Capitolo 1
(Qualche anticipazione sulla
"cosa"
1.1) Ipotesi pluralistica e realtà
dualistica.
Il termine "pluralismo" ha subito
una sorta di monopolizzazione da parte della
politica e della sociologia, al punto che
è diventato difficile proporlo in altro contesto
senza rischiare qualche equivoco. Tuttavia,
per il discorso che si intende qui sviluppare,
nessun sostantivo è più adatto a designare
l'atteggiamento mentale di chi voglia guardare
alla realtà non in modo superficiale e generico,
ma con l'attenzione che merita "ogni"
aspetto di essa che presenti caratteristiche
proprie, irriferibili ad un'immaginaria "unità-totalità"
che li comprenderebbe. La quale, in ogni
caso, sarebbe sempre inadeguata a rendere
esaustivamente la specificità reale degli
elementi che la determinano. Con ciò non
si intende censurare l'uso di termini che
nell'economia del discorso sono estremamente
utili, ma metter in guardia dal fatto che
nel pensarli si faccia di loro delle entità
"reali", dal momento che essi sono
dei semplici "segni" linguistici
che indicano un "insieme plurale"
altrimenti non esprimibile
.
Per rendere più comprensibile il significato
e il senso che qui si intende dare a "pluralismo
della realtà" (nell'accezione "reale")forse,
più di ogni definizione, può essere utile
fare alcune banali considerazioni sul fraintendimento
concettuale che avviene ogni giorno nel corrente
ed usuale modo di esprimerci (e di pensare),
col quale si tende sempre (per economia espositiva,
ma con inevitabili ricadute concettuali)
a "totalizzare" la pluralità in
un'unità, al punto che l'insieme astratto
"sostituisce" le parti reali a
cui fa riferimento, riassumendone la realtà
in un "significante" sostanzialmente
equivoco. Ci serviremo, a titolo esemplificativo,
di tre termini usuali che "totalizzano"
la realtà plurale che indicano, nascondendola
o almeno mettendola tra parentesi: quello
di "natura", quello di "cielo"e quello di "corpo" (animale).
Ad essi noi facciamo riferimento come unità
significative in se stesse, mentre si tratta
soltanto di termini linguistici, i quali
indicano degli insiemi astratti e unitari
di realtà concrete e distinte; una sorta
di scatole effimere che nascondono ciò che
contengono. Tali considerazioni sono desumibili
anche da semplici manuali di scuola media
e tuttavia esse si riferiscono ad una sorta
di scientifiche "nozioni inattive",
in quanto imparate ma immediatamente espunte
dalla coscienza, che confermano come l'ovvietà
scientifica, data in generale per acquisita,
sia molto spesso del tutto assente nella
maniera con cui comunemente pensiamo la realtà.
Essi sono quei contenitori di cui noi solitamente
consideriamo l'involucro, senza chiederci
che cosa ci sia dentro: un facile "uno"
inconsistente al posto di "molti"
reali concreti. Oltre alle (legittime) esigenze
discorsive una persistente tradizione metafisica
ancora permeante la contemporaneità ci porta
ad avere sempre sugli occhi un "monistico"
paio di occhiali coi quali guardare una realtà pluralistica, perpetuandone così un sostanziale
fraintendimento. La realtà è infatti costituita
da un insieme frammentario di elementi disgiunti,
che si connettono e si relazionano (anche
con processi di retroazione) in un continuo
processo evolutivo che li modifica singolarmente,
senza mai condurli verso quella sorta di
"sovrarealtà olistiche"(4) largamente
interiorizzate, che funzionano ottimamente
in poesia ma pessimamente in filosofia. La
realtà globale non può infatti essere considerata
un organismo (nel qual caso l'olismo sarebbe perfettamente giustificato), ma
piuttosto un coacervo di entità indipendenti
(ancorché interagenti) mai riducibili ad
una totalità.
Il concetto di "natura"viene utilizzato
per indicare ciò che sta all'interno del
nostro pianeta, sulla sua superficie e nella
parte di spazio che esso trascina nella sua
rotazione (sinteticamente potremmo indicarli
con endosfera, biosferaed atmosfera). Questi tre elementi della Terra possono
interagire tra di loro, ma sono del tutto
indipendenti e del tutto scoordinati (se
non in un ipotetica mente divina). L'endosfera prosegue verosimilmente nel suo lento indurimento
e nella sua stabilizzazione cominciata cinque
miliardi di anni fa, la biosfera è quel sottilissimo e recente strato che
la ricopre (frammentato in milioni di specie
viventi rispondenti soltanto a un'irrazionale
volontà di esistere "singolarmente"
e irriferibili a una "globalità"
della vita), la stratosfera è una miscela di gas e vapori il cui stato
dipende esclusivamente dal sole, dalle gravità
in gioco e dal moto della Terra. Ma all'interno
del concetto di "natura" ci è anche
dato cogliere un'ulteriore irreale unità
astratta coprente una pluralità reale: il
concetto di "forze della natura".
L'espressione indica fenomeni del tutto o
in parte sconnessi, come eruzioni vulcaniche
e terremoti (relativi all'endosfera), uragani e cicloni (relativi all'atmosfera) e maree (dovute alla gravità lunare). Accade
così che un maremoto e un uragano nel linguaggio
corrente (e purtroppo anche nella forma mentis) siano considerati semplicemente due aspetti
diversi della natura (che sarebbe inoltre
la stessa degli esseri viventi e dei loro
insiemi), mentre si tratta di realtà diverse
e irrelazionabili. Definirli allora "aspetti"
della natura alimenta l'equivoco di un'unità
che nella realtà non esiste, mentre essi
sono elementi autonomi di essa; elementi
che non hanno nulla in comune e vanno pertanto
tenuti "pluralisticamente" distinti
qualora se ne vogliano cogliere eventuali
rapporti ed interazioni "reali".
Un analogo tipo di distorsione psicologica
si compie parlando del "cielo".
Noi siamo soliti parlarne e pensarlo come
l'unità di ciò che sta fuori della Terra
e che si presenta come una specie di aereo
e sconfinato soffitto dove si appuntano le
stelle, mentre in realtà si tratta di un
immenso vuoto contenente, in piccola parte
e con grande discontinuità, una pluralità
di entità diversissime (in minima parte visibili,
in piccola parte rilevabili strumentalmente
e in massima parte oscure) ognuna delle quali
con una forma, una struttura, una costituzione
e una fenomenologia talvolta assolutamente
uniche. Già soltanto le stelle, i più noti
e celebrati abitanti del cielo (costituenti
soltanto una delle numerose categorie di
corpi celesti) differiscono l'una dall'altra
per composizione e luce (nonché singole o
accoppiate tra loro o con altri corpi) (5).
Ma pensare comunemente il cielo come il "posto"
delle stelle ci fa dimenticare che esse non
sono altro che elementi minimi di sistemi
complessi come le galassie, le quali (costituite
da aggregati di materia solida, liquida e
gassosa) si presentano con forme e caratteristiche
assai diverse (anch'esse singole o accoppiate)
e che viaggiano a velocità enormi allontanandosi
tra loro da diversi miliardi di anni. Il
cielo risulta così essere uno strumento linguistico
eccellente in campo estetico e metafisico,
ma esiziale in filosofia. Più corretto sarebbe
pensare il cielo soltanto come la faccia
terrena dell'universo ed a questo riferirsi,
ma con ciò non siamo del tutto al sicuro
dal ricadere ancora una volta nell'equivoco,
poiché esso stesso può ancora essere pensato
come un unità complessa derivante da un unità
semplice (il big bang originario). Pensare
l'universo attuale in maniera monistica è
un involontario assurdo gnoseologico, che
conduce inconsapevolmente ad una visione
della realtà distorta e sviante. È quindi
in tal senso che qui si auspica un corretto
approccio pluralistico a ciò che è plurale,
evitando (almeno sul piano concettuale se
non su quello discorsivo) di cadere in quella
sorta di metafisica "trappola monistica",
che ci rende spesso inconsapevoli del "ciò
che è" perché consideriamo reale il
"ciò che si dice".
Il termine "corpo" (anche "organismo")
ci conduce al terzo esempio. Esso è un "sistema"
vivente il cui prototipo è nato per caso
e si è autoorganizzato con modificazioni
e adattamenti per lo più casuali, i quali
però hanno avuto l'eccezionalità di risultare
"riusciti", dando così origine
a processi "necessari" e ripetibili,
mentre miliardi di altri sistemi simili sono
"abortiti" (o "selezionati")
e pertanto non sono più qui per permetterci
di considerarli. Esso è un "sistema"
vivente nato per caso e organizzantesi per
modificazioni e adattamenti per lo più casuali,
che hanno però avuto l'eccezionalità di risultare
"riusciti", dando origine a processi
"necessari" e ripetibili, mentre
miliardi di altri sistemi simili sono "abortiti"
(o "selezionati") e pertanto non
sono più qui esistenti per consentirci di
considerarli. Il corpo di un animale (sia
quello dell'uomo o quello di un verme) è
uno straordinario miracolo dell'evoluzione
della materia, col quale le cellule "collaborano"
per tenere insieme e mantenere in vita un
organismo. La differenziazione di queste
cellule avviene in base ad un programma fisso
scritto nel genoma, essa aumenta con la complessità
dell'organismo in formazione fino a costituire
"una" comunità di miliardi di unità
viventi funzionalmente connesse in organi
e loro parti, ma tutte concorrenti alla vita
di un "unitario" corpo vivente,
definito ed individuabile. Essendo il corpo
animale una perfetta macchina biologica a
nascita "sprogrammata", la quale,
se risulta averne i requisiti, si "auto-programma"
per vivere e morire, costituisce un esempio
di come sia la pluralità che è all'origine
di tutto ciò che vive e non ciò che vive
all'origine della pluralità che lo costituisce.
La formazione auto-programmata avviene attraverso
un assemblaggio per lo più "necessario"
di unità viventi che si specializzano man
mano che il corpo evolve in funzione di un
"ruolo" specifico. Se il passaggio
da materia morta a materia vivente (all'origine
delle "macchine biologiche" attuali)
è frutto del caso (6), come lo è probabilmente la nascita del
prototipo di ogni specie, non sarà ozioso
precisare che tutte le "parti"
di macchine biologiche prodotte artificialmente
con l'ingegneria genetica (e quindi vengono
"programmate" a priori) vanno considerate
nella loro specificità di entità viventi
"volute" dall'uomo e non assimilate
alla realtà "storica" delle macchine
biologiche "naturali" che ha avuto
origine nel tempo . Sembra legittimo ipotizzare
che gli organismi viventi attuali siano dei
sistemi olistici perfettamente coordinati,
dove cellule originariamente anarchiche si
siano organizzate attraverso un processo
"collaborativo" che ha condotto
all'esistenza e al funzionamento di un corpo
vivente (7). Ed anche gli ecosistemi, nei
quali specie diverse di organismi viventi
convivono in integrazione o addirittura in
simbiosi, sono il frutto "in equilibrio"
di lunghi processi di conflitto, adattamento
e selezione per noi inimmaginabili, che possono
venire definiti veri "miracoli"
pluralistici della convivenza e della collaborazione
selettiva, a partire da esigenze che all'origine
erano probabilmente totalmente indipendenti.
Potremmo facilmente giungere alla conclusione
che in realtà tutto il nostro universo è
uno straordinario sistema sprogrammato e
casuale di realtà diverse in relativo equilibrio,
dove da circa dodici miliardi di anni una
varietà quasi infinita di corpi celesti nascono
e interagiscono, muoiono e sopravvivono.
All'interno di questo sistema (in un piccolo
pianeta alla periferia di una delle innumerevoli
galassie) da due miliardi di anni circa le
prime cellule viventi hanno cominciato ad
esistere, a sdoppiarsi, a svilupparsi e a
coordinarsi fino a produrre organismi complessi
come piante ed animali, tra i quali noi che
siamo qui a parlarne.
A questo punto diventa importante fornire
anticipatamente una coordinata essenziale
per collocare il dualismo antropico reale(in seguito DAR) in una prospettiva propria,
al riparo da equivoci che possano assimilarlo
o peggio confonderlo coi vari "dualismi"
storicamente noti, siano essi di carattere
filosofico o di carattere religioso, che
si basano su dualità del tipo materia/forma,
esistenza/essenza, apparenza/realtà, ideale/reale,
spirito/materia, spirito/natura, anima/corpo,
bene/male, ecc. Il DAR infatti intende collocarsi
non già nel campo dei principi o dei concetti
astratti, ma in quello della realtà, sia
pure con tutti i limiti e i difetti che può
avere una tesi non scientifica e di carattere
puramente intuitivo/induttivo. Nondiméno
esso si basa anche su una rilettura della
storia dell’uomo e del cosmo fondata sulle
poche o tante acquisizioni scientifiche nei
vari campi, le quali si debbono però coniugare
con l’attenzione ad elementi antropologici
relativi a quella possibilità dell’uomo di
porsi, anche fuori da orizzonti rigorosamente
scientifici, come soggetto conoscente e al
tempo stesso come oggetto di conoscenza.
Nell’opporsi alle mistificazioni metafisiche
e dottrinarie tipiche delle ideologie religiose
nella loro generalità, il DAR cerca anche
di cogliere le eventuali intuizioni del reale
che, quà e là, esse possono aver assorbito
e fissato, utilizzandole come segnali fossili
di una primitiva interpretazione del mondo
e della vita.
Il DAR, che potremmo definire la sottospecie
antropica di un più generale pluralismo cosmico,
si pone in netta contrapposizione a tutti
i monismi (8) (siano essi di carattere materialistico,
idealistico o spiritualistico) quali false
risposte a naturali, ma intellettualmente
svianti, richieste psichiche (9) di "unità-omogeneità-uniformità"
e di "determinazione-spiegazione",
trasferite arbitrariamente in una lettura
della realtà che mette "ideologicamente"
tra parentesi, od espunge, ogni aspetto di
essa non riducibile a quella presupposta
unità-totalità. Io considero infatti il monismo, in tutte le sue varie
forme, una sorta di totalitarismo concettuale,
intollerante verso ogni elemento
di estraneità ai dogmi che esso pone a priori
quali fondamenti irrinunciabili.
L’ipotesi pluralistica del DAR riguarda un
cosmo (uni-verso o pluri-verso?) (10) caratterizzato
da termini di realtà non "chiusi"
e limitati a ciò che le nostre capacità induttive/deduttive
ci permettono di cogliere (privilegianti
spesso una prospettiva puramente antropica)
poiché esso si apre ad una realtà più complessa
che vada oltre, dove l'uomo venga considerato
non altro che l'espressione più evoluta,
ma non necessariamente più alta e definitiva,
tra le forme di organizzazione della materia.
Quello che viene messo in discussione dal
DAR (che per molti versi è una forma di materialismo"critico")
è di concepire come "reale" soltanto ciò che è riducibile alla materia,
sia in forma elementare che evoluta, escludendo
ogni altra entità o fenomeno
che non presenti questa caratteristica, oppure
attribuendogli forzatamente la
"riducibilità" in modo acritico
e dogmatico. Ma esso si oppone ancor
più nettamente a certe derive idealistico-spiritualistiche
che alla nostra
mente affidano ogni più arbitraria creazione
o interpretazione concettuale del
cosmo e della vita.
Il DAR, partendo quindi dall’ipotesi dell’esistenza
di più ambiti (11) di realtà
tra loro separati e irriducibili, li considera anche come dimensioni del reale
collocati su piani diversi, dove l’appartenenza ad uno di essi rende
normalmente estraneo tutto ciò che appartiene ad un altro ambito. Ciò ci
permette, in linea di principio, di evitare il rischio di sopravvalutare le
possibilità intellettuali umane e quindi di abbandonare la chiusura ideologica
che vuole l’uomo "al centro dell’universo", a favore di un’apertura
verso ciò che non è per noi conoscibile in senso stretto, ma di cui possiamo
intuire l’esistenza e alcune sue caratteristiche. L’importante è poter
stabilire se tale intuizione ha una base universale e quindi può essere
considerata comune ad ogni uomo e non a "eccezionalità" individuali
(vere o presunte), che potrebbero dar luogo a frutti di tipo
"rivelativo" o "creativo" inconsistenti sul piano del reale a tutti accessibile. La negazione da parte
del DAR di ogni antropocentrismo si estende
anche ad ogni giudizio di valore circa gerarchie
biologiche o metafisiche (uomo "re"
del creato, nobiltà del bene [per noi e magari
a discapito di altre specie] rispetto al
male, ecc.) strettamente connesse all’antropocentrismo.
La nostra ipotesi pluralistica tuttavia implica anche un’altro aspetto, non
meno importante dal punto di vista gnoseologico, quello di staccarsi dalla
concezione dell’universo e delle sue parti come una realtà all’interno delle
quali viga una sorta di continuità strutturale. Ciò è basato prevalentemente su
degli apriori puramente intellettualistici e privi di alcun riscontro
nella realtà. E questo avviene soprattutto perché l’uomo spesso ha
applicato alla realtà"qual’è" i concetti di come
"dovrebbe essere", o meglio, di come "vorrebbe che fosse"
in base a pregiudizi, a dogmi ideologici o a richieste psichiche simili a
quella già citata di "unità e omogeneità" che hanno condizionato
diffusamente e pesantemente anche le teorie scientifiche. La realtà, per
contro, si presenta per lo più costituità
da elementi "discreti" (distinti),
ma sempre all’interno di una sintesi funzionale
che può essere solo
erroneamente interpretata come una continuità
strutturale. Sotto questo punto
di vista un esempio illuminante ci viene
dalla struttura più complessa ed
evoluta della materia vivente (il nostro
cervello), costituito da centinaia di
miliardi di cellule specializzate tra loro
strettamente connesse, ma recanti
ognuna una funzione singola e specifica all’interno
del comportamento,
apparentemente univoco, del sistema nervoso
e della mente.
Senza addentrarmi ulteriormente in ciò che
sarà esaminato in seguito mi limito qui ad
anticipare che il DAR suppone (all’interno
di una realtà
probabilmente "plurale") una realtà antropica "duale",
poiché, oltre alla materia, realtà primaria che ci circonda e ci
costituisce, ci è dato intuire una seconda realtà ad essa irriducibile, che si
rivela in generale nel mondo dei sentimenti e più in particolare negli affetti,
nelle emozioni estetiche, nelle commozioni etiche, negli entusiami della
scoperta e della conoscenza. Se è vero infatti che la materia, in ogni
sua forma, si rende evidente, percepibile
e computabile nella percezione e
nell’analisi razionale, non è meno vero che
quest"altra" realtà è
altrettanto evidente nell’intuizione e nella
sensibilità individuale. Il vero
problema gnoseologico consiste nel poter
stabilire se questa seconda realtà sia
alla fin fine riducibile alla prima, come
un suo particolare modo d’essere e di
manifestarsi, oppure (ed è la nostra tesi)
resti ad essa irriducibile.
Nel ribadire che uno dei criteri fondanti
del DAR è quello basato sul riconoscimento
di una funzione della nostra mente (di tipo
"extraintellettivo") di intuire
una sfuggente realtà extramateriale, anticipo
qui che il rapporto tra tale realtà(intuita) e la funzione
mentale(intuente) è probabile che si verifichi in
modo analogo a quello per cui la terra concerne
la zampa che la calca, l'acqua la pinna che
la fende o l'aria l'ala che vi si libra (12).
I nostri corpi animali sono infatti costituiti
da elementi che traggono la loro forma e
la loro funzione dalle informazioni sulla
realtà esterna, che attraverso l'evoluzione
biologica il genoma ha ricevuto ed elaborato
per meglio "adattarli" all'ambiente
naturale, perciò non si vede per quale ragione
una parte specializzata del nostro cervello
non possa accedere ad informazioni, per quanto
labili, su una realtà intima che favorisce
o determina il sorgere di nostri particolari
stati d'animo, i quali non possono essere
semplicisticamente e acriticamente ridotti
alla pura attività elettro-chimica delle
nostre cellule cerebrali.
1.2) Un’ipotesi per il XXII secolo (Verso
la crisi delle fedi?)
Con un un passo indietro vorrei ora fare
una ricognizione storica sui prodromi che
hanno portato alla nascita del DAR, per sottolineare
che, a metà degli anni '90, quando esso era
solo una bozza mentale dalle incerte prospettive,
anche sul piano personale, il mio pervasivo
pessimismo mi faceva pensare ad uno scenario
antropologico relativamente inquietante e
col quale mi pareva di dovermi confrontare
anzi tempo. Come si sa i depressi hanno strane
fantasie, ma le mie mi hanno poi condotto
(almeno lo spero) a qualcosa che dalla dimensione
psichica è trapassato dapprima in una riflessione
sul problema del nostro rapporto con la realtà
e successivamente nell’elaborazione di una
risposta su basi (credo) di sostanziale razionalità.
Nella prospettiva di cui dirò il DAR potrebbe
avere allora almeno un ruolo: risultare utile
come tentativo ante-litteram, o come esempio
metodologico, oppure come insieme di riflessioni
esistenziali da utilizzare ad personam, per un approccio post-religioso ad una
concezione del mondo su base sì materialistica,
ma senza cadere nel "materialismo"
puro e crudo; anzi, con l'apporto di elementi
decisivi per un suo positivo superamento.
Ipotizziamo allora che in un futuro non troppo lontano (tra quanti decenni?),
almeno nel mondo industrializzato, si abbia, più o meno improvvisamente, una
vera presa di coscienza della realtà dell'universo (attualmente ancora impedita
dalla forte presenza di credenze religiose permeanti la nostra cultura) e che
insieme con nuove scoperte scientifiche sull'origine della vita possano entrare
in crisi, in modo traumatico, tutti i tradizionali sistemi di credenza che hanno aiutato per millenni i nostri
antenati a sopravvivere a disagi e a sofferenze,
a credere nella vita e nell "oltre",
a fare figli, a coltivare la terra, a costruire
case e città. Se questa previsione dovesse
eventualmente avverarsi (ma direi che qualche
debole segno non manca) si verificherebbe
una mutazione antropologica probabilmente
drammatica, a meno che ciò non venisse mitigato
e rallentato nel tempo dalla resistenza che
inconsapevolmente verrebbe opposta nel profondo
della psiche, per sua natura conservatrice. Certamente
vi sarebbe da parte delle religioni il tentativo
di adeguare precetti e morale (fors’anche
la dottrina) alle nuove necessità, ma troverebbero
esse formule efficaci per continuare a garantire
quell'omeostasipsichica ottenuta grazie alle certezze che
offre la fede? (13)
O forse invece le cose potrebbero andare
meglio e il processo di presa di coscienza
non essere così immediato, almeno per i più?
Per moltissime persone potrebbe esserci un
certo lasso di tempo di carenza della coscienza
e ciò eviterebbe gli aspetti più gravi della
crisi. Costoro potrebbero inconsciamente
opporre temporanei freni a quell'avvento
rivoluzionario e traumatico, permettendo
così un passaggio meno doloroso verso il
destino comune e inevitabile di tale gravissima
"orfanità" ideologica. In più le
nuove generazioni potrebbero venire, con
maggior cognizione di causa e con modelli
esistenziali alternativi, preparate a fare
a meno di Dio con una certa gradualità. La
questione definitiva sta però nel fatto che,
inevitabilmente, prima o poi per tutti, sempre
che non intervenga la morte a chiudere la
partita anzitempo, con l’ulteriore evoluzione
delle scienze, si porrà sempre più il problema
di conciliare ciò che intellettualmente "si
sa" con ciò in cui sentimentalmente
"si crede". E allora potrebbe diventare
indispensabile avere a disposizione dei "modelli",
delle welthangschauungen (14) (delle "concezioni del mondo"),
alternativi, a cui fare riferimento.
Se si dovesse verificare quest’ipotesi a ciò seguirebbe abbastanza rapidamente
un generale allontanamento dalla religione dei padri, gli uomini si
troverebbero drammaticamente a non possedere altre certezze che quelle
scientifiche: ciò per la psiche (15) potrebbe avere effetti devastanti.
Ma va anche aggiunto che le scienze, un pò
per la natura dei loro concetti e un pò per
il loro linguaggio specifico, continuerebbero
in ogni caso ad essere sentite come estranee
da molti, senza la possibilità& di venire
veramente interiorizzate dalla maggior parte
degli uomini della strada. E tuttavia il
vero problema resterebbe un altro: che le
scienze per la loro natura continuerebbero
a non essere in grado di fornire alcuna risposta
alle grandi domande metafisiche, poiché il
loro campo d'azione è e resterà soltanto
l'universo "nella sua materialità"
(16).
Nella prospettiva che ipotizzo per i creduloni
salvare la propria integrità psichica e vivere
in pace, potrebbe forse rimanere ancora relativamente
facile, poiché sulle ceneri dei grandi sistemi
religiosi potrebbero proliferare schiere
di millantatori, che saprebbero fornire abili
risposte utili e mirate, in pacchetti ben
confezionati e garantiti, col determinante
ausilio di fantascientifiche e sofisticate
tecniche d'informazione e persuasione, che
in avvenire certo non mancheranno. E tuttavia
mi domando se anche questo scenario caotico,
sempre più mistificato e precario, potrebbe
spingersi molto lontano nel tempo. D'altronde,
comunque, prima o poi, le generazioni a venire
dovranno finalmente rassegnarsi all'assenza
di un Dio creatore e trascendente. Con questa
assenza dovranno confrontarsi e gestire al
meglio le possibilità di elaborare, o semplicemente
fornire, un'accettabile risposta alle loro
legittime istanze esistenziali ed escatologiche.
In ogni caso le persone più riflessive e meno inclini alle suggestioni
potrebbero essere destinate a pagare il prezzo più alto. Probabilmente
conoscerebbero, inevitabilmente e in modo improvviso l'abisso nichilistico del materialismo radicale e nella ricerca della via d'uscita
da esso ognuno rischierebbe di restare solo,
sperimentando quella disperazione in cui
noi, o almeno "alcuni" di noi li
avranno preceduti. Tuttavia va ribadito:
prima o poi, per tutti, le elusioni, le rimozioni,
le messe tra parentesi, le fedi di rimpiazzo,
potebbero arrivare al loro estremo confine
e ognuno dovrebbe angosciosamente interrogarsi,
per cercare di trovare la visione o concezione del mondo (la weltanschauung)
più coerente con i suoi dubbi e le sue aspettative.
Allora potrebbero nascere,
al limite, milioni di filosofie individuali,
che soltanto per i più fortunati
riuscirebbero a diventare credenze (17). Sono i "modelli" metafisci a cui
accennavo sopra e dei quali il DAR, senza
alcuna pretesa di costituire una visione
unica ed esaustiva, si porrebbe e si proporrebbe
come antecedente.
Queste filosofie individuali potrebbero essere
inoltre libere da ogni tributo
verso le filosofie "dotte", che
nel frattempo saranno diventate
ancora più raffinate, pleonastiche ed astruse.
Esse, con tutto il loro
tecnicismo logico-dialettico-ermeneutico,
finiscono già ora per rivolgersi
soltanto ai conoscitori della filosofia e
non a quelli (e sono sicuramente la
maggior parte) che ne sono completamente
digiuni. Sicuramente a questi ultimi,
anche in futuro, le filosofie dotte, auliche,
intellettualistiche,
continueranno a risultare totalmente astratte
e impraticabili, quindi inutili.
Ma forse di questo ai filosofi di professione
continuerà ad importare un bel
nulla. L'estrema intellettualizzazione della
filosofia accademica sembra
avviata verso una esiziale incapacità di
formulare delle interpretazioni
dell'universo e della vita adatte all'uomo
comune. Formulare sistemi filosofici
esaustivi, ragionevolmente credibili, e nel
contempo direttamente trasferibili
nella pratica del vivere, quali cornici esistenziali
di riferimento, sembra
essere compito impossibile o non interessante
per la filosofia dotta, che
preferisce esercitarsi in oziose raffinatezze
dialettiche. All'opposto, quelle
che ho ipotizzato come filosofie del futuro,
individuali o personali, ingenue o
antintellettuali, potrebbero avere la prerogativa
di essere immediatamente
utilizzabili nella realtà quotidiana, poiché
con l'adozione a concezione del
mondo di una di esse "ne andrebbe"
dell'esistenza di chi le formula o
le adotta. Esattamente come succede con le
religioni, che al di là dei loro
dogmi e dei loro precetti, vengono, nella
maggior parte dei casi, più o meno
inconsapevolmente, modellate ed adattate
alle singole istanze esistenziali e
utilizzate come "guide al vivere".
Né il termine
"individuale" o "personale"
può significare che ognuno
dovrebbe necessariamente inventarsi una filosofia,
ma soltanto che ognuno
potrebbe "decidere" se esercitare
la sua libertà individuale e con
essa "scegliere" una concezione
della vita e della morte che gli
permetta di continuare a sentirsi intellettualmente
libero, utilizzando o non
utilizzando i modelli più consoni alla realtà
che risultino già disponibili.
Questo mio discorso certamente allarmerà
qualcuno. Ma allora che ne è della "verità"?
Noi riteniamo che il termine abbia assunto
significati così equivoci (specialmente in
campo religioso) che risulti opportuna una
sua cassazione (ad eccezione del campo logico-matematico)
a favore di quello di realtà, su cui avremo occasione di ritornare. È
piuttosto interessante notare che un'interpretazione
pragmatica del termine "verità"
(a tutto favore del valore psichico-pratico
delle ambigue verità religiose) è quello
avanzato da William James (18), il quale
sosteneva che una verità "per essere
vera" deve anche "funzionare"
nella vita pratica. Ciò è in parte giusto,
ove si consideri che senza un pò di ragionevole
pragmatismo è veramente difficile districarsi
nei meandri delle idee (talvolta intrinsecamente
ambigue), specialmente quando si tratti di
sintonizzarle con i problemi della vita reale.
Evidentemente qui io sto avanzato delle ipotesi,
coniugandole col discorso discretamente relativistico
di chi è convinto che (anche con tutte le
nuove conoscenze che l'uomo potrà acquisire
nel futuro) permarrà comunque un immensa
area di congetture e ipotesi immerse nel
buio della più profonda ignoranza. Ma per
la dignità dell'uomo (consapevole di sé)
ciò potrebbe essere sempre preferibile all'acquiescenza
di false verità propinate dalla tradizione
ed accolte in maniera acritica e irrazionale.
Il problema infatti, per parlare chiaramente, è quello di tentare e ritentare
di avvicinarsi razionalmente, ma anche intuitivamente, a quella realtà
extrafisica che la nostra intuizione ci conferma ogni giorno, la quale però è e
resterà per l'uomo assolutamente inconoscibile, a causa della nostra
strutturale incapacità, in quanto costituiti da materia, di uscire
conoscitivamente dall'ambito di essa. Di altro dalla "materia noi possiamo avere solo delle intuizioni
e su esse costruire delle ipotesi, e sulle
ipotesi costruire persino dei sistemi più
o meno ragionevoli. Ma con tutto ciò non
potremo mai pretendere di aver superato un'insoddisfacente
relatività conoscitiva.
Quella che cercherò di esporre vuol essere
perciò la traduzione, nei termini cui ho
accennato, di un modo antiintellettuale di
fare filosofia, che deve derivare dall’esperienza
reale della "vita vissuta" e che
in quanto tale deve valere "per la vita"
e non "per la cultura". Ma nello
stesso tempo penso che si debba avere il
coraggio intellettuale di addentrarsi attraverso
i meandri di una riflessione libera e che
prescinda dai rigidi canoni della ragione,
senza che ciò significhi concedere più di
un nulla all’arbitrio di gratuite formulazioni
irrazionali o di pura fantasia.
Il mio personale modo di pensare il mondo
e la vita ritengo sia stato l’esito fortunoso
e fortunato di un travaglio esistenziale
che non ritengo neppure particolarmente originale,
in quanto è comune a quei moltissimi individui
che non sono riusciti a rinunciare al proprio
senso critico e che sono diventati pertanto
"incapaci" di credere in una qualsiasi
delle grandi menzogne istituzionalizzate
che fondano per lo più le le religioni. Né
voglio nascondere la mia relativa presunzione:
quella di ritenere che la mia fortuna sia
stata di trovare (o forse soltanto di illudermi
di aver trovato?) il filo di Arianna che
conduce fuori dal penoso labirinto che generano
quell'incredulità e quel dubbio che ci tocca
sperimentare di fronte a ciò che abusivamente
viene gabellato per verità e che, più o meno chiaramente,
avvertiamo circonfuso del dolciastro profumo
dell'impostura. Ma voglio anche
aggiungere subito che è"anche"
con un certo disagio che assumo questa
posizione decisamente antireligiosa, poiché
molte persone a me care, e che
stimo, vivono intensamente e proficuamente
la loro fede.
Il disagio che incontro nelle mie enunciazioni
antireligiose deriva anche dal fatto che
la mia adolescenza (come dirò più avanti)
si è svolta nella fede cristiana e che la
mia prima formazione è avvenuta in quel contesto.
Non posso neppure dimenticare il fatto che,
sul piano etico, io ho a suo tempo introiettato
i fondamenti del cristianesimo e che essi,
in qualche misura, probabilmente condizionano
il mio stesso ateismo attuale. Tuttavia come
potrei "eticamente" astenermi dal
dichiarare ciò che in qualche modo è all'origine
di questa proposta filosofica? Per questo
ammetto che la mia intima convinzione che
la credenza in un essere superiore, padre
e padrone, non sia altro che l'autoproiezione
dell'uomo nella trascendenza, eorcizzando
ad un tempo l'ingiuria dell'ignoranza e la
paura della morte. Ciò è poi press'a poco
quanto già oltre un secolo e mezzo fa aveva
visto lucidamente Ludwig Feuerbach (19),
il cui pensiero io considero fondamentale
al fine di collocare nella corretta prospettiva
l’ipostasi divina e i suoi correlati.
Non posso neppure astenermi dal precorrere
una domanda probabilmente emergente,
poiché qualcuno si domanderà certamente il
perché di questo libretto (la logica
vuole che si scriva ovviamente per farsi
leggere) e, in definitiva, a chi esso
si rivolga veramente. E' evidente il non
poter ragionevolmente sperare che
qualche aristocratico filosofo di professione
possa sprecare il suo tempo a
scorrerlo, se non altro per una questione
di "classe" culturale; né
posso sperare che lo facciano gli appassionati
della filosofia tradizionale,
che in base a questa passione si rivolgono
a ben altri testi; né ovviamente i
credenti, i quali cercano semmai conferme
alla loro fede e non certo ciò che la
metta in discussione.
Per quanto sopra esposto io intendo rivolgermi
a quella vaga categoria costituita dagli
uomini "della strada", proponendo
una filosofia alla buona, che mi piace chiamare
appunto "stradale". Ma mi rendo
conto che a ben vedere anche il discorso
della "stradalità" non è che sia
tanto chiaro: a quali uomini della strada
potrebbe interessare la mia filosofia "alla
buona" e antiintellettualistica, ma
pur sempre filosofia? Chi è che oggi, col
vivere frettoloso e sovraimpegnato che tutti
sovrasta e vincola, assediati da mille proposte
per il tempo libero, dovrebbe impegnarsi
nella lettura di un libro che viene dal nulla
dell'anonimato insignificante del sottoscritto,
per chiedersi se valga il tempo perduto a
scorrerlo? La risposta è: non lo so. Ho confezionato
un oggetto che so a che cosa serve, ma non
so se qualcuno se ne accorgerà. Infatti la
mia è una scommessa: quella di chi, ludicamente,
vada al largo con una barca e lanci la sua
speranzosa bottiglia con quel messaggio che
forse nessuno potrebbe leggere. D’altra parte
il gioco, come si vedrà, è un tema importante per
il DAR e io vorrei proprio imprimere a questo
mio tentativo mini-filosofico quel tanto
di giocoso che vi è sempre in tutte le imprese
disperate.
Desidero ancora aggiungere che un fine non
secondario di questo trattatello "alla
buona" sarebbe innanzitutto quello di
riuscire a farsi leggere senza annoiare.
D'altra parte, lo scopo del DAR non può essere
quello di convincere, né di ricevere consenso
per far proseliti, ma di offrirsi come qualcosa
di anticonvenzionale di cui prendere visione
e di proporsi come "concezione del mondo"
nuova, sulla quale almeno riflettere. E semmai
di porre, in termini corretti, il problema
della possibilità che esista una sfuggente
realtà al di fuori della materia e che ciò sia razionalmente
sostenibile, senza contraddire il quadro generale che le scienze ci offrono.
Nel contempo, non lo nego, io cercherò di smascherare gli abusi strumentali e
impropri che le ideologie religiose (non senza meriti "storici" in
termini esistenziali) hanno costruito sul falso concetto di
"spirito", facendone un entità creatrice, legislatrice e dominatrice,
che nei suoi stessi termini è quanto di più"materiale" si possa
immaginare, come spero di dimostrare.
1.3) Qualcosa sull'argomento e su chi scrive
Necessità e libertà sono aspetti fondamentali dei due
ambiti della realtà, quello della materia e quello dell’aiteria
(20), posti dal DAR come costituenti di quell'universo
che noi possiamo percepire, o almeno intuire,
chiaramente; per questa ragione sono stati
usati metonimicamente per fornire il titolo
a questo libretto. Il quale intende esporre
la teoria della doppia realtà concernente
l'uomo, in netta opposizione alle teorie
monistiche, sia materialistiche che spiritualistiche,
le quali riconoscono un'unica realtà, a cui
tutto l'esistente è riducibile o riconducibile.
Nel caso del materialismo, come si sa,
la realtà si ritiene costituita da enti esclusivamente materiali e
quindi si ritiene che alla materia sia riducibile tutto ciò che esiste.
Nel caso dello spiritualismo, al contrario, i corpi sono considerati
effimeri o transitori e l'unica realtà ultima essere lo spirito, in
quanto tale o come natura privilegiata di una divinità immanente o
trascendente. All'interno di questa seconda teoria, vi sono poi ulteriori
differenziazioni e nella maggior parte dei casi viene ammessa la realtà sia
dello spirito che della materia, ma questa viene considerata per lo più
un reale secondario, derivato da quello,
e in ogni caso subordinato. Siamo qui nel
contesto delle grandi religioni monoteiste
sulle quali ci soffermeremo a lungo, poiché
è specialmente con esse che il DAR intende
confrontarsi.
A questo punto si rende però anche necessaria
una precisazione della massima importanza, poichè, se i monismi
subordinano all’uno o all’altro reale quell’aspetto di esso che ne
sarebbe derivato (materia come emanazione dello spirito per lo spiritualismo
ed esperienze spirituali come aspetti dell’attività cerebrale per il materialismo), nel DAR i due reali, essendo reciprocamente immanenti, compresenti
e coestesi, e avendo inoltre la stessa origine
cosmica, dal punto di vista assiologico sono
assolutamente equivalenti. Il loro quindi
è un rapporto paritetico, che esclude, nella
diversità, qualsiasi concetto gerarchico,
di dipendenza, di preminenza o di "nobiltà".
Neanche nei confronti del tempo questa diseguaglianza
si traduce in una non-equivalenza: infatti,
se l’aiteria
(molto approssimativamente lo "spirito" del senso comune) "non
ha tempo" ciò non significa affatto che sia eterna, poiché dal momento che
il divenire (21) della materia produce il tempo,
la "fine del tempo" sarà anche la fine dell’aiteria. In
altre parole: la fine dell’universo, se e quando ci sarà, segnerà la fine sia
della materia che dell’aiteria. Dal punto di vista della realtà del "tutto",
e in particolare dell'esistenza, ciò significa,
molto semplicemente, che le realtà umane
sono due e che l'uomo, secondo il DAR, ha
due equivalenti possibilità di esistere o
di "realizzarsi": una nell'ambito
della materia, che lo costituisce e che si offre alla
sua percezione-intellezione e un'altra nell'ambito
dell'aiteria, che si offre alla sua intuizione nella
sfera dei sentimenti e delle emozioni. L'una
si realizza esperendo la vita quotidiana
e l'altra esperendo stati d'animo particolari,
difficilmente riducibili all'attività pensante
del nostro cervello, ma resi possibili dalla
sensibilità intuitiva (22), la quale consente un rapporto diretto
con l'aiteria nei termini che verranno esposti.
Ma vorrei ora venire agli antefatti personali
che stanno alla base delle mie sul mondo
e alla genesi del DAR che qui verrà esposto.
Quando nel 1994 ebbi quella che presuntuosamente
chiamerò un "intuizione", dopo
un lungo periodo di tormentosa crisi esistenziale
durata molti anni, non potevo pensare che
essa, oltre che risolvere i miei problemi
personali avrebbe poi via via preso la forma
e le caratteristiche di una vera "concezione
del mondo" (la tedesca weltanschauung).
Infatti essa venne presto ad assumere una struttura sistemica tale da porsi
come una visione della vita e dell'universo piuttosto coerente ed organica, ma
soprattutto non in contrasto con le più aggiornate conoscenze scientifiche sul
cosmo e sulla vita. Questa evoluzione è avvenuta in modo quanto mai naturale,
ancorché all’inizio la mia ragione fosse riluttante ad accettare un'idea
così rivoluzionaria, che presentava anche l’imbarazzante riassunzione (sia pure
per approssimazione) di termini metafisici non molto dissimili da quelli delle
fedi religiose che contestavo, ancorché con significati e denotazioni
totalmente nuovi.
Tuttavia, anche se essa aveva risolto i miei
problemi esistenziali e si offriva a me in
termini convincenti, non era certo esente
da pecche di "presentabilità",
e mi rendevo conto che, se volevo rendere
essa anche comunicabile, dovevo riuscire
a porne e chiarirne i suoi termini teorici,
insieme con i suoi aspetti strutturali, secondo
criteri, diciamo, di presentabilità. Così,
sia pure in modo non continuativo, ci ho
lavorato sopra per diversi anni, fino ad
elaborare una "forma" di essa che
mi sembra ora decente e proponibile. Perciò
mi sono deciso a mettere il mio messaggio
nella famosa bottiglia e a cercare di farle
prendere il largo, sperando che esso finisca
in buone mani. Questo testo è l "uscita"
pubblica, in forma discorsiva, di quella
lunga riflessione dulla vita e sul mondo
e che qui si offre al giudizio dei lettori,
speriamo numerosi e soprattutto non troppo
severi.
Vorrei fare adesso un ulteriore passo indietro,
per raccontare qualcosa di me e offrire un
sommario ritratto del "produttore"
per aiutare a capire più facilmente il suo
"prodotto". Io venni battezzato
e cresimato, anche se nella mia famiglia
la fede cristiana era poco più di una convenzione.
Una famiglia poverissima, ma soprattutto
economicamente "disastrata", per
effetto della guerra e delle speculazioni
sbagliate del capofamiglia. Mia madre, di
origine cittadina, era una donna discretamente
colta e dolcissima, che credeva troppo negli
affetti per essere anche una donna fortunata.
Mio padre, di origine contadina (ma attratto
dalla città) era un uomo arido e calcolatore,
ambiziosissimo e frustrato da ripetuti insuccessi
professionali ed economici, il quale ebbe
un'evoluzione in senso radicalmente materialistico,
che per quanto ricordi maturò nel periodo
in cui ero ancora bambino. Ciò produsse un
certo contrasto tra noi quando io cominciai
a frequentare la parrocchia del quartiere,
entrando presto nell' Azione Cattolica e
più tardi diventandone un capo gruppo "Aspiranti"
(23). In realtà l'opposizione di mio padre
era più di carattere politico che confessionale:
avendo aderito al Partito Comunista (24)
egli considerava la chiesa cattolica alleata
a doppio filo con la classe borghese dominante
e naturalmente nei classici termini dell'epoca
" i borghesi e i preti" agivano
di concerto nell'affamare il "proletariato"
e mantenerlo nell’ignoranza. Allora l'Azione
Cattolica era molto politicizzata e alle
elezioni del '48 io collaboravo in favore
della Democrazia Cristiana nei cosidetti
"comitati civici", mentre mio padre
sbavava di rabbia, sostenendo che i preti
mi avevano plagiato. In tutto ciò mia madre
era apparentemente neutrale, anche se in
realtà stava dalla mia parte. Mio fratello,
maggiore di quattro anni, non era credente,
ma il suo anticomunismo era ancora più vivace
del mio e anche per questo i suoi rapporti
con mio padre erano pessimi. A parte questi
dettagli, va aggiunto che il matrimonio tra
i miei genitori era un qualchecosa che eufemisticamente
si potrebbe definire "disastroso",
ma su questo argomento preferisco non dilungarmi.
A diciotto anni ci fu una svolta che mi portò
ad abbandonare la chiesa e la fede e ad avviarmi sul sentiero di un
agnosticismo attendistico che durò una decina d'anni, finchè si evolvette in
una direzione decisamente atea e materialistica, conducendomi anche su
posizioni politiche di estrema sinistra, con una virata a centottanta gradi
rispetto a quelle adolescenziali. Ma fu solamente verso i quarant'anni (già
sposato con due figli) che riflettendo ulteriormente giunsi a radicalizzare il
mio materialismo fino a dovere, per coerenza, negare realtà o almeno
consistenza a tutto ciò che avevo sempre considerato parte nobile e
"sale" della mia vita: alludo ai sentimenti, agli affetti, alle
emozioni dell'arte e della musica, agli entusiami della scoperta fine a se
stessa del mondo e delle sue forme ed espressioni. Tutto ciò, nell’ottica
materialista, "doveva" essere riducibile alla materia e in essa
annullarsi senza lasciare alcuna traccia reale. Certo, restava la possibilità
che quelle cose fossero un epifenomeno (25) della materia, con una certa sussistenza
almeno durante il corso della vita, ma tuttavia
irrimediabilmente apparenti, inconsistenti
e caduche.
Si accese in me un conflitto tra le ragioni
del materialismo e il "senso" del vivere; ciò mi precipitò in
una crisi esistenziale che dovetti patire per una decina d'anni e al termine
della quale, luce in fondo al tunnel, apparve l'intuizione della realtà quale totalità solo fittiziamente unitaria
di almeno due costituenti in realtà "separati":
la materia e ciò che più tardi avrei chiamato aiteria.
Ciò rendeva ragione di molte incongruenze di cui la mia caotica concezione
del mondo irrimediabilmente soffriva e il magma delle mie idee cominciava
ad assumere una struttura coerente e sostenibile, almeno per me in quel
momento, che non avrei mai osato sperare all’inizio.
Ho fornito queste informazioni personali al
solo scopo di rendere testimonianza del mio iter esistenziale,
conseguente a un processo di riflessione su sé e sul mondo che non è, lo
ripeto, quello di un filosofo di professione, bensì quello di un comune uomo
della strada, alle prese con tutti i comuni problemi, del reddito, della
famiglia, delle aspettative, delle ambizioni e del desiderio di vivere (o
sopravvivere) in pace con se stesso e con gli altri, ma nello stesso tempo
tormentato dal desiderio di capire qualcosa di più sul perché e sul come
"io sono" e "l'universo è", e quale relazione intercorra
tra me e lui.
1.4) L’ignoto e la verità
Penso di poter dire che noi siamo immersi
e navighiamo faticosamente nell’ignoto e che chi afferma dogmaticamente di possedere
la Verità dica sempre il Falso, consapevolmente
o inconsapevolmente. L’ignoranza ci appartiene
strutturalmente e ci impregna, perciò è come
se noi appartenessimo ad essa, in special
modo quando ci si addentra in certe esperienze
intime o interpersonali che esorbitano dall’ambito
in cui utilizziamo il pensiero razionale
e col quale indaghiamo le sicure evidenze
della materia, che peraltro ci fonda, ci costituisce e ci
avvolge. Perciò l’ignoto va accettato come nostro limite e come
invincibile avversario esistenziale. Noi con esso conviviamo e ci confrontiamo
continuamente, come un orizzonte oscuro in cui forse potrebbe celarsi quell'essere
stabile a cui tende ogni essere vivente, condannato invece a vivere la
precarietà del divenire(o essere dinamico).
La parola verità e gli aggettivi che
ne derivano sono ineccepibili nel loro uso comune di corrispondenza, di
verificabilità, di coerenza, ecc. (verità logiche). Quando però vengono usati
in senso trascendentale (verità metafisiche) costituiscono quanto meno
un abuso e molto spesso una volontaria mistificazione. L'utilizzo che è stato
fatto di questa seconda accezione della parola in campo religioso e filosofico
non è soltanto mistificante, ma anche fortemente sviante. Bisogna stare attenti
a non fare del concetto di verità un feticcio, poiché la facile
aspettativa di assolutezza va tenuta a freno con l’esercizio continuo della ragione,
che ci offre della realtà uno scenario di relatività diffusa. La verità
metafisica è l'ambiguo reciproco della condanna
gnoseologica a cui soggiaciamo, che ci lascia
intravedere soltanto quella relatività totale
del divenire
nostro e del mondo, il quale, come un caleidoscopio in continua rotazione ci
presenta un aspetto sempre mutevole, e a volte contradittorio, della realtà.
Ritengo che l'esigenza di assolutezza e di
certezza, che psichicamente pure ci assilla, così come l’aspirazione ad un
futuro in cui vengano conciliate tutte le contraddizioni del divenire,
dovrebbero ormai insospettire l’uomo contemporaneo, che dispone di una ormai
secolare esperienza nell’indagine psicologica e psicanalitica i cui risultati
chiarificatori sono sufficientemente confermati e inoppugnabili. Credo che
risulti ormai evidente come quelle esigenze psichiche (alle quali già abbiamo
accennato a proposito dell’omeostasi) possano fungere da oscura
trappola, a favore di quell’ideologia religiosa che ci propone una salvazione a
buon mercato a fronte di una "condanna" di cui saremmo oberati ab
origine. Rispetto a tale teorema dottrinario, che
qualora assunto acriticamente ci risparmia
il travaglio di una ricerca esistenziale
(ma ci fa rimanere in quel "sonno della
ragione" dal quale l’Illuminismo ingenuamente
credeva di averci liberati), il DAR ci presenta
un mondo frantumato, disordinato e casuale,
così com’è peraltro nella realtà.
La lotta millenaria che le ideologie
religiose hanno condotto contro l'indeterminazione, che invece va accettata quale "fondamento"
del nostro esistere, è stato uno dei modi
di occultare la strutturale ignoranza che
ci inerisce, negando anche quel senso del tragico (26)(che esistenzialmente ci caratterizza
in quanto uomini), il quale si accompagna
a quell’ignoranza che sempre ci assilla e
che spesso viene occultata proprio sotto
il "senso del sacro" (27)(quale
corrispettivo dell’ignoto), nel quale il tragico si risolverebbe
"terapeuticamente". Ma se noi vogliamo invece affrontare
razionalmente il problema dobbiamo entrare nell’ordine di idee che non abbiamo
alcuna possibilità di risolvere il tragico che non sia quella di farlo nostro e tutt'alpiù
contemperarlo con quello del comico. Questa non è un'opzione pessimistica, al
contrario, essa è la scelta che ci permette
di eleggere una certa ironia a guida del
nostro vivere, relegando nel ridicolo tutta
la drammatizzazione che spesso ci inquieta.
Ciò soprattutto in questa nostra civiltà
dell'apparenza, dello spettacolo e della
ricerca del successo (fatta spesso di stereotipi
e feticci) dove la drammaticità talvolta
caratterizza risibilmente la frustrazione delle nostre più banali ambizioni.
L’ignoto, per la mente dell’uomo, è come
una barriera che egli sposta continuamente in avanti; ma nella misura in cui il
nuovo territorio conquistato diventa nuovo patrimonio di conoscenza, la sua
accresciuta apertura mentale gli fa anche intuire che la profondità dell’ignoto
è un pò più profonda di quanto pensasse prima. È molto probabile che quanto più
il vero uomo di scienza "sa", tanto più sia consapevole della vastità
di quello "che non sa". Solo il "dogmatico" se ne infischia
dell’ignoto; infatti egli non ha bisogno di imparare nulla, perchè sa
gia "tutto" ciò quel che gli serve per parlare a nome della
"Verità". Così si è potuto arrivare al punto di conferire alla parola
(verbum), che è solo un "significante" il valore di un
"significato", veritiero ed eterno. Così la straordinaria conquista
della parola, che vive e si evolve, che permette il dialogo
comune (come quello filosofico e scientifico),
nonché l’evocazione poetica, ha potuto "pietrificarsi"
nella "verità" del dogma.
Per quanto riguarda il concetto di verità
nella sua accezione metafisica, vorrei ancora
aggiungere che vi è soltanto un unica
situazione esistenziale che "forse"
avrebbe qualche titolo per aspirare ad assumerlo:
quello della sofferenza. Essa non è soltanto vera in quanto
non è mai contradittoria, ma può
ben definirsi "l'ora della verità"
a miglior diritto di quanto non lo sia la
morte. Quando si soffre scompaiono dall'orizzonte
e si prosciugano tutte le fonti della banalità
e dell'inautenticità, alle quali ci
abbeveriamo quotidianamente. Poiché,
quando giunge, "essa diventa noi e noi
siamo lei" (28) , in un identità
difficile da tollerare e nello stesso tempo
inevitabile, come la necessità che ci permea, in accordo con la ragione biologica e con le leggi del perpetuo divenire. Ma accanto alla sofferenza (ironia della diversità!) vi è anche un'altra
situazione nella quale è dato scoprire un
potere rivelatore, quella della comicità. E vedremo come il comico scocchi alla stessa maniera di una scintilla
quando il riflesso antropico della necessità riceve l'attacco benefico di quello della
libertà. Così, il pianto e il riso costituiscono la
coppia topica nell'esistenza di ogni uomo.
Tra i due appoggi della sofferenza e del comico si tende la fune sospesa sul vuoto dove si
gioca l'essenza e l'esistenza dell'uomo.
1.5) Filosofia "stradale" e anche un pò "boscaiola".
Scimmiottando il sottotitolo di un’opera
di un "grande" della filosofia
moderna, che suona: "Come si filosofa
col martello" (29), abbandono per qualche
istante la strada e inoltrandomi nel bosco
mi lascerò andare un pò anche ad una filosofia
fatta "con l’ascia". Tagliando
quindi la materia del "pensato"
un pò alla grossa e per tronchi cercherò
di staccare quello che ritengo all’origine
di molte distorsioni del pensiero umano,
fin dalle origini. Per come la vedo io, una
sorta di peccato originale che inficia il
pensiero dell’uomo ogni qual volta esso non
riesce ad assumere una sufficiente indipendenza
dalla pressione della psiche, che protegge la propria omeostasi influenzando e
forzando le funzioni preposte all’elaborazioni gnoseologica e computazionale (intelletto
e ragione) verso un’arbitraria lettura della realtà. Ciò conduce
ad interpretazioni dell'universo sempre (o molto spesso) formulate in vista
dell "unità", dell’ "ordine", della
"definizione", dell "omogeneità", dell
"uniformità". Questa specie di fobia della pluralità causale, del
disordine e dell’indeterminazione, alla quale tutti andiamo più o meno
soggetti, molto spesso viene giudicata quasi come una "rivelazione"
su ciò che ci trascende (nel monoteismo) o su ciò che ci include (nel
panteismo), il ché (in quanto veritiera immagine mentale dell’unità e della
totalità) avrebbe infuso nella nostra mente il sigillo dell’ignota e suprema
"verità dell’essere".
Ma si badi, questa fobia che sarebbe
"divinamente innata" non riguarda soltanto, come si potrebbe pensare,
le persone che hanno un fede, ma anche uomini di scienza che si trovano
continuamente al cospetto di un mondo naturale
e di un universo che non offrono per nulla
quella struttura unitaria confortante e rassicurante
che l’omeostasi psichica esige (30). Questo
fa sì che, inconsciamente, si vada sempre
alla ricerca di un "principio primo",
sia esso irrazionale o razionale, dal quale
tutta la realtà avrebbe origine e al quale,
prima o poi, tutto deve essere ricondotto
(31). In altre parole, nel riconoscere i
multiformi aspetti del divenire si cerca sempre di cogliere una fase storica antecedente o
finale dove tutti i fenomeni si autochiamino a raccolta, come effetti di
un’unica causa per confluire in essa e trovare la loro ragion d’essere.
Quello dell’unità, dell’ordine, dell’armonia,
dell’omogeneità ecc. costituisce il grande
sogno umano di tutti i tempi. Un sogno che
dopo il ridimensionamento del modello newtoniano,
l’avvento della meccanica quantistica e i
recentissimi sviluppi della biologia, forse
avrebbe buone ragioni per ritirarsi negli
scaffali archeologici della storia umana
e che invece continua ad imperversare nelle
coscienze individuali. Ma è ancor più nei
granitici sistemi ideologici religiosi che
il sogno non può morire; così succede che,
quando le novità scientifiche mettono in
crisi il sistema dogmatico della fede, i
teologi sottopongono i testi sacri ad un
continuo (e sommesso) lavorìo interpretativo
che talvolta sfocia in una vera e propria
revisione dottrinale, a proposito della quale
si potrebbe applicare la massima trasformistica
"flectar non frangar" (32) (mi
piego ma non mi spezzo).
Il fenomeno ha ancora un altro aspetto degno
d‘interesse, poichè illumina una prerogativa strutturale della psiche,
la quale, di fronte a una nozione potenzialmente pericolosa per la sua omeostasi,
mentre fa emergere la domanda contemporaneamente si dà, e impone, la risposta
"utile" a se stessa, mettendo in un angolo intelletto e ragione.
Si potrebbe aggiungere che forse la coppia oppositiva ordine/caos in campo
teoretico è la madre delle altre dualità corrispondenti in campo etico
(bene/male), in campo estetico (bello/brutto), in campo metafisico
(spirito/materia), in campo gnoseologico (perfezione/imperfezione) e così via,
che vengono gestite dalla psiche in modo analogo. Nella realtà storica tra
due opposti non c’è quasi mai sintesi (come
voleva Hegel)(33) ma molto più spesso soltanto
una relazione (34) più o meno conflittule; quindi gli opposti
convivono nei fenomeni per lo più alternandosi
e molto meno frequentemente risolvendosi
in un’unità sintetica. Ma come è noto tutte
le ideologie (religiose, filosofiche, sociologiche)
immaginano sempre la sintesi (causa finale)(35)
che risolverà la pluralità e la precarietà
nella perfezione dell’unità e della stabilità.
Il nostro intelletto e la nostra ragione
percepiscono una realtà fattuale che si mostra solo come divenire,
ma la psiche caparbiamente li condiziona spingendoli a perseguire sempre
l"essere" unitario ed immutabile quale "causa finale" e
"causa prima" del Tutto. E spesso è proprio la ragione, per qualche
perverso processo interno, che riconosce nella causa "finale e prima"
nient’altro che se stessa. Questo fa sì che i sistemi di pensiero cosidetti
razionalistici (cartesianesimo, spinozismo, hegelismo, ecc.) siano sempre
fortemente determinati in senso finalistico.
L’attrazione del concetto di unità, che (come
ripetiamo) secondo noi ha origine nella psiche, si coniuga con quella
ricerca dell’essere (unitario, ordinato, omogeneo, stabile) che ha
caratterizzato fasi alterne della filosofia occidentale, ma che è stata
addirittura una costante in ambito orientale, dove ha dominato la speculazione
filosofica (con l’unica eccezione del sistema Samkhya, di cui si dirà)
indiano attraverso i millenni.
Diventa inoltre interessante notare che la teoria dell’unità (quale
origine e forma definitiva dell’universo) si affermi quasi contemporaneamente
nel mondo indiano e in quello ebraico intorno al 1000 a.C. con l’ipostasi del
Brahman nel primo e di Jahvé nel secondo. Il Brahman come unitaria forza
suprema all’origine del "tutto" in cui confluiscono tutte le
precedenti divinità e Jahvé come dio unico che sussume e annulla tutte le
"false" divinità precedenti. Avviene così che il precedente sistema
pluralistico degli dei tribali o locali (che sopravviverà invece a lungo nella
cultura greca) viene soppresso per l’instaurarsi di un principio divino unico.
Ma non è meno interessante rilevare che circa dieci secoli dopo (ancora con una
relativa contemporaneità) all’interno di quei due sistemi monistici si affermi
una tripartizione dell’unità sotto le specie della Trimurti indiana (Brahma, Visnu e Siva) e della
Trinità cristiana (Padre, Figlio e
Spirito Santo). Una numerologia psicologica che studiasse a fondo il rapporto
tra l’uno che diventa tre e il tre che rimane uguale all’uno (vedi anche il
molto più tardo hegelismo e altre varie tripartizioni idealistiche) potrebbe
gettare luce su questi processi transustanziali nella storia delle credenze
umane. Ma anche nel mondo greco (intorno al VI sec.a.C.) non erano mancate
spinte all’unità, riscontrabili nel principio unico assunto da Talete con l’acqua,
da Anassimandro con l’infinito, da Anassimene con l’aria e infine da Parmenide
con l' essere.
Chiudo questa piccola analisi del robusto
tronco "filo-unitario" del pensiero umano, che abbiamo tagliato con
l’ascia, per aggiungere che esso non riguarda solamente il filone
"religioso-spiritualistico-idealistico" che abbiamo sopra delineato,
ma anche quello del materialismo, il quale, pur nelle sue varie forme,
si caratterizza quasi sempre anche come un rigoroso monismo, non
dissimile, nella sua opposizione, a quelli spiritualistici.
1.6) Intuire l’inconoscibile.
Nel proporre
questo libretto devo anche evidenziarne subito un evidente limite: quando parlo
dell’aiteria, e di ciò che la concerne, so bene di non
poter offrire alcun elemento di conoscenza
vera su di essa. D’altra parte il DAR, nel
suo porsi come proposta che sfocia da una
ricerca sull'irriducibile alla materia, quale superamento dello spirito
della tradizione, si discosta totalmente da tutte le ipostasi religiose dello spirito (nei termini e nei modi), ma non meno da
tutte quelle laiche (siano esse filosofiche
oppure parapsicologiche) che lo hanno posto
e lo pongono in termini teorici od escatologici
(36). Ed è proprio per questa distanza che
lo separa da esse ho il dovere di ammettere
preliminarmente la mia "ignoranza"
(in senso stretto) su ciò che sia veramente
l’ambito extrafisico che ho
proposto. Perciò, quando tratto dell’aiteria, sono consapevole di non poter fare appello
alle facoltà razionali del lettore, in quanto
funzioni mentali "deduttive e computazionali",
ma devo ripetere ancora che essa può invece
essere soltanto oggetto di una facoltà ma
devo ripetere che essa può invece essere
soltanto oggetto di un'operazione sinergica
tra intelletto ed idema, vale a dire conseguente all'attività intellettiva
di una facoltà come l'intuizione coniugata con l' idemale sensibilità intuitiva. Ciò non
significa che la ragione rimanga estranea a questa operazione, poiché
ad essa va affidato il controllo delle asserzioni
concernenti l’aiteria affinché esse siano sempre perlomeno conformi
a ciò di cui è possibile avere nozione, poiché
tali asserzioni non debbono mai confliggere
con le conoscenze certe che la ragione stessa ratifica. Quindi, sicuramente, questa
rimane una "guida" per l’elaborazione
dualistica, ma non può esserne sempre anche
"strumento". Questa è la ragione
per cui devo introdurre ed accennare preliminarmente
a quell’altro strumento (l’intuizione) a
cui ho affidato le "ragioni" della filosofia che propongo per quanto
concerne tutto ciò che non è percepibile, conoscibile e razionalizzabile.
Solo di ciò che è percepibile (dai nostri
sensi o da adeguati strumenti scientifici) è possibile infatti una vera
conoscenza, anche se pur sempre in termini antropici. E tuttavia la nostra
nozione della realtà non può limitarsi a questo. Se così fosse sarebbero
irreali la maggior parte delle origini e delle cause delle nostre emozioni più
profonde e incisive. Quindi negare realtà, per un riduttivo concetto positivistico,
a tutto ciò che esorbita il "verificabile" è un autolesivo chiuderci
gli orizzonti. Le nostre facoltà mentali al di fuori della ragione sono
così vaste che nessuna persona "ragionevole" se ne può privare.
Bisogna guardarsi da ogni forma di autosuggestione e illusione, ma occorre
tenere presente che il nostro intelletto si rapporta al mondo per lo più
attraverso vie non-razionali. Tra queste, la più importante è certamente l’intuizione.
L’intuizione, come concetto filosofico, ha una storia
curiosa che vi risparmio, La sua validità
come strumento di conoscenza è stata posta
e negata, esaltata e deprecata, divisa per
tipologie di conoscenza, ecc., fino a Kant,
che con l’aggettivo di "intellettuale"
l’identificò addirittura colla creatività
divina. Nel DAR la funzione dell'intuizione è quella di guidare la presa di contatto
(sinergicamente con la sensibilità intuitiva,di cui si dirà) con ciò ch abbiamo posto
come "irriducibile" alla materia. Noi infatti non possiamo percepire l’aiteria in modo diretto perchè la nostra materialità
ci separa da essa e tuttavia, attraverso
una particolare funzione della nostra mente
(come si vedrà nel prossimo paragrafo) ci
è concesso di introiettarla ed elaborarla,
nonché rilevarne anche alcuni suoi aspetti
distinti e tematizzabili, che tratteremo
a suo tempo.
1.7 ) Alcune considerazioni aggiuntive.
La filosofia che intendo proporre vorrei che fosse innanzitutto una filosofia del "buon senso" e per l'uomo della strada ("stradale") in contrapposizione a quella "aulica" delle università. Essa si riallaccia al pensiero di quei filosofi, soprattutto antichi, che in un mondo ancora dominato da quella religione pluralistica e non dogmatica (ma non per questo poco cogente), che è stato il cosidetto paganesimo ellenico (37), invitavano già allora i loro simili a diffidare della credenza cieca e acritica nelle divinità istituzionalizzate, additando un percorso esistenziale e alternativo più consono alla realtà del mondo fisico, il quale, sia pure in modo aurorale e approssimativo, cominciava a disvelarsi. Tra questi padri nobili, che eleggo a lontani modelli di riferimento, mi piace ricordare Empedocle e soprattutto Democrito ed Epicuro. Questi ultimi sono stati gli iniziatori di quella filosofia razionale e anti-mitica della natura e del vivere che l'avvento del Cristianesimo, con la sua violenza dogmatica, ha cacciato in soffitta per quindici secoli. Filosofia razionalistica e laica che è riapparsa timidamente nel Rinascimento, ma che si è riaffermata soltanto nell'Illuminismo, per far nascere e alimentare la fioritura di una visione atea e razionale del mondo, la quale doveva però, troppo presto, venir nuovamente seppellita dai fumi del trionfante Idealismo ottocentesco (38).
Dopo la sbornia idealistica e della sua filiazione marxista, seguite dagli oscuri e ambigui esistenzialismi del XX secolo, mi pare che ora, all'alba del XXI, sia giunto il momento di riconsiderare quel messaggio trascurato. E quindi (riallacciandosi ad esso) tentare di proporre una concezione del mondo alternativa a quelle poste dal trascendentalismo religioso e dall’idealismo, ma anche a quelle di un materialismo rigido e di uno scientismo dogmatico. Per essere credibile però essa ci deve offrire un panorama della realtà non contraddittorio rispetto all’oggettività delle più recenti acquisizioni scientifiche, e nello stesso tempo (superando l'arido materialismo radicale che spesso ad esse si lega) deve configurare un orizzonte esistenziale che indichi una visione del vivere ricca i tutti i fermenti culturali e affettivi che l'umanità coltiva da sempre, come la parte più preziosa della sua avventura nella vita del cosmo.
Non sono certo che la mia ipotesi sulla
pluralità dell'universo e il conseguente dualismo della realtà antropica,
nonché l'accenno ad un misterioso futuro (l'aiteria) che potrebbe
attendere un "prodotto" (l'idioaiterio) (39)di quella nostra particolare funzione
mentale che è l'idema (40), possano costituire nel loro insieme
una tesi convincente. E tuttavia si tratterà
almeno di una debole voce contro la tirannia
monistica che ha imperversato nei secoli
e ha messo in ombra ogni alternativa pluralistica,
di cui il DAR (in quanto filosofia che ha
per oggetto l'uomo più che l'universo) è
una sottospecie (41).
Come abbiamo già visto il fascino dell'unità
e dell'unicità, come d'altra parte quello
dell'ordine, sono delle "costanti"
nella storia del pensiero umano. Esse devono
evidentemente possedere, dal punto di vista
psichico un elevato potere di rassicurazione,
ma è evidente che ciò non trova riscontri
nella realtà della nostra esperienza e dell’oggettivazione
scientifica, la quale invece ci offre un’immagine
plurale, complessa e caotica dell'universo
in generale e della biosfera terrestre in particolare; ancorché fortemente
organica e integrata nella necessità, che determina un certo
ordine di carattere causale e conseguenziale.
Ripeteremo ancora che la maggior parte delle filosofie di successo e culturalmente dominanti, in tutti i tempi, hanno sempre privilegiato o posto molto spesso proprio l'unicità di una "causa prima", analizzando solo di seguito la pluralità degli effetti. Le scienze, al contrario, sono sempre partite da un singolo effetto per ricercarne le molteplici cause. Ciò delinea chiaramente la differenza tra come l’uomo da sempre " vorrebbe" il mondo e come esso invece "sia" nella realtà.
NOTE
NOTE 1.1
(4) In epistemologia il termine olismo indica quella teoria che considera il sapere
scientifico come un insieme di proposizioni
altamente connesse, tale da non consentire
la verifica sperimentale di una singola ipotesi,
ma solo di porzioni più o meno estese dell'insieme.
Analogamente in biologia esso è la teoria
secondo la quale ogni organismo vivente presenta
caratteristiche non riconducibili alla semplice
somma delle sue parti. Esiste anche una concezione
sociologica di esso, che considera le società
come delle totalità non riducibili alla somma
degli individui che le costituiscono.
(5) Le stelle sono corpi che danno luogo
ad emissioni elettromagnetiche di vario tipo.
La luce che noi vediamo dipende dalla temperatura
superficiale del corpo, che è direttamente
proporzionale alla massa e alla velocità
di rotazione. Contrariamente al nostro modo
usuale di esprimerci quelle che emettono
luce "fredda" (le stelle azzurre)
sono le più calde, mentre quelle che emettono
luce "calda" (le stelle rosse)
sono le più fredde. Una stella azzurra come
Riegel (8.000 volte più grande del Sole)
ha una temperatura superficiale di 75.000
gradi Kelvin, una gialla come il Sole ha
una temperatura di poco meno di 6.000 gradi
K e una rossa come Betelgeuse circa 3.000
gradi K.
(6) Assumiamo qui il punto di vista esposto
per primo dal biologo Jacques Monod alla
fine degli anni '60 e trattato nel suo saggio
Il caso e la necessità pubblicato nel 1970.
(7) A questo proposito sono estremamente
interessanti i recenti sviluppi degli studi
sull'apoptosi, il suicidio cellulare. In
realtà risulta che le cellule non muoiono,
ma "si suicidano". Ciò avviene
attraverso la produzione interna di proteine-killer
che "eseguono la sentenza" appena
la cellula diventa inutile o non più coordinata
con quelle vicine. In realtà il processo
è assai complesso poiché entrano in gioco
tre geni che producono altrettante proteine
solo una delle quali è l "esecutore"
la cui opera dipende però da una seconda,
una sorta di "commutatore vita/morte",
e ad una terza (il "protettore")
che rinvia l'esecuzione. Questo meccanismo
risulta essere sostanzialmente identico per
tutti gli esseri viventi (J.C.Ameisen - Al cuore della vita - Feltrinelli 2001- pag. 75 e successive).
(8) Teorie che ammettono una sola sostanza
a cui tutto si riduce; ovvero una sola realtà fondamentale a cui sono riducibili eventuali
realtà
apparenti.
(9) La psiche, nella sua tendenza alla conservazione e
al risparmio di
energie nervose, spinge sempre le facoltà
intellettive a formulare una
"visione del mondo" appagante e
tranquillizzante.
(10) Mi riferisco qui ad alcune recenti ipotesi
cosmologiche, che considerano il nostro universo
soltanto come "uno dei tanti" nati
dal big-bang
iniziale.
(11) Chiamiamo ambito il "campo" di realtà in cui un
dato ente si manifesta ed esiste. Mi scuso se sono fin d'ora costretto a
introdurre alcuni termini ad hoc. Dopo un iniziale tentativo mi sono reso
conto dell'impossibilità di utilizzare termini
noti, ma impropri nel contesto del DAR, col
rischio di ingenerare equivoci poi difficili
da dissipare.
(12) La tesi che il corpo animale sia il
risultato di un elaborazione genetica di
informazioni acquisite sulla realtà esterna
è di Konrad Lorenz, ed è sostenuta specialmente
in due sue opere fondamentali: L'altra faccia dello
specchio (1973) e Natura e destino (1983). Per Lorenz
"vivere" è soprattutto "imparare"
e acquisire informazioni
sulla realtà che ci circonda. L'adattamento
evolutivo è quidni un'acquisizione
di sapere per cui <<[...] all'interno
del sistema vivente si forma una
riproduzione del reale mondo esteriore>>.
NOTE 1.2
(13) Stato di equilibrio a cui la psiche (insieme col resto del corpo)
tende, evitando esperienze spiacevoli sia mentali che corporee. Ciò condiziona
anche le attività dell'intelletto e della ragione, che nelle loro
formulazioni devono fare i conti con le inerzie
di essa.
(14) Introduciamo qui (e lo useremo alternativamente
a concezione del mondo)
la parola tedesca weltanschauung, che letteralmente significa
"visione del mondo", tradotta in italiano (oltre che con concezione
d.m.) anche con intuizione d. m. Essa è ormai sufficientemente nota
in filosofia e in psicologia, e praticamente
utilizzata in tutte le lingue come
termine unico esprimente il concetto citato.
(15) Come si vedrà più avanti il DAR pone
e considerà quattro "funzioni"
principali della mente, che vengono chiamate
organizzazioni
mentali, in quanto componenti strutturali e funzionali logicamente
"individuabili" all'interno dell'operatività integrata del nostro
cervello. Esse sono la psiche, l'intelletto, la ragione e
l'idema (nucleo dell'individualità). Questo tipo di operazione
euristica, per "suddivisione funzionale" della mente, che è stata
chiamata procedimento partitivo verrà esposta e spiegata più avanti.
(16) Il DAR considera l'universo come una
entità complessa dal carattere metaforicamente"spugnoso".
In essa tutta la realtà "percepibile"
nasconde un'altra realtà soltanto "intuibile",
la quale riguarda quell'ambito che ci rimane
ignoto, a causa delle "lacune"
della nostra percezione.
(17) Col termine di credenza intendiamo l'assunzione veritativa di un
concetto o di un'insieme di concetti su di
un oggetto del pensiero (fatto, situazione,
testo, testimonianza, ecc.) ritenuto reale,
indipendentemente da ogni ratifica empirica
o razionale. La credenza ha quindi carattere prevalentemente irrazionalistico
anche se basata su elementi di razionalità.
(18) Mi riferisco a quanto esposto nel suo
The will to believe-1897 (La
volontà di credere).
(19) L'antropomorfizzazione" della religione
è esposta da Ludwig Feuerbach in L'essenza del cristianesimo (1841).
NOTE 1.3
(20) Sono stato costretto ad introdurre questo
nuovo termine, che a grandi linee è abbastanza
vicino a quello tradizionale di "spirito",
perché quest'ultimo ha assunto nelle religioni
un significato divino e trascendente incompatibile
col dualismo, che è pensiero ateo e immanentistico.
Il termine aiteria , col significato indicativo di "sostanza
eterea", è una libera derivazione dal
greco àiter che significa appunto "etere".
Il termine venne utilizzato prima da Empedocle
per indicare l'aria, poco dopo da Anassagora
che lo utilizzò al posto di "fuoco",
quindi Aristotile nel De Caelo lo indicò come la "sostanza sottile",
ingenerabile e incorruttibile, che costituisce
il cielo. Piu tardi in ambiente aristotelico
assunse il significato di "quinto elemento"
oltre ai classici quattro (terra, acqua,
aria, fuoco).
(21) Il divenire è lo scorrere della realtà generale dell'universo,
per cui tutto è instabile e si trasforma
in forme della materia, specialmente vivente, che non "sono"
mai definite ma che "divengono"
in continuazione. Il termine venne posto
da Eraclito per primo nella storia del pensiero
europeo, quale principio cosmologico che
il pensatore espresse con la nota espressione:
"panta rei" (= tutto scorre).
(22) Si anticipa qui che l'intuizione è facoltà
dell'intelletto, il
quale, contrariamente alla ragione (che opera per deduzione e induzione)
la possiede come facoltà primaria. Ma l'intuizione dell'aiteria, come di
tutto ciò che la riguarda, potrebbe essere considerato un caso particolare di
funzione congiunta tra intelletto ed idema, da ciò la
supposizione dell'esistenza di una sensibilità intuitiva, quale facoltà
idemale che concorre con l'intuizione all'accedere dell'uomo all'aiteria
(23) Si trattava della categoria che precedeva
quella di "Giovani" (dai diciotto
ai trenta) a cui seguiva quella degli "Uomini"
di Azione Cattolica.
(24) Il PCI (Partito Comunista Italiano)
dopo il collasso dell'Unione Sovietica nel
1989 divenne PDS (Partito dei Democratici
di Sinistra) e successivamente DS (Democratici
di Sinistra).
(25) Con questo termine alcuni positivisti
inglesi (Huxley, Clifford, ecc.) definirono
fenomeni secondari o accessori di quelli
corporei come per esempio la coscienza.
NOTE 1.4
(26) Tratteremo a suo tempo questo argomento
all'interno del Capitolo 6 (6.3 - La moira).
(27) Il senso del sacro, dai teologi tematizzato come "innato"
e rivelativo della nostra dipendenza da un Dio creatore è stato oggetto di
numerose analisi storiche, filosofiche e psicanalitiche. Uno dei saggi più
approfonditi e interessanti su questo argomento è Il sacro.L'irrazionale
nell'idea del divino e la sua relazione al razionale (1917) di Rudolf Otto,
nel quale si ribadisce il carattere irrazionale del senso del sacro e la
necessità di liberarsi di ogni condizionamento
razionalistico nell'approccio al
fenomeno religioso.
(28) Il concetto di sofferenza che il dualismo pone come tema centrale
va tenuto distinto dal senso che ad esso attribuisce la filosofia orientale e
in ispecie il Buddhismo. Più avanti si preciserà come la sofferenza non
sia qualcosa da "superare" ma qualcosa da "vivere" come
correlato del divenire.
NOTE 1.5
(29 F.Nietzsche - Il crepuscolo degli idoli (ovvero: Come si filosofa
col martello) - 1889.
(30) In termini freudiani si potrebbe dire
che il caos, l'indeterminazione
e la pluralità causale possano determinare un' investimento psichico
troppo elevato, e che il conseguente dispendio energetico aumenti la pressione
dell'es sull'io, spingendolo alla formulazione di pensieri
meno
perturbativi.
(31) Sono noti i turbamenti di Albert Einstein
di fronte all'indeterminismo della Meccanica
Quantistica e i suoi ripetuti tentativi di
trovare un principio unitario che potesse
spiegare tutto il mondo fisico.
(32) L'opposta frangar non flectar (mi spezzo ma non mi piego) è una famosa
massima della retorica romana dell'eroismo
virile.
(33) Si ricorda che la fenomenologia hegeliana (processo dialettico
degli opposti) si basa sulla tesi (che si pone), sull'antitesi
(che le si oppone) e sulla sintesi (che le supera unificandole entrambe
in sé).
(34) Chiamiamo relazione la situazione che si verifica tra due o
più
entità "in equilibrio", che nella
diversità o nella opposizione
restano uguali a se stesse senza mai "risolvere"
verso un'unità che
le annulli.
(35) Secondo Aristotile la causa finale è il fine o lo scopo di
qualsiasi azione. Nella teologia l'argomento della c.f. porta alla
necessità di Dio, che è anche causa prima.
NOTE 1.6
(36) Mi
riferisco qui da un lato all'idealismo e allo spiritualismo
filosofici e dall'altro alla parapsicologia, specialmente nella sua
forma nota come spiritismo.
NOTE 1.7
(37) Va tuttavia sottolineato che il politeismo pagano, basato sul mito,
era una forma assai più poetica e adeguata della complessità e pluralità della realtà
che ci circonda; e sopratutto assai meno
dogmatica e dottrinaria.
(38) Intendo riferirmi soprattutto all'idealismo hegeliano, quale
espressione di una visione puramente intellettualistica
e irrealistica
dell'uomo e del mondo.
(39) Il termine è composto da idio (dal greco idios = proprio) e da aiterio (che sta per "elemento aiteriale").
(40)Purtroppo mi vedo costretto a introdurre
qui il termine idema, che
si apparenta in qualche modo a quello di anima, da cui chiaramente
deriva. Perché questa sostituzione? Perché il termine anima, fatto proprio e sovraccaricato di significati
trascendenti da parte della religione, è
ormai inutilizzabile per il DAR. La parola
deriva da una libera fusione di ide[ntità]
e [ani]ma, ma anche di ide[ntità] e [se]ma (significato) o
se si vuole anche di ide[ntità] e [re]ma (flusso [della
coscienza] ). In definitiva il significato che attribuisco ad idema è quello
di nucleo ed essenza dinamica dell' individualità.
(41) Oltre a ricordare che alcuni cosmologi
stanno sempre più considerando la possibilità
che il nostro universo non sia che uno dei
tanti esistenti (multiverso) vorrei far anche notare che la fisica sta
studiando l'ipotesi che l'universo sia costituito
da molte più dimensioni delle quattro canoniche
(tre spaziali + il tempo) e che vi siano
forse (Teoria delle Superstringhe) altre
sette dimensioni nascoste (compattificate).Questa
nuova teoria fisica (in continuo sviluppo)
ha avuto nascita nel 1968 dalla brillante
intuizione del fisico italiano Gabriele Veneziano,
il quale, più recentemente, ha avanzato la
rivoluzionaria teoria cosmologica del "Pre-bigbang",
in base alla quale il big-bang non è altro
che una fase importante, ma posteriore, della
nascita dell'universo (per un sommaria descrizione:
Science &Vie n°988 janvier 2000 - pp.
42-46 e New Scientist 3/6/2000 - pp.24-28).
(42) Mi riferisco alla cosidetta "disputa
degli universali, che ha contrapposto, tra
l'XI e il XIV secolo i cosidetti "realisti",
sostenitori della realtà dei concetti generali
applicati agli individui (come classi o specie),
e i "nominalisti" che negavano
tale realtà, sostenendo che solo i singoli
individui sono reali e ogni generalizzazione
è solo un nome, un "emissione di voce".
(43) Filosofo e teologo francese del medioevo
(fine XI sec.) considerato fondatore del
nominalismo riteneva priva di realtà la Trinità
(quale puro nome) e divine soltanto le tre
persone prese singolarmente.