini psicanalitico-energetici
potremmo dire che le situazioni possono essere
(freudianamente) a basso od alto investimento psichico, a seconda che producano stress o relax.
Il ruolo. Tutti noi ne abbiamo uno, in famiglia,
nella professione o nello svago. Figlio o
genitore, capo o subalterno, bravo o incapace,
in ogni frangente della nostra vita, salvo
forse quando dormiamo, siamo chiamati a sostenere
una "parte", più o meno
congeniale e più o meno facile, che
determina e plasma il nostro carattere, determinando
spesso la stima o la disistima di sé.
La classe sociale. Questo agente è stato preso in considerazione
per quanto nel cosidetto "primo mondo",
ovvero in quello a diffusa democrazia e tecnologia
avanzata, esso possa considerarsi praticamente
assente o comunque poco rilevante, coincidendo
praticamente col censo. Ma se noi ci spostiamo
in aree del pianeta dove sopravvivono vecchie
stratificazioni sociali (come l’India delle
Caste o certe società africane od
asiatiche sottosviluppate) quest’ultimo agente destinale può assumere un’importanza assolutamente
rilevante. In questi contesti diventa non
meno importante un fattore come il sesso
di appartenenza (che di norma potrebbe considerarsi
compreso nell’eredità genetica), poiché
qui caratterizza in modo pesantemente negativo
la donna, che in quanto tale può subire
dei condizionamenti e delle limitazioni crudeli
e aberranti.
Infine dobbiamo considerare il censo, agente del quale credo che siamo tutti
disposti a riconoscere l’importanza. Questo
fattore sociale, prevalentemente mutevole
e dinamico nel mondo sviluppato, può
coniugarsi invece (nei contesti molto tradizionali
o sottosviluppati) al sopracitato agente
della classe sociale, col quale abbastanza spesso si identifica.
Che la quantità di danaro di cui si
può disporre sia un fattore importante
della nostra esistenza lo possono negare
soltanto gli ipocriti. Il fatto che essere
ricchi renda più facile essere buoni,
tolleranti e generosi è quasi una
tautologia. Noi non demonizziamo il danaro
e tuttavia per la prospettiva nella quale
Il DAR ci pone il suo ruolo è poco
importante. A meno che non si aggiunga che
con i soldi sia più facile accedere
ai libri di poesia, alle esposizioni di pittura,
ai concerti, al teatro, al cinema e ad ogni
altro accadimento culturale che migliori
la nostra sensibilità estetica. In
questo caso possiamo concludere che sì,
i soldi favoriscono la possibilità
(si badi"solo la possibilità")
di sperimentare eventi idemali di carattere
estetico. Ma il campo dell’esperire idemale,
come vedremo, è molto più ampio
e profondo.
Dopo aver definito il destino, secondo il DAR, ci si può chiedere
quale utilità pratica ne derivi per
la nostra esistenza. Diciamo allora che esso
è una sorta di "risultante convenzionale"
costituita da una serie di parametri, altrettanto
convenzionali e che può servire come
strumento di auto-analisi delle proprie vicende
esistentive. O come uno strumento per leggere
il presente alla luce del passato, cercando
con ciò di capire un pò meglio
perché le cose che ci riguardano vadano in
un certo modo piuttosto che in un altro.
Ciò detto, occorre però sempre
tenere presente che se il destino agisce come una corrente che ci porta sempre
in una certa direzione vi è sempre
la possibilità che il caso scompigli questo piano, facendo sì
che i sopraggiunti accadimenti casuali "ridisegnino"
il progetto destinale in modo anche sostanzialmente diverso da
quello precedente. Quindi il destino ci condiziona, ma questo condizionamento
può sempre ridursi o addirittura annullarsi
in ogni momento a causa di accadimenti casuali
di grande impatto esistentivo.
Abbiamo indicato sette parametri determinabili
più uno indeterminabile e imprevedibile
per sottolineare il fatto che sono sempre
molteplici i fattori che concorrono a imprimere
una direzione e a "disegnare" il
corso della nostra vita. E abbiamo fatto
questo per sottrarre il destino a quella
tradizionale idea di "strada" precostituita
(dalla volontà di Dio o di qualcos’altro)
a cui saremmo legati nel corso della nostra
avventura esistenziale, il che ci sembra,
oltre che ridicolo, pericolosamente sviante,
poichè ci depaupaera a priori della
nostra eleuteria, che può essere considerata senza
alcuna esistazione il bene più prezioso
di cui disponiamo: un bene più prezioso
dello stesso vivere.
NOTE
NOTE 5.1
(82)Ci riferiamo alla già citata Teoria delle Superstringhe.
(83) Usiamo questa espressione figurata per
indicare la modalità nella quale l'aiteria si pone rispetto alla materia, richiamandoci al metaforico "universo
spugnoso" avanzato a suo tempo.
(84) Ma non rispetto al sistema Samkhya, dove è la prakriti (la materia) che va verso il purusa (lo spirito individuale) in cui si annulla. Secondo una metafora
già citata il purusa (che è inerte e stabile) agisce sulla prakriti (evolventesi e caotica) come la calamita
agisce sul ferro.
NOTE 5.2
(85)È il caso della filosofia dell'ultimo
Heidegger.
(86) Fenomeno di indubbia rilevanza sociale
e di costume è stato, nel decennio 1950-1960,
il diffondersi dell'esistenzialismo ateo di Sartre in una certa élite giovanile e
intellettuale,con notevoli ricadute nel mondo
letterario e dello spettacolo. Ciò avvenne
specialmente a Parigi, ma si diffuse poi
nel resto della Francia e in altri paesi
dell'Europa Occidentale.
NOTE 5.3
(87) Il termine inglese viene comunemente
tradotto in italiano con retroazione. Di origine elettronica ed informatica il
termine è entrato anche in biologia e sta
ad indicare l'effetto di un prodotto del
processo di trasformazione che va ad attivare
od inibire il comportamento di un agente
primario del processo stesso.
(88) Questa affermazione nella biologia contemporanea
è diventata vera sotto molteplici aspetti.
Tra essi è molto interessante il fenomeno
dell'apoptosi (o suicidio cellulare) grazie al quale le cellule che sono diventate
inutili nella costruzione dell'embrione si
lasciano morire per lasciare spazi vuoti
che consentano il modellamento della struttura
animale. Uno dei più assidui ricercatori
e tra i massimi studiosi di questo fenomeno
è il francese J.C.Ameisen che nel libro La sculpture du vivant (tradotto in italiano con Al cuore della vita) espone le sue esperienze e ne fornisce
un'interpretazione molto interessante.
(89) Arthur Schopenauer ha posto la "volontà
di vita" a base del suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Essa è da lui concepita come l'impulso
universale che sta alla base della vita.
Come forza originaria, inconsia ed irrazionale
essa domina il mondo ed è causa primaria
della sofferenza che lo pervade. Soltanto
l'uomo è in grado di prenderne coscienza
e di sottrarvisi, ma per far questo deve
prendere le distanze dal mondo fenomenico
(della Rappresentazione), sopprimendo il desiderio ed entrando in uno stato contemplativo che
gli renda accessibile il mondo delle idee
(attraverso l'arte, la compassione e l'ascesi). È evidente in questa filosofia l'influsso
delle filosofie ascetiche indiane che cominciano
ad essere note in Europa intorno alla fine
del '700.
NOTE 5.5
(90) Dagli Stoici, che parlarono apertamente
del fato negli stessi termini di provvidenza, quale governo divino degli accadimenti
nel mondo in funzione di un ordine perfetto
e immutabile.
(91) È abbastanza interessante la ripresa
del concetto di destino da parte della filosofia moderna. Nietzsche
e dopo di lui gli esistenzialisti Heidegger
e Jaspers hanno dato del destino un'interpretazione
di carattere non costrittivo, ma non privo
di ambiguità. Per il primo l'accettazione
di esso diventa dionisiaca accettazione della
vita (espressa come amor fati). In Heidegger
la realizzazione del proprio destino è la
decisione di ritornare in se stessi nella
ripetizione delle proprie possibilità; ciò
valendo come riaffermazione della propria
autenticità e ricerca delle opzioni ad essa
connesse. In Jaspers il destino è visto come
l'identità dell'io nel suo rapporto col mondo.
(92) Indichiamo con questo termine, che in
greco significa appunto libertà "umana"
(e aggiungiamo noi: esistentiva) nel senso
di indipendenza da costrizioni (ai limiti
della sfrenatezza). Lo abbiamo fatto per
tenerla distinta dal concetto di libertà,
che avevamo extrafisicamente ed esistenzialmente
opposto a necessità. In pratica, per questioni
colloquiali, useremo tuttavia spesso la parola
"libertà" sottintendendo eleuteria.
(93) Penso al concetto di libertà quale viene
inteso sia da filosofie socio-politiche di
tipo idealistico (come il marxismo) e sia
da filosofie esistenzialistiche come quella
di Sartre. Per questo filosofo l'uomo <è
costretto ad essere libero>, ossimoro
decisamente intellettualistico, come lo è
tutta la sua filosofia.
(94) Lorenz scoprì che un piccolo di oca
selvatica, appena dopo la schiusa e in assenza
della madre naturale, lo aveva seguito ed
eletto a "madre" (artificiale)
in quanto primo essere od oggetto in movimento
di cui aveva percepito la presenza.