CAPITOLO 9
(L’ambito aiteriale e i suoi aspetti antropici).
9.1) Molti caratteri dell’aiteria? (Forse! Ma soltanto cinque di essi sembrano riconoscibili in
altrettante categorie analogiche antropiche).
Coerentemente con l’assunto che l’aiteria sia libertà e qualità
incondizionate ne deriva che essa è fondamentalmente
basata sulla “diversità” e
sulla “pluralità” e che quindi gli aspetti
(caratteri) di essa possano
essere teoricamente assai numerosi. Ma dell’aiteria, con tutta probabilità, la nostra idema percepisce e può elaborare soltanto “qualcosa” ed allora noi
dovremo limitarci a cercare di delineare
ciò che ci concerne, vale a dire ciò
che di essa “si dà” alla nostra intuizione.
Con questo intento limitato io credo che
sia per il momento possibile
individuare soltanto cinque caratteri
presuntivi dell’aiteria, che nella nostra esperienza si
offrono all’identificazione come categorie esperienziali che dovrebbero
risultare “analogiche” rispetto ad essi.
Queste cinque categorie analogiche esperienziali sono state chiamate: estetica, etica, gnòresi, cairéa e dhianasi, relative
rispettivamente ai caratteri α, β, γ, δ ed
ε dell’aiteria. L’aggettivo “analogiche” nasce
dalla considerazione che noi (non conoscendo
nulla dell’aiteria ma
soltanto intuendone l’esistenza) possiamo
tutt’al più cogliere certi aspetti
extrafisici della nostra esperienza (riconducibili
a “nostre” categorie
esperienziali) e ritenerli analoghi a corrispondenti
aspetti (caratteri)
di ciò che ne è origine (l’aiteria).
Sembra
ragionevole presumere che noi, in quanto
materia,
siamo in grado di formarci soltanto un “immagine
materiale” dell’aiteria
e ma nulla di più, infatti le categorie analogiche sono costituite
proprio da questa nostra “lettura” delle
denotazioni aiteriali. Le nostre
esperienze idemali probabilmente riflettono
(come può fare uno specchio) ciò
che è l’aiteria, ma non sappiamo se e
come ci mettano in contatto diretto con ciò
che essa sostanzialmente è. Osservo
inoltre subito che, in realtà, soltanto una
parte delle esperienze idemali sono
facilmente riferibili a una sola di codeste
categorie, mentre abbastanza spesso
si ha a che fare con una “fluttuazione di
senso”, per cui, a seconda del tipo
di forma e del grado di estensione e intensità
dell'esperienza stessa, è
possibile riconoscerne aspetti riconducibili
a due o più di esse,
contemporaneamente. Anche a questo proposito vi è da parte del
DAR una certa utilizzazione del procedimento partitivo, il quale, anche qui, ci aiuta nella nostra
indagine, senza nessun pretesa di riflettere
la realtà dell’aiteria, ma
cercando soltanto di tradurne gli effetti
nella “nostra” realtà esperienziale.
Per entrare preliminarmente nel dettaglio
dei termini che sono stati utilizzati
per indicare le categorie dell’aiteria ne accenneremo ora rapidamente,
rinviando al dopo la descrizione del loro
presentarsi alla nostra intuizione.
Il termine estetica proviene dal greco e dal punto
di vista lessicale dovrebbe indicare una
disciplina che si occupa della
conoscenza sensibile, ma ha poi prevalso
(dalla metà del Settecento in poi)
l'accezione che la identifica come quella
branca della filosofia che si occupa
del bello e dell'arte. Qui io la utilizzo
per indicare un carattere dell’aiteria che presiede a tutte le
esperienze che hanno a che fare con la produzione
e la fruizione dell'arte in
generale e di tutto ciò che si offre ai sensi
con analoghe modalità. Mi
riferisco in primo luogo a tutto ciò che
si definisce "natura", nei
suoi aspetti, spettacoli e suoni. Non a caso
alla natura l'arte si è ispirata fin dalle origini,
imitandola ed
evocandola.
L'etica è un'altra branca della filosofia
che indica lo studio della condotta e del
costume, ma che nei suoi derivati ha
poi finito per riferirsi soprattutto agli
aspetti positivi dell'azione umana
nei confronti del prossimo, della comunità
di appartenenza, della società in
genere, delle istituzioni, degli animali,
dell'ambiente, ecc. Praticamente si
tratta di un sinonimo del termine di origine
latina "morale", che gli
è poi stato preferito dalla religione cristiana
per designare l'insieme dei
comportamenti conformi ai precetti della
sua dottrina. Qui io utilizzo il
termine per indicare le esperienze attive
e passive che riguardano la sfera dei
sentimenti e dei comportamenti in genere
riferiti a singoli esseri viventi o a
loro insiemi.
Per quanto
riguarda la terza categoria (gnòresi)
si tratta di una parola composta ispirata
al greco antico, costituita dal
prefisso "gn" col quale inizia
il termine "conoscenza"e
da"òrexis" (che vuol dire: desiderio,
brama). Ho voluto usare questo
termine composto per meglio rendere il significato
di essa, che non si
riferisce alla conoscenza "per"
o "in vista di
"qualcos'altro", ma il puro desiderio
di conoscere per amore del
conoscere in se stesso. Soltanto in questa
forma si può riconoscere
l’irriducibilità alla materia, che
nella sua tendenzialità oggettivante presuppone
invece sempre la conoscenza in
vista del suo utilizzo per il raggiungimento
di “fini” pratici.
Il termine che
indica la quarta categoria (cairéa)
viene dalla forma verbale greca "kairô"
(che significa: mi rallegro,
gioisco, sono contento, ecc.). Di primo acchito
questa categoria parrebbe
superflua, dal momento che le tre precedenti
possono essere (e spesso sono, sia
pure in forme molto diverse) produttrici
e foriere di gioia. Io però intendo la
cairéa nella sua specificità,
veramente sconvolgente, di non essere legata
ad alcuna stato mentale od
attività distinguibili e determinabili, ma
di costituire una sorta di predisposizione
all’allegria e alla giocosità contagiosa
per tutti coloro che ne vengono a
contatto. Essa è molto rara ed emerge in
modo quasi prodigioso per lo più in
persone semplici, ma può interessare anche
animali, con la capacità di tali
soggetti di irradiare intorno a sé contentezza
e giocosità.
La dhianasi (quinta e relativa al carattere ε) si riferisce ad
un gruppo di esperienze di tipo simpatetico
nei confronti della natura in
genere, di suoi aspetti animali o vegetali,
di suoi fenomeni continui, periodici,
ciclici o casuali, come pure di quegli aspetti
dell’universo (corpi stellari)
visivamente o strumentalmente percepibili.
Le esperienze dhianasiche si
caratterizzano per l’intuizione dell’aiteria in una sua dimensione globale e
totalizzante dove i singoli elementi si offrono
(o vengono colti) come fossero
fusi in un insieme, ciò anche se lo stimolo
iniziale può essere singolo o
localizzato per poi espandersi e coinvolgere
contigui aspetti aiteriali. Come
già detto essa si verifica per lo più a contatto
con la natura generica, oppure
in luoghi e situazioni specifici, ma sempre
evocatori di un irreale “tutto”
aiteriale. Come sappiamo infatti è del tutto
privo di senso immaginare una
generale “unità” aiteriale; noi usiamo la
parola aiteria, una sorta di
inconsistente e irreale “universale” (vedi nota 42 della Parte Prima),
per indicare l’insieme dei singoli aiteri che la compongono nella sua generalità. Questo
tipo di esperienza idemale, che ha qualche
analogia con le esperienze yogiche e con
quelle ascetico-estatiche in genere, non
manca di ambiguità. Ma nel contesto del DAR
è molto meno estraniante e più naturale di
quelle, trattandosi di un tipo di abmozione dipendente esclusivamente
dalla individuale sensibilità intuitiva e non da pratiche preparatorie
né da alcun studio preliminare, né dall’assoggettamento
ad alcuna disciplina
psichica o fisica necessaria o predisponente.
9.2) L’estetica.
Nella preistoria le attività umane
afferenti l'estetica in senso moderno
(e che oggi sono oggetto della storia dell'arte)
erano in realtà esclusivamente
operazioni magiche od evocazioni animistiche.
Ne emerge pertanto il loro
carattere religioso o almeno pseudo-religioso,
il ché ci permette di
sottolineare ancora una volta come sotto
forme improprie o traslate sono state
vissute forme di intuizione dell’aiteria
reali ed autentiche. Si deve quindi ammettere
che (sia pure oscuramente) l'uomo
ha intuito abbastanza presto che dietro immagini,
suoni e parole (arti visive,
musica, poesia) stava qualcosa di misterioso
e affascinante, che non tardò ad
attribuire o mettere in relazione col sentimento
del magico o del
soprannaturale.
Quando più tardi le religioni cominciarono
(attraverso
riti, dogmi e strutture cultuali) ad organizzarsi
in ideologie dottrinarie le
arti furono assunte e integrate con funzioni
di sostegno dell'insegnamento
della dottrina o come arricchimento del culto
e della liturgia. A tal proposito
va riconosciuto che lo sviluppo delle arti
in genere, almeno sino a cinque-sei
secoli fa, è stato principalmente merito
delle organizzazioni confessionali, che
in quanto committenti ne hanno promosso la
realizzazione e lo sviluppo. Ma
l'enorme contributo dell'arte allo sviluppo
delle religioni ha compensato
largamente tale merito, poiché una liturgia
priva di suoni e una dottrina senza
immagini sarebbero sicuramente assai meno
efficaci. E sono addirittura
impensabili gli sviluppi delle varie fedi
senza le architetture che hanno
ospitato le funzioni religiose, gli ornamenti,
gli addobbi, le immagini
scolpite o dipinte, i costumi, le coreografie,
i canti e la musica. Occorre
aggiungere che tutto questo insieme di elementi
“al contorno” delle
manifestazioni e celebrazioni rituali ovviamente
non veniva e non viene neanche
oggi percepito dal fedele come un elemento
isolato dal contesto (in quanto
oggetto estetico), ma come integrato alla
sacralità del luogo se non
addirittura facente parte del messaggio divino
e quindi alla divinità
indirettamente attribuito, almeno in quanto
causa o ispiratrice di esso. Quante
volte infatti l'artista è stato visto come
mero esecutore dell'opera, in quanto
sarebbe stato ispirato dall’alto o addirittura
avrebbe agito come puro
strumento della volontà divina?
Succede anche che il credente sia
erroneamente indotto ad attribuire direttamente
al “rappresentato” la
commozione derivante dalla fruizione della
“rappresentazione” che riceve
attraverso gli occhi o le orecchie. Riferisce
pertanto un effetto al messaggio
cultuale sottostante lo stimolo, mentre nella
realtà è proprio questo ad agire
sulla sua sensibilità estetica. Così l’evento estetico viene snaturato e
mistificato, diventando impropriamente un
fatto fideistico, enfatizzando con
ciò il significato (secondario) a scapito
del contenuto estetico, che è
l’elemento primario e agente dell’effettualità. L'equivoco che sta alla
base di questo comune errore di interpretazione
da parte del fedele vale anche
per i testi sacri, i quali (nella maggior
parte) non sono altro che componimenti letterari
o poetici arcaici, che
testimoniano insieme la cultura dominante
e le credenze di un'epoca o di un
popolo in forma estetica (e spesso di ottima
qualità letteraria).
Per quanto riguarda le circostanze in cui
si verificano gli eventi estetici in generale
la casistica è piuttosto ampia.
Si va dalla vista casuale di un oggetto o
di uno scenario naturale in un
momento di particolare sensibilità idemale
alla volontaria concentrazione su di
esso. Dall'aver udito una melodia arrivata
per caso al nostro orecchio
all'ascolto preparato e attento in una sala
da concerto o al nostro casalingo
impianto hifi. L'esperienza
idemale non obbedisce a regole e non è neppure
soggetta alla nostra volizione, poiché l'idema è sì nostra, ma la sua funzione è
in un certo senso già fuori dell'ambito materiale
su cui operano le altre organizzazioni (compreso l’intelletto
che pure appoggia “dall’esterno” l’evento
con l’intuizione). Relativamente alla
“causa” le esperienze estetiche (analogicamente
riferite al carattere aiteriale a) possono essere ripartite principalmente
in
quattro gruppi di riferimento: quelle relative
all'udito, quelle relative alla
vista, quelle che riguardano la parola o
la scrittura, e infine quelle miste.
Il primo gruppo riguarda tutto ciò che
deriva dal nostro rapporto con i suoni in
generale e con la musica in
particolare. Si tratta di un campo esperienziale
con grandi differenze di espressione e di effetto, a cui fa capo una
vasta categoria di rumori naturali (tuono,
vento, pioggia, acqua in genere,
ecc.) ed alcuni artificiali (attrezzi percussori,
seghe, lime, motori, trapani,
ventole, ecc.), i suoni veri e propri e tutte
le molteplici forme organizzate
di essi, sia pure che collegate alla parola,
alla danza o ad immagini. Tuttavia
è sicuramente ciò che viene chiamato "musica"
a interessare
principalmente il nostro tema.
Probabilmente vi sono forme di musica, come
quelle che accompagnano la
danza, le quali posseggono una predominante
componente di stimolo motorio, per
cui sembrerebbero eleggere a loro oggetto
esclusivamente il corpo e un suo
riposto istinto a muoversi ritmicamente per
trarne piacere. Ma non si possono
operare nette separazioni in tal senso, né
escludere a priori alcune forme
musicali che parrebbero prescindere dall'idema facendo riferimento solo alla psiche
e ad istanze di tipo neuro-cinetico. In effetti
abbiamo già rilevato come idema e corpo possano
risultare strettamente connessi e
il piacere fisico accompagnare strettamente
quello estetico. In realtà va detto che il confine tra musica
“alta” e musica “bassa” (o popolare) non
è facile da delineare e tanto meno si
ha il diritto di negare valore estetico ad
una musica considerata a priori di
rango inferiore (talvolta perché non amata
o perché intellettualisticamente
ritenuta inferiore per struttura o per destinazione).
Con ciò non si intende
minimizzare l’esistenza di musica banale
e talvolta decisamente volgare, che
sia nel campo dell “orecchiabile” sia in
quello dell “eccitante” imperversano
in luoghi chiusi o aperti, come anche alla
radio o alla televisione, ma
unicamente indurre alla massima prudenza
di giudizio, tenendo sempre conto che
in campo estetico i gusti sono variabilissimi
per ragioni culturali o
caratteriali. Tuttavia, è abbastanza probabile
che buona parte della musica in
circolazione sia priva (o quasi) di stimoli
diretti per l’idema, ma la contestualità di una cattiva musica
con una certa
situazione affettiva od emotiva può farla
diventare un viatico amoroso o
renderla evocatrice di un ricordo ricco di
risvolti idemali indiretti.
La prerogativa
fondamentale della musica è di non essere
mediata dal linguaggio parlato,
possedendo pertanto quel carattere di universalità
che le viene unanimemente
riconosciuto. Il ché non è vero in senso
assoluto, poiché sia le scale in uso,
sia le strutture melodiche e armoniche che
caratterizzano la musica di un area
culturale possono renderla astrusa o noiosa
per appartenenti ad altra area che
vi si accostino senza preparazione. Quindi
vi è un problema di linguaggio
relativo all “ascoltabilità” di una musica
che fa riferimento a modelli e
schemi melodico-ritmici familiari od estranei
per cultura e tradizione. Ma va
sottolineato che le emozioni che la musica
provoca sono comunque assai diverse
per qualità ed intensità e quindi ciò che
commuove od esalta una persona può
lasciare indifferenti molte altre, anche
se appartenenti allo stesso contesto
sociale e culturale ma con sensibilità e
gusti differenti.
L'ascolto di certa musica, soprattutto se
avviene nella assoluta immobilità corporea
e in contesti particolari può, senza
alcuna elaborazione preliminare e senza che
l'intelletto partecipi in alcun modo, far veramente emergere
l'idema come soggetto unico
dell'esperienza, mettendo tra parentesi il
resto del nostro essere ed in mora
la stessa concadenza. Si tratta di
esperienze idemali pure assai rare, ma possibili
sia casualmente sia con un
appropriata scelta di luogo e tipo di musica.
Ma anche rumori e suoni della natura
spesso provocano abmozioni estetiche
e quindi è preferibile adottare un criterio
possibilistico ed estensivo
piuttosto che restrittivo al fine di stabilire
entro quali limiti sia possibile
l'esperienza idemale estetica. Le ideme
sono il nucleo dell'individualità,
quindi presentano una differenziazione infinita,
il ché rende possibile un
grande evento e una forte abmozione a partire da cause insignificanti.
Al secondo
gruppo appartengono quelle che genericamente
vengono indicate come arti
figurative prese in senso lato, comprendendovi
quindi anche le attività
artigianali nelle quali l'eccellenza porta
a risultati assimilabili all'arte.
Parliamo così in primo luogo di disegno e
grafica in genere, pittura, scultura,
architettura, senza escludere fotografia,
design, scenografia, ecc. Ma anche la
particolare forma o decorazione di un mobile
o di un capo di pelletteria
possono provocare abmozioni, a volte unicamente per il loro
valore estetico, più spesso (quando tali
oggetti, nel loro essere o nel loro
presentarsi, si connettono a particolari
situazioni affettive od emozionali) in
un unione di stimoli etico-estetici che danno
luogo ad esperienze miste.
Per quanto riguarda il terzo gruppo ci si
riferisce alla letteratura e specificamente
alla narrativa e alla poesia. La
peculiarità di questo gruppo sta nel fatto
che in esso sia l'artefice sia il
fruitore accedono alla sostanza dell’arte
attraverso un medium relativamente astratto (rispetto al suono
o al colore) che è
il linguaggio parlato. Nell’elaborazione
o nella percezione della “materia” di
ciò che è scritto sulla pagina sia il creatore
che il lettore devono (il primo
traducendo il discorso in segni grafici e
il secondo traducendo questi in
discorso) svolgere un lavoro di trasformazione,
che rende questo tipo di
attività estetica più complessa ed impegnativa.
In un certo senso chi scrive e
chi legge non vivono un rapporto diretto
con la sostanza dell’arte, ma mediante
un lavoro di transustanziazione di essa attraverso
il linguaggio (da notare che
anche il compositore di musica opera e sente
su due piani diversi, quello del
suoni reali nella sintassi dinamica-agogica
e quello della simbologia che li
rappresenta). Questo modello interpretativo
in realtà è un po' rigido poiché,
soprattutto nella poesia, non è detto che
il legame col linguaggio, la sua
logica e i suoi significati debba essere
rigoroso, perché la componente sonora
(come nel caso dell’onomatopea) può spostare
l’emozione su un piano
para-musicale. Un'altra particolarità di
questo gruppo, che potremmo definire
quello della scrittura, sta nel fatto di
richiedere pochissimi mezzi di accesso
e libertà di movimento. Un pezzo di carta
e pochi segni, in un prato come in
una cella di pochi metri, possono diventare
fonte di un’abmozione estetica sia per chi crea che per chi fruisce
l’opera
poetica o narrativa.
All'ultimo
gruppo appartengono le espressioni artistiche
che si avvalgono di due o tre
elementi ascrivibili ai gruppi precedenti.
Di esso fanno parte tutte le
attività legate alla recitazione e alla spettacolarità,
quindi il teatro in
generale (prosa, balletto, lirica, mimo,
ecc), il cinema, la televisione, ecc.
In questo caso è evidente che l’esperienza
estetica risulta dal connubio e
dalla sinergia tra elementi scenografico
figurativi, coreutico-mimici,
recitativi, musicali, ecc.
Potremmo definire tutte le discipline
citate come produttrici di situazioni estetiche
privilegiate
dall'intenzionalità, tuttavia non possiamo
limitarci ad esse e né possiamo
ritenerle sufficienti in se stesse a produrre
abmozioni. Vi sono oggetti
o situazioni estetiche naturali o artificiali,
consuete o casuali, i cui
effetti sull'idema possono essere
anche maggiori e tra queste eccellono ovviamente
gli spettacoli della natura,
in termini sia macroscopici che microscopici.
Dalla vista di un fiore o di una
farfalla fino ai grandiosi spettacoli montani
o marini credo che tutti possiamo
concordare sulla capacità di spettacoli ed
ambienti naturali di indurre la
nostra idema a importanti esperienze estetiche (ma anche
dhianasiche come si
vedrà), a testimonianza del fatto che la
natura (materiale) è permeata (o
meglio “avviluppata”) di aiteria che si offre alla nostra idema.
Una
particolarità dell'estetica rispetto
alle altre categorie analogiche è
costituito dalla sua forte ambiguità e dalla
sua elevata interpretabilità. Essa
stessa non è definibile in modo univoco,
ma in molti modi equivoci, che la
delineano sempre parzialmente e per approssimazione.
Ma facciamo qualche
esempio di come un’opera d’arte vada soggetta
a molteplici interpretazioni,
significati ed effetti psico/idemali. Dal
punto di vista dell'autore: a) il suo
sentimento verso l'opera che produce è di
amore/odio, b) egli progetta l'opera
in un modo, ma poi quella gli sfugge di mano
e diventa cosa diversa, oppure in
corso d'opera capisce che essa va in altra
direzione da quella voluta o
prevista, c) mentre la esegue muta il suo
atteggiamento e decide di introdurre
elementi che contraddicono il tema, d) sul
piano dei significati compone
l'opera lasciando lacune per aumentarne la
problematicità, o la tiene sul
confine di sensi opposti, o mescola il bello
e il nobile al brutto e al
mostruoso, ecc. Dal punto di vista dell'interprete
o del critico: a) scopre che
inconsciamente l'autore ha realizzato una
cosa nel perseguirne un’altra, b)
utilizzando un elemento non chiaro e definito
la interpreta stravolgendo il
volere dell'autore, c) mette l'opera in relazione
ad altre condizionandone
forma e significati, d) nel caso della musica
o della recitazione cambia la
velocità di esecuzione, il ritmo, gli accenti,
l'espressione,ecc. Dal punto di
vista del fruitore infine: a) il suo stato
d'animo determina un'inconsapevole
trascuratezza di alcuni elementi a favore
di altri, b) equivoca sul senso e lo
percepisce in modo distorto, c) scarta lo
sgradevole concentrandosi su ciò che
lo appaga, d) trasferisce nell’opera elementi
personali (desideri o paure) che
tradiscono quelli dell’autore, ecc.
Le
esemplificazioni di cui sopra danno un'idea
abbastanza limitata della
moltitudine delle strade che può prendere
l'arte nella produzione,
nell'interpretazione e nella fruizione. Banalizzando
si potrebbe dire che
l'opera d'arte è una cosa, ma anche sempre
molte altre. E al limite si potrebbe
dire che un’opera d’arte, che talvolta è
gia polimorfa e polisemantica per il
suo creatore, diventa molteplice per interpreti
e fruitori e che (essendo le individualità
delle unicità) teoricamente il numero delle “forme” fruite
di una
stessa opera può andare verso l’infinità.
In virtù della
sua poliedricità l'arte ai fini espressivi
non utilizza solamente ciò che viene
comunemente ritenuto bello o piacevole, ma
molto spesso il brutto, il deforme,
il mostruoso, il raccapricciante, il perverso,
il demoniaco, ecc. D'altra parte
va tenuto presente che, analogamente, sul
piano della natura, anche i paesaggi
possono essere inquietanti, tenebrosi o sgradevoli,
per non parlare degli
accadimenti naturali disastrosi, dalle alluvioni
ai terremoti, che seminano
distruzione e morte, ma che possono risultare
ricchi di elementi estetici.
Essi, per un osservatore al sicuro, indipendentemente
dalla pietà per coloro
che ne subiscono le conseguenze, posseggono
indiscutibilmente una loro perversa
bellezza.
Va tuttavia
aggiunto che in generale tutta la sfera della
“spettacolarità” molto spesso
riguarda più la psiche che l’idema e perciò, pur essendo aperti e
possibilisti, dobbiamo tenere presente che
molto spesso essa resta lontana
dall’indurre esperienze idemali autentiche.
Infatti con codesta categoria di
stimoli, che potremmo definire “di spettacolarità
negativa”, si hanno molto
spesso emozioni piuttosto che abmozioni. E qualora vi sia esperienza idemale (prevalente
o attenuata)
resta poi da vedere a quale categoria eventualmente attribuirla (estetica,
etica o gnòresi?), ma va ricordato che questo è peraltro
un
aspetto generale e frequente di tutta la
nostra sfera esperienziale.
Ancora una
considerazione: in quella che abbiamo chiamato
“spettacolarità negativa” può
talvolta anche verificarsi qualcosa di simile
a quanto teorizzato da Aristotile
per la tragedia. Dapprima essa suscita soltanto
emozioni repulsive, ma in un
secondo tempo può subentrare una catarsi di tipo etico, liberatoria e
rasserenante. Occorre tuttavia aggiungere
che questo processo potrebbe essere
raro e per lo più non dare luogo alla catarsi e produrre invece soltanto
frustrazioni, inquietudini od incubi che
interessano soltanto la psiche.
Mi sono soffermato
sull'argomento del "negativo" in
arte per sottolineare ancora una
volta la molteplicità di mezzi e direzioni
in cui essa si muove e le sue
frequenti analogie con la natura, alla quale
spesso fa riferimento, in modo
diretto o indiretto. D'altra parte non tutto
ciò che è artistico può
determinare esperienze idemali e la semplicistica
identificazione
dell'esperienza artistica con l'esperienza
idemale non risulterebbe corretta.
In verità l'arte è un'attività intrinsecamente
mistificatoria, sia della materia
che la costituisce, sia dei significati che
rivela, nasconde o mistifica, sia
dei messaggi che lancia in modo chiaro o
subdolo. Per restare su un piano
esegetico tradizionale e semplificatorio
potremmo affermare che sotto il
profilo della “forma” l'artista manipola
la materia che usa, sia essa
costituita da colori, da suoni o da parole,
e poco o tanto mira sempre ad
ottenere degli "effetti" semi-nascosti
che ingannano il destinatario.
Va aggiunto che ciò costituisce un elemento
quasi imprescindibile del
“mestiere” dell’artista, il quale in genere
rappresenta o descrive qualcosa
rendendola qualcos’altro e nello specifico
(l’attore) spinge la finzione ai
limiti estremi. E tale manipolazione-alterazione
riguarda tutti i piani
dell’operazione artistica, quello delle forme
e degli stili come quello dei
messaggi e dei contenuti, e questi molto
spesso possono diventare volutamente
contraddittori e svianti, o mirare a fini
ideologici che con l’estetica non
c’entrano assolutamente nulla.
Se il prodotto estetico
è oggettivamente una certa cosa ma anche
sempre qualcos'altro, tale
affermazione potrebbe anche essere espressa
dicendo che i sentimenti che
accompagnano la produzione, l'interpretazione
e la fruizione di una stessa
opera d'arte si muovono su un piano di possibilità
amplissimo. Essi dipendono
dalla natura del messaggio, dai mezzi e dalle
individualità coinvolte. Il ché
significa inoltre che l’arte, in quanto prodotto
eminentemente ambiguo dell
“artificio”, nasce, si offre e viene usata
nella più totale libertà di effetti
antropici, utilizzando la necessità insita
negli illimitati mezzi materiali
utili per produrla.
9.3) L’etica.
Nell'occuparci di questa categoria analogica (relativa al carattere aiteriale b) sarebbe interessante poter distinguere
ciò
che è ascrivibile alla natura da ciò che
è frutto della cultura, perché i
comportamenti hanno sempre forti probabilità
di essere stati plasmati e
condizionati. In effetti, anche quando gli
etnologi studiano i cosidetti
"primitivi" si accorgono che essi
sono culturalmente molto evoluti e
che la loro naturalità è maggiore della nostra,
ma molto relativa in senso assoluto
(riferita alle origini).
Tuttavia è possibile mettere a fuoco il
nostro campo di osservazione prescindendo
dal tipo e dal grado di evoluzione
dell'uomo sulla terra, adottando un criterio
molto elementare: quello dell
“inutilità” personale. Potremmo allora dire
che è “etico” (almeno spesso o per
lo più) quel comportamento che non reca vantaggi
materiali o di prestigio
sociale a chi vi si attiene e che mira (almeno
nelle intenzioni) a beneficiare
l “altro” da sé. L’etica riguarda pertanto la sfera dei
sentimenti e delle condotte, i quali, per
un verso non sono al servizio della
conservazione della specie (e quindi non
rispondono ad istinti regolati dalla ragione biologica) e per altro verso non ci procurano (almeno
direttamente)
vantaggi materiali o sociali di alcun genere.
Ciò li rende in parte contrari
alla ragione, per lo più estranei
all’intelletto e potenzialmente pericolosi per la psiche. In altre parole: l’etica costituisce un elemento di decisa
“innaturalità” nell’ambito del comportamento
animale, anche se molti
comportamenti solidaristici (peraltro comuni
a molte altre specie) possono
essere ritenuti più o meno “convergenti”
con le esigenze o le aspettative
comuni del gruppo di appartenenza e di converso
indirettamente favorevoli a sé.
Per rendere il discorso più chiaro e comprensibile
relativamente ad una materia
piuttosto complessa non sarà allora inutile
ricorrere ad una certa
schematizzazione, classificando l’eticità
in tre grandi classi, riferite a principi di condotta che deve risultare
genericamente “disinteressata”. Ovviamente
questa classificazione resta
puramente indicativa e pertanto un comportamento
può rispondere
contemporaneamente (per via diretta o indiretta)
a tutti e tre i principi
che verranno enunciati.
La sostanza dell'etica, come
premesso, si può racchiudere per semplicità
in tre principi. Ripetiamo che la semplificazione non rispetta
la
complessità del tema, ma ne rende più chiari
e distinti i termini, mettendone
in evidenza gli aspetti più importanti, anche
se ciò può andare a discapito di
più approfondite distinzioni e dettagli che
potranno fare seguito in altra
sede. I tre principi sono stati chiamati giustizia, compassione e donazione.
Se si analizzano i nostri sentimenti nel
rapporto con “l'altro da noi” si
finisce con buona approssimazione per attribuirli
a uno di essi e nel caso
siano molto articolati a due o a tutti e
tre.
Il senso della giustizia sotto il profilo etico è il più importante,
quello più
radicale e probabilmente anche il più vicino
all’aiteria, nel suo essere completamente estraneo alla
natura nella
sua materialità “necessitata”. La biosfera non offre nessun aspetto di sé
che in qualche modo suggerisca la realizzazione
di ciò che umanamente si
presenta come giusto ed equo (vedi paragrafo
2.4 Argomento etico). La ragione biologica va anzi in direzione spesso opposta a ciò
che sarebbe
eticamente auspicabile o per lo meno
le è completamente estranea.
La compassione
(comunemente indicata anche come “pietà”
o come “umanità”) è un sentimento che
viene riferito (sempre restando al linguaggio
corrente) alla cosiddetta
“nobiltà d’animo” e che caratterizza quindi
soprattutto la sensibilità del
singolo nei confronti di chi soffre, ma è
anche legata al grado di civiltà del
contesto di appartenenza ed in qualche modo
connessa al “costume” in esso
dominante.
La donazione è il principio antropologicamente di maggior rilievo individuale
e
complessità, il meno condizionato dai rapporti
sociali e dalla cultura: il suo
aspetto più noto è l'amore, il quale tuttavia
presenta un notevole grado di
ambiguità, confinando spesso soltanto con
la sessualità e le sue pulsioni e
quindi rientrando nella naturalità materiale.
Esso, in generale, permea in modo
capillare l'essenza più profonda della psiche
e determina le emozioni più
forti e ricche di conseguenze che l'uomo
abbia a sperimentare e ciò assai più
che produrre effetti abmozionali facilmente
riconoscibili. Certamente è il principio filogeneticamente più
antico, meno legato alla cultura e pertanto
più prossimo alla naturalità umana
primitiva, ma presenta caratteri fortemente
equivoci, poiché i sentimenti
d'amore spesso sono decisamente connessi
alla sessualità o alla parentalità
(quindi alla materialità) e persino all’egoistico
“possesso” esclusivo della
persona amata; quindi relativamente poveri
di aspetti aiteriali (ad eccezione
del caso dell’amore amicale).
Notiamo inoltre che nell'etica i sentimenti che precedono o
seguono la prassi comportamentale sono sempre
in rapporto dialettico coi comportamenti
effettivi e che non sempre vi è corrispondenza
e coordinamento tra intenzioni e
risultati. La coerenza comportamentale passa
attraverso la volizione e un sentimento non accompagnato da una
condotta adeguata
conduce a un suo tradimento e spesso ad un
rapido insterilimento dello stesso.
Nel campo dell'etica esiste
ovviamente uno strettissimo rapporto tra
il pensiero e l'azione, con estesi
effetti di retroazione (feed-back); il primo promuove la
seconda, ma questa alimenta il primo, in
un circolo di impulsi variabili e
complessi.
Questo principio determina una sfera di sentimenti molto
evoluti e per
molti versi in totale consonanza con la razionalità,
per cui, in un'immaginaria
topologia del nostro cervello la giustizia si troverebbe presumibilmente
nella zona evolutivamente più recente e più
avanzata. Per dare una definizione
semplificata di giustizia diremo che esso è quel sentimento che a
partire da “diritti” ritenuti ineludibili
ne coglie l’intollerabile
trasgressione, che censura e contro la quale
promuove comportamenti che la
correggano. L'uomo ha impiegato centinaia
di migliaia d'anni per staccarsi da
un modello naturale di comportamenti dettato
dalla ragione biologica e sotto
il segno della necessità, fino ad
elaborare un sistema di riferimento comportamentale
(almeno in termini
intraspecifici e all’interno del gruppo di
appartenenza) che prescindesse dalla
sopraffazione su cui si fonda la biosfera in generale, con l’unica eccezione
dei comportamenti simbiotici o mutualistici.
Questo spiega in parte perché gli
ordinamenti giuridici delle civiltà antiche
più evolute potessero ancora
ammettere la schiavitù e le ineguaglianze
sociali più aberranti. Ripeteremo qui
(riprendendo l’enunciazione dell’argomento
etico) che la visione idilliaca
che talvolta si ha della natura è una delle
più colossali sviste in cui la
nostra intellezione possa cadere, poiché
la lotta per la sopravvivenza e per il
predominio sul territorio è la regola fondamentale,
grazie alla quale la vita,
nella sua complessità e pluralità specifica,
si conserva ed evolve.
Difficilmente noi non ci rendiamo conto
della terribile ferocia di un grazioso uccellino
che fa a pezzi un verme prima
di mangiarlo. E siamo tutti pronti a commuoverci
per le amorevoli cure che una gatta
riserva ai suoi gattini, ma non a inorridire
di fronte alla crudeltà con la
quale gioca col topo per insegnare loro le
tecniche di caccia. È soltanto la presenza dell'idema che sposta la nostra percezione su
ciò che non è natura vera, cioè materiale,
producendo una sorta di
“interpretazione aiteriale” di essa che non
coglie ciò che sta “dentro” la
materia ma ciò che ne sta “al margine”. Ogni
considerazione o sentimento
estetico, etico o gnoretico relativo alla
natura la pone sì come oggetto, ma ha
il suo movente nell’aiteria, la quale, verosimilmente, ne
avvolge ogni elemento ed aspetto con una
pluralità di aiteri (ambientali,
insiemali o singolari, sia biologici che
cosali) che vengono percepiti dall’idema e che potrebbero forse venire da essa anche
elaborati [134].
Soltanto una fredda osservazione scientifica
puramente intellettivo-razionale
(difficilmente raggiungibile) può considerarsi
un approccio “puro” alla
materialità della natura, ma è molto più
facile che uno scienziato vi si
accosti con un atteggiamento misto di carattere
intellettivo-idemale, fermi i
punti posti con l’argomento
osservazionale-percetivo (paragrafo
2.5) relativamente all’alternanza e alla
non-contemporaneità. Va anche rilevato
che ove prevalga l’approccio idemale ci troviamo
di fronte alla possibilità che
anziché imporsi il senso etico sia invece
quello estetico a prevalere e in tal
caso lo spettacolo della crudeltà e della
sopraffazione non muova a compassione né a negazione del senso della
giustizia. Ciò avviene quando l’osservatore sia
vittima di un fascino estetico di natura
degradata che lo porta ad osservare
una presunta “bellezza” della violenza e
della crudeltà. Abbiamo qui un
ulteriore conferma di come l’estetica risulti esser un campo di esperienze
aiteriali ricco di ambiguità non facilmente
interpretabili.
Nella biosfera
le specie animali, ma anche quelle vegetali,
se non sono in rapporto di
simbiosi o appartenenti a gradi contigui
della catena alimentare (nel qual caso
una si nutre dell'altra) si confrontano nella
competizione (talvolta molto
feroce) per conquistare il territorio e le
risorse alimentari connesse. Ogni
specie è come un corpo vitale che tollera
generalmente gli altri “con riserva”,
che accetta e consente l'esistenza di altre
specie soltanto nella misura in cui
queste siano utili alla sopravvivenza e allo
sviluppo di se stessa o almeno con
essa compatibili. Tale utilità va dalla fonte
alimentare diretta alla
collaborazione involontaria a tal fine; una
specie non soltanto consente, ma
anche protegge lo sviluppo di un’altra che
le sia cibo o le sia alleata in
quanto combatta chi ne metta a repentaglio
la disponibilità in quel dato
ambiente vitale.
La natura è un teatro continuo di
genocidio e nessuno è in grado di sapere
quante specie si siano estinte durante
miliardi d'anni per opera di una specie concorrente,
oltre ovviamente che per
mutamenti ambientali. È soltanto in virtù
della sua forza (fisica, di
adattamento o genetica) che una specie sopravvive
in un ecosistema dato.
I paleontologi ritengono non improbabile
che la scomparsa dell'uomo di Neanderthal
sia dovuta al genocidio che l'homo sapiens ha perpetrato contro di
esso per ragioni di concorrenza sul territorio.
Ma non è neppure necessario
risalire i millenni per scoprire altrettanta
ferocia nelle guerre che l'uomo
moderno ha perpetrato all'interno della sua
stessa specie, per motivi razziali,
ideologici, economici o di semplice predominio.
Tuttavia, se le azioni
dell'uomo non differiscono molto da quelle
degli altri animali quando si tratti
di sopravvivenza e predominio, esso ha maturato
nei millenni un senso etico che
gli permette di staccarsi poco o molto dalla
pura ragione biologica che
promuove e regola tutto il sistema vivente.
Questo è un frutto inequivocabile
soprattutto del principio della
giustizia, che la sua idema ha sviluppato congiuntamente alle
altre facoltà filo-aiteriali che la caratterizzano.
Vale tuttavia la pena di
notare che sarebbe improprio ritenere assolutamente
determinante l'influenza
che l'idema ha avuto sull'elaborazione
dei sistemi giuridici in generale (anche
se il senso della giustizia può aver funzionato come
una vis a tergo non trascurabile). Essi in gran
parte sono probabilmente stati il frutto
di una riflessione teorica
(razionale-intellettuale) in cui l’idema ha avuto piccola parte e di una contrattazione
sociale seguita
da una serie di compromessi ai quali deve
giungere qualsiasi comunità che
voglia assicurare a se stessa stabilità e
sviluppo nel rispetto della pluralità
di caratteri ed opinioni. Analogamente, se
l'umanità d’oggi è più attenta
all'ambiente non è tanto perché ritenga eticamente
giusta la sua protezione, ma
perché è consapevole che distruggendo l'ambiente
compromette una buona
sussistenza di se stessa; anche in questo
caso quindi l’istanza etica risulta secondaria rispetto a quella
razionalmente utilitaristica.
Compatire significa "patire
insieme" e si tratta di un sentimento
che, almeno in termini raffrontabili
a quello umano, sembra assolutamente assente
in altri mammiferi superiori. La
partecipazione affettiva alla sofferenza
di altro da sé deve essere considerato il
comportamente di un animale talmente
evoluto da possedere una funzione idemale
assai sviluppata e del tutto
indipendente dalla materia vivente che lo
costituisce, come avevamo già
rilevato a proposito dell’argomento
etico.
Il sentimento della compassione (ovvero della pietà) non è solamente estraneo
alla
vita, ma anche svantaggioso per l'individuo
che ne viene pervaso. La pietà è un
sentimento eversivo, che getta scompiglio
nelle nostre azioni, che ci blocca e
che ci fa sentire spesso colpevoli al di
là del ragionevole. Forse la nostra
specie si sarebbe estinta immediatamente
se all'inizio fosse stata condizionata
dall'idema che oggi ci ritroviamo e
non avesse potuto competere con le altre,
mettendo in atto un’analoga
spietatezza, guidata però da un intelletto
e da una ragione assai evoluti,
che non l'hanno certo limitata, ma soltanto
resa più raffinata e
utilitaristica.
La compassione
a livello sociale determina un aspetto assai
rilevante sul piano dei
comportamenti, e ciò ad ogni livello di aggregazione
umana, a partire dalla
ristretta cerchia degli appartenenti al nucleo
famigliare fino a ad arrivare a
interessare ogni individuo dell’umanità complessiva.
Gli atteggiamenti
solidaristici che essa induce sono fondamentali,
soprattutto per le
collettività basate sulla competizione, alla
quale fanno da contraltare,
mitigando le conseguenze di un troppo rigido
criterio di prevalenza “del
migliore” a favore dei meno fortunati e dotati.
Senza tema di smentita si può
ritenere che da essa abbiano origine gran
parte di quelle operazioni e di quei
provvedimenti, a livello privato o pubblico,
che stanno alla base delle forme
più avanzate di comportamento solidaristico,
le quali sono indicative del
livello di civiltà relativo ad un contesto
dato. Civiltà che si caratterizza
per un diffuso esercizio della compassione
non meno che per quello della giustizia
e dell'equità.
La donazione
è un principio poco omogeneo e assai articolato,
che riguarda l'atteggiamento
grazie al quale un soggetto attenua le esigenze
della propria individualità e
della propria integrità, per trasferire su
un altro soggetto l'amore che ha per
sé stesso in quanto persona e per ciò che
gli compete positivamente (beni e
risorse). L’abbiamo chiamata così perché
essa è basata su di una attenuazione
degli egoistici (ma del tutto naturali e
corretti) vincoli che ci vietano di
amare gli altri più di noi stessi. Così la
donazione
trasforma completamente "l'amore per
sé" (che è un istinto naturale
innato e funzionale alla sopravvivenza e
alla miglior conservazione) in
"amore per l'altro", che è invece
un sentimento abbastanza estraneo
(o almeno superfluo) alla logica del vivente.
Con la donazione accade
che un atteggiamento naturale nei rapporti
con l “altro” (caratterizzato da un
impronta psichica nettamente reattivo-protettiva) perda i suoi caratteri peculiari per diventare
un atteggiamento
di carattere proiettivo-alienante dove la
psiche cessa di esser
dominante e si sottomette all’idema. In altre parole, se prendiamo in
esame l'evento amoroso in
generale, accade che nella donazione esso si trasformi e che
l’atteggiamento esistentivo (originario e funzionale) derivante dalla
psiche trapassi in uno esistenziale (filogeneticamente
acquisito con l’evoluzione ma superfluo nell’economia
del vivente) determinato
dall’influenza dell’idema che passa a condurre il gioco dei
sentimenti.
Per rendere evidente il nostro discorso
prenderemo ora in considerazione alcuni tipi
comuni di donazione,
sufficientemente definiti ed indicativi di
questo atteggiamento ideale. Essi
sono: la generosità, l’affetto, l’amore parentale,
l’amore metasessuale e
l’amore amicale.
Generosità: Consiste nella donazione di un bene o di
una risorsa, oppure nel
mettere in atto un'azione che va ad esclusivo
vantaggio di un beneficiato,
senza che da parte di questo vi sia alcuna
contropartita oltre all'eventuale
riconoscenza, più o meno espressa. La certezza
di questa diminuisce in qualche
misura la portata etica di tale azione, che
è la forma più elementare di donazione, poiché concerne il dono del
“proprio” ma non del “sé”.
Affetto: Si esprime nel trasporto sentimentale che
un soggetto sente per
un altro, senza che la sua individualità ne venga coinvolta al punto da
condizionare la propria condotta di vita
e limitarne la libertà. Si tratta di
un’inclinazione che porta a desiderare il
bene dell'oggetto investito
dall’affetto purché ciò non vada contro il
bene proprio.
Amore
parentale:
Si tratta del sentimento che lega i consanguinei,
il quale raggiunge la sua
forma più intensa nel rapporto madre/figlio.
Qui la donazione da parte della madre nei confronti del figlio
può essere
totale, al punto che essa può arrivare a
distruggere se stessa se ritiene ciò
necessario per il bene di lui. Questo
il sentimento e il conseguente comportamento
nella nostra specie hanno maturato
un'intensificazione e una nobilitazione di
ciò che si riscontra in qualche
misura nella generalità degli esseri viventi
e in particolare nei mammiferi
superiori. Si può quindi ritenere l’amore
parentale umano una forma di
comportamento nella quale, su una base comportamentale
preesistente e specifica
tra consanguinei, si innesti un elemento
tipicamente idemale, che per un verso
la intensifica e per un altro la rende più
selettiva e su base individuale
piuttosto che su base puramente parentale.
Ai fini di un'analisi etica molto
sofisticata sembrerebbe legittimo tentare
di operare una distinzione tra ciò
che di istintivo e involontario vi è nel
comportamento parentale e ciò che è donazione vera e propria (idemale e
abmotiva). L'operazione sarebbe sconsiderata,
poiché nella realtà i due aspetti
sono talmente connessi e interdipendenti
che è importante soltanto la loro
risultante immediata e l’attivazione/fruizione
degli atteggiamenti e dei
comportamenti che sono all’origine delle
esperienze idemali connesse alla donazione.
Amore
metasessuale:
Si tratta di un sentimento strettamente connesso
alla sessualità, il quale
spinge un soggetto verso un altro col desiderio
di un unione globale che
travalica la pura sessualità e riguarda ogni
aspetto della propria individualità, la quale in molti viene
quasi ad annullarsi nel rapporto-fusione
di due ideme. La particolarità
del fenomeno concernente questo tipo di donazione
(ma in qualche modo presente anche negli
altri tipi) è il fatto che l’individualità (che è base dell’idema) venga in qualche modo messa in
mora, in funzione di un processo esperienziale
particolare, nel quale risulta
un suo temporaneo indebolimento o una sua
confluenza con quella
dell’altro. La totalità dell'unione si
realizza sul piano fisico secondo le possibilità
espresse dal sesso di
appartenenza e le modalità dell'unione idemale sono pressoché identiche,
sia che il rapporto tra gli amanti sia di
natura eterosessuale oppure
omosessuale. Ai fini etici tuttavia non è
il rapporto fisico ad interessarci,
ma il tipo e l'intensità dei sentimenti che
emergono dal rapporto, il quale
finisce per prescindere dagli aspetti strettamente
sessuali, sicché ne risulta
trasformato e potenziato dalla componente
aiteriale. Per chiarezza espositiva
va tuttavia precisato che affinché si possa
parlare di amore metasessuale è
necessario che nel rapporto predomini l'aspetto
sessuale, altrimenti esso
rientra in quello amicale. Va notato inoltre
il fatto che questo tipo di amore,
basandosi sull'attrazione sessuale, ci riporti
nello stesso campo dell'amore
parentale, cioè quello dell'istinto naturale,
in funzione additiva e
migliorativa. E tuttavia il movente “istintivo”
rimane la base di partenza di
questo tipo di esperienza etica e senza di
esso non sarebbe possibile
l’esperienze idemale, che ne è un derivato.
È quindi il caso di ribadire quanto
già espresso nel paragrafo 7.5 (Il corpo), vale a dire che sarebbe privo
di senso quindi disgiungere, anche in questo
caso, un’esperienza idemale da
quella corporea, ancorché ai fini analitici
stiamo qui evidenziando la prima.
Amore
amicale:
Chiamiamo amore e non amicizia questo tipo
di sentimento e di rapporto perché
il termine amicizia ha nel linguaggio corrente
un significato così
onnicomprensivo e a volte così banale da
suonare improprio nel campo delle
esperienze idemali.
Ai fini etici questo tipo di amore è
particolarmente importante, poiché è del
tutto indipendente sia dagli istinti
naturali che sono alla base delle cure parentali
sia dai comportamenti
solidaristici utili alla specie o di carattere
simbiotico. Il rapporto che si
instaura tra due individui “amici” è determinato
qui esclusivamente dal
trasporto affettivo ed estimativo reciproco
(con al centro l'idema) e unicamente basato u un felice
incontro di due individualità. Le implicazioni sessuali non sono rare,
ma compaiono per lo più come effetto secondario
dell'attrazione idemale e non è
affatto detto che essa ne risulti ridotta
per parziale sostituzione della
componente sessuale. Dal punto di vista casuale/effettuale
la fenomenologia
dell’amore amicale è opposta a quella del
metasessuale, poiché in questo
l’attrazione fisica è l’elemento primario
e l’affetto e la stima sono secondari
mentre ne primo la stima e l’affetto sono
gli elementi trainanti. Va infine
notato che non è neppure infrequente una
sinergia dei due tipi di amore nel
rapporto che si può instaurare tra due persone
reciprocamente attratte in modo
totale con un temporaneo offuscamento dell’individualità nel suo
complesso.
9.4)
La gnòresi.
In senso stretto la gnòresi si manifesta nell’entusiasmo derivante dal
desiderio che un
soggetto ha di conoscere qualcosa che si
pone alla sua attenzione e che gli è
ancora in tutto o in parte sconosciuto, indipendentemente
dai fini e dai
vantaggi che tale conoscenza gli potrebbe
procurare. Ma per altri versi essa
presenta i caratteri di un vero e proprio
innamoramento di carattere
gnoseologico, il ché legittima una seconda
definizione della gnòresi quale amore per la conoscenza “fine a se
stessa”, dove si
intendano per essa tutti i processi che la
concernono quale stadio finale e non
foriera di vantaggi sul piano materiale.
Quindi essa concerne il puro mettersi
in moto dell’atteggiamento di ricerca, dell’approccio
conoscitivo all’oggetto o
al fatto, il desiderio della scoperta, l’indagine
strutturale e i tentativi di
interpretazione, l’inserimento del conoscibile
e del conosciuto in un sistema
di riferimenti e valori idemali. La precisazione
può apparire superflua, ma per
completezza aggiungeremo ancora che, evidentemente,
qualora la conoscenza e la
scoperta perdessero i caratteri gnoretici
e venisse perseguite per fini
utilitaristici l'esperienza idemale si estinguerebbe
immediatamente, per dar
luogo ad un'operazione intellettuale e razionale
di grande rilievo, ma di
carattere esclusivamente materiale. In altre
parole, la gnòresi riguarda un tipo di conoscenza che esorbita
l’ambito del
puro “fine d’uso” della scoperta e della
conoscenza in vista di “qualcos’altro”
che possa arrecare vantaggi pratici. In tale
assenza di fini il soggetto in gnòresi entra in un ambito esperienziale
dove è l’idema a condurre
l’esperienza, in quanto percettore-elaboratore
di un complesso di elementi
della realtà che stanno “al margine” della materia, la quale
già si offre (attraverso i suoi oggetti e
i suoi accadimenti) concretamente e
percettivamente alla psiche, all’intelletto o alla ragione. Va da sé che
quella che abbiamo definito come una conoscenza
in vista di obbiettivi
pratico-esistentivi (finalizzata o strumentale)
può accompagnare la gnòresi,
limitandone in tal caso la portata etica,
oppure può accadere il contrario
e che la seconda sottragga spazio alla prima
modificandone il carattere
puramente utilitaristico.
La gnòresi
non rappresenta un’attività mentale elitaria
particolarmente importante, ma
riguarda anche la quotidianità delle scoperte
o delle conoscenze più
elementari, che sono quelle di un bambino
nella sua prima infanzia, fino a
quelle culinarie di sua madre in cucina o
a quelle meccaniche di suo padre con
l'automobile o la lavatrice. Ma è ovviamente
attraverso lo studio volontario e
impegnato, a tutti i livelli, che la gnòresi
si manifesta più frequentemente, assumendo
i caratteri più interessanti e
rilevanti. Tuttavia vi sono esperienze gnorètiche
meno impegnate e più ludiche
altrettanto significative nel loro carattere
minimalistico, come le ricerche
botaniche o entomologiche nel proprio giardino,
l'analisi della struttura di un
bosco o di un litorale marino, il bird-watching, le indagini sul
registro di configurazione del proprio PC,
l’osservazione e lo studio di gente
che lavora o che si diverte, che soffre o
che gode. Poi ci sono tutti gli hobbies
che privilegiano lo scoprire rispetto all'usare,
fino ai traguardi di scienza
pura affrontata coi mezzi intellettuali e
strumentali di cui ognuno può
individualmente disporre, in base alla situazione, condizione e ruolo
che gli competono.
La natura della gnòresi la rende confinante e sinergica con almeno
altre due
categorie analogiche dell’aiteria, l’estetica e l’etica, ma il suo movente la distingue perché caratterizzato
dalla
“spinta” conoscitiva non necessariamente
presente in esse. L'abmozione gnoretica può sì essere
connessa con esperienze idemali di altra
natura, ma l'oggetto del suo tendere,
la conoscenza in sé, non può venire confuso
con quelli dell'estetica e dell'etica, che posseggono una loro specificità diversamente
orientata.
9.5)
La cairéa.
La cairéa
è simile ad una misteriosa energia radiante
e rallegrante che emerge
spontaneamente in un soggetto, trasmettendosi
ad altri soggetti. Le persone
dotate di cairéa lo sono generalmente
per natura, per cui senza alcun sforzo emettono
questa meravigliosa energia
idemale, così simile a quella dell'amore
e tuttavia diversa, nel senso che non
viene rivolta ad un soggetto in particolare
ma “gettata” nell’ambiente dove
vive ed agisce il caireico. Mentre l’amore
è sempre indirizzato verso un
obiettivo la cairéa si spande in
tutte le direzioni per dote propria, senza
che sia intervenuto alcun motivo,
stimolo o attrazione.
La cairéa ha carattere contagioso e si
manifesta nei fruitori e beneficiari anche
sotto forma di simpatia e trasporto
verso il soggetto cairetico, in un gioco
di rimandi che determina nel gruppo di
persone interessate un atmosfera di gioiosità
e di giocosità allo stato puro.
Queste forze, particolarmente coinvolgenti,
si irradiano naturalmente,
investendo e coinvolgendo l'idema
delle persone che ne vengono a contatto e
sospendendo in molti casi il peso
esistentivo delle contingenze. È come se
avvenisse quasi una sorta di
sospensione del flusso vitale in una situazione
fuori del tempo, dove la materia esprime al meglio la sua tendenzialità [135], contraendo i lacci della necessità
e lasciando spazio a ciò che le stà al
margine (l’aiteria) in una
kermesse estremamente comunicativa e coinvolgente.
Quando la cairéa “si collettivizza” tra più
persone, l’aiteria sembra perdere il
suo carattere eminentemente pluralistico
(quale insieme di aiteri) per assumere i caratteri di un “unicum”
indefinibile, dove
le qualità individuali sembrano quasi
confluire in una “totalità qualitativa”avvolgente
e pervasiva .
Abbiamo premesso che la cairéa è (almeno per lo più) una dote
naturale acquisita geneticamente e tuttavia
si può ritenere che sia
probabilmente ancheacquisibile, quando nella
vita di un individuo avviene un
fatto così straordinario da cambiare la sua
struttura mentale. Più spesso
avviene tuttavia il contrario e il cairetico,
a causa di traumi psichici o di
gravi situazioni ambientali, perde il suo
gioioso flusso aiteriale e a volte
definitivamente. Purtroppo accade molto spesso
che bambini tendenzialmente
cairétici perdano ogni traccia di questa
dote, perché il confronto con la
realtà esistentiva spegne questo fuoco interiore
allegro e giocoso. Va sottolineato
che la cairéa può svilupparsi armonicamente in linea di
massima soltanto in
contesti sociali lontani dall’indigenza e
in cui i componenti del gruppo siano
sufficiente armonizzati tra loro, in modo
da consentire nel bambino predisposto
alla cairéa il suo libero svilupparsi
e consolidarsi (nella fase giovanile e adulta)
in una personalità
cairetica.
Non si deve commettere l'errore di pensare
che il cairetico, il quale spesso ha dei
comportamenti ingenui o infantili,
debba essere anche un po' stupido e ciò per
il solo fatto che privilegia
l'allegria e la giocosità a scapito della
competitività e dell'ambizione. Il
fatto è che nel suo cervello è avvenuta una
preselezione idemale/intellettiva
per cui tutta la fenomenologia finalistica,
tipica dell’ambizione o
dell’avidità, è stata purgata di tutti gli
aspetti connessi con la ricerca e
l’acquisto di beni materiali, di successo,
di prestigio sociale o di qualsiasi
forma di potere sulle cose o sugli altri.
Il cairetico è infatti un ingenuo naturale,
che non ha dovuto fare alcun
sforzo per sbarazzarsi del peso della materialità
attraverso la formazione idemale. L'ingenuità
(di cui parleremo in seguito) per il cairetico
non è una conquista ma è la base
di partenza del suo essere tale, e in questo
senso essa è più esemplare e
paradigmatica di quella acquisita attraverso
l’esercizio della volizione.
Insieme con l’ingenuità (che nel DAR non è un limite ma una dote,
nei termini che diremo) il cairetico ha anche
una naturale tendenza a realizzare quell’apotere che tiene lontano il dualista dagli
aspetti peggiori della competizione mirante
al raggiungimento di posizioni di
autorità, potere e possesso all’interno di
una comunità.
9.6) La dhianasi.
La dhianasi [136] si esplicita in una categoria di esperienze idemali concernenti
il “senso
della natura, del mondo o dell’universo”
in termini che ricordano l’intuizione
di quell “anima del mondo” [137] che, come abbiamo visto, ha caratterizzato
anche il
paganesimo antico prima che venisse sopraffatto
dal monoteismo. Il suo elemento
caratterizzante è il processo di fusione
che l’individualità intraprende
verso una “totalità” sentimentale colla quale
si identifica, raggiungendo uno
stato mentale di totale dimenticanza di se
stessa. Da un punto di vista
esperienziale la dhianasi si verifica quando il soggetto si abbandona
alla contemplazione di una totalità aiteriale
(una porzione di mondo) andando
oltre un puro stato simpatetico e perdendo
temporaneamente la consapevolezza
del corpo, delle sue capacità sensorie e delle sue
funzioni.
La dhianasi
si configura come uno stato mentale estremo,
relativamente al quale
potrebbe diventare quasi legittimo l’antico
concetto greco di ékstasis (=
uscita da sé) [138], variamente ripreso dalla religione in senso
mistico e
da filosofie posteriori anche in senso laico.
La dhianasi è un andare
oltre lo stadio della contemplazione (che
è ancora cosciente) verso uno stato
di incoscienza e di abbandono “amoroso” .
In essa si attiva infatti una forma
di amore non esattamente oggettivata ma di
tipo globale. Che l’oggetto di
contemplazione “scatenante” sia una mandria
di mucche al pascolo, una verde
vallata, la distesa del mare, un cielo stellato
o il soffitto di una cattedrale
gotica (ma anche una pietra, un filo d’erba
o una cornice) il tipo di abmozione che ne deriva è sostanzialmente lo stesso
e si manifesta come una “fusione nella totalità”.
Totalità ovviamente del tutto irreale secondo
il DAR, come è già stato precisato, il ché
rende questo tipo di abmozioni “reali” ma piuttosto ambigue in quanto
riferite a una “totalità” illusoria. L’evento dhianasico può anche
essere visto come uno stato sospensivo della
coscienza, nel quale
l’individualità si espande e rifluisce in un’immaginaria
“totalità”
aiteriale [139]. In alcune esemplificazioni fornite in precedenza
si
sarà notato come esse non risultino specifiche
della dhianasi in quanto
l’esperienza aiteriale che ne deriva potrebbe
anche essere di tipo estetico,
estetico e persino gnoretico. Questo è un
altro degli elementi che rendono la dhianasi
un esperienza abbastanza spuria rispetto
alle altre. Per alcuni aspetti essa
può essere anche considerata una forma di
“etica” che non ha come oggetto l
“altro” ma un “alterità” generale, espressa
appunto in un senso della natura o
in un senso dell’universo. Ma vi è
un’altra differenza importante rispetto alle
altre abmozioni, che sono
sempre caratterizzate da uno stato di coscienza
vigile e riferite sempre a
qualcosa di piuttosto determinato, poiché
nella dhianasi il referente diventa una totalità imprecisata
e irreale, colta come tale in virtù di uno
stato di parziale o totale incoscienza.
Con le
caratteristiche sopra evidenziate la dhianasi risulta pertanto analoga ad
esperienze di tipo ascetico/estatico le quali
(con la sola eccezione di quelle
yogiche) hanno quasi sempre carattere religioso,
ponendo come oggetto di
riferimento una qualche ipostasi divina più
o meno istituzionalizzata. Il fatto
che esse normalmente e tradizionalmente riguardino
il campo religioso non
significa tuttavia che debbano essere considerate
per ciò stesso false. Abbiamo
già visto come la religione costituisca una
risposta deviata ad esigenze ed
intuizioni autentiche, quindi anche in questo
caso l’esperienza può rimane
valida in se stessa e rispondere in qualche
misura alla dhianasi, ancorché
il soggetto che esperisce sia convinto che
il proprio oggetto di percezione sia
la divinità e non l’aiteria (che
ignora o non riconosce). D’altra parte (come
si è visto) anche l’esperienza
estetica può venire attribuita o riferita
alla divinità (e perciò considerata
un’esperienza religiosa), ma nei suoi termini
effettuali il risultato
esistenziale rimane comunque quello di un’abmozione idemale autentica, ancorché se ne
equivochi l’origine.
Risulta
evidente come la dhianasi e l’estetica condividano
questo carattere fondamentalmente ambiguo
o addirittura sviato sopra
evidenziato, per il quale l’esperienza rimane
vera pur portando un riferimento
falso. Ciò si verifica perché ciò che caratterizza
l’esperienza aiteriale è
il sentimento che si produce (l’abmozione) e non la sua attribuzione causale. È questo
il tracciato di fondo su cui nasce e si muove
il DAR (già anticipato nella Premessa) e
che sta alla base della nostra ricerca, che
è volta a recuperare, attraverso
un’opera di selezione e cernita storica e
antropologica, tutte quelle
acquisizioni religiose relativamente alle
quali ci siano buone ragioni per
ritenerle attribuibili all’aiteria e che dobbiamo pertanto salvare dalla loro
espunzione, anche se ciò comporta inevitabilmente
l’introduzione di qualche elemento di ambiguità
nel DAR e qualche contaminazione spiritualistica.
Ambiguità che riteniamo tuttavia tollerabile,
proprio perché il DAR, quale superamento
della religione (che viene storicizzata e
non cassata), tende ad recuperare del passato
tutto ciò che è degno di essere mantenuto
in quanto testimonianza reale di un’intuizione
aiteriale storica, al di là della connotazione
che è stata o viene ancora assunta. In altre
parole, la connotazione dell’evento è fantastica e non-reale, ma la denotazione (in termini di causalità ed
effettualità) è autentica e reale.
L“esperienza
mistica” ha così un rapporto evidente e non
eludibile con quella dhianasica,
soltanto che in essa il percorso per il raggiungimento
dello stato dhianasico
avviene con la mediazione di un simulacro
dell’aiteria. Questo
“fraintendimento” dell’aiteria è ciò che sarà oggetto del paragrafo
che segue (10.1 L’autenticità dell’arcanum
e la falsità del sacrum). Tale
fraintendimento è quasi una costante nella
storia dell’uomo, poiché la psiche, che influenza fortemente ogni
determinazione concettuale che intelletto e ragione possano
elaborare, piega alle sue esigenze omeostatiche
anche le “forme” della
conoscenza, secondo schemi e modelli filogeneticamente
affermati e sperimentati
come utili all’equilibrio psico-somatico
e non necessariamente afferenti la realtà.
Anzi, come crediamo di aver sufficientemente
evidenziato, la psiche è
completamente estranea all’oggettività, poiché
il suo compito è di proteggere
la soggettività individuale da ogni turbamento
cognitivo che possa mettere in
forse la sua omeostasi e di converso quella generale del soggetto.
Essa
quindi è tendenzialmente una sorta di “profeta”
dell’irrealtà ogni qual volta
questa risulti “utile”, ovvero appagante
e tranquillizzante.
9.7) Ancora sull’aiterialità
(le abmozioni, la simpatesi e il concetto di al margine).
Le categorie analogiche ci hanno
permesso di impostare un quadro schematico
dei campi esistenziali in cui si
realizzano gli incontri dell’uomo con l’aiteria e durante i quali si
verificano le abmozioni. Campi ai quali ognuno di noi può accedere sia
in modo casuale o spontaneo, sia in modo
sistematico e volontaristico, ma
accedervi non significa necessariamente esperire
l’aiterialità. Mi rendo però conto di aver potuto alimentare
l’equivoco
che le abmozioni siano esperienze frequenti e che, ad esempio,
sia sufficiente accostarsi ad un’opera d’arte
con attenzione e concentrazione
per sperimentare l’estetica, ad una persona bisognosa di aiuto per
esperire l’etica, ad un bell’albero con intenti botanici
per entrare in gnòresi
e così via. Nella realtà le cose non stanno
affatto così, le abmozioni sono
esperienze relativamente rare e anche in persone che si accostano
frequentemente ad oggetti o fatti molto ricchi
di aiterialità esse accadono
poco di frequente.
Ho a portata
di mano un esempio interessante che mi riguarda.
Io, pur essendomi interessato
di pittura rinascimentale fin da ragazzo,
non ho mai provato nessuna abmozione
davanti al ritratto leonardesco della Gioconda al Louvre, che pure
ho amato da quando a 15 anni ne ho scoperto
l’esistenza attraverso una
riproduzione in quadricromia; quale la ragione?
Non è facile rispondere. Forse
a causa dell’affollamento da me sempre trovato
in quella sala? O per il
fastidioso trapestìo dei piedi? Per i bisbigli
di ammirazione? Per
quell’atmosfera kitsch che ne circonda la
fama? O per il vetro che lo protegge?
Non so dare una risposta (forse per tutte
le cose messe insieme), eppure è
accaduto che uno dei dipinti più affascinanti
di tutti i tempi ha lasciato
sempre indifferente nel corso di più visite
un tizio che di pittura ne capisce
qualcosa e che l’ha sempre amata. Questo
banale esempio personale per
sottolineare il fatto che per provare abmozioni non serve (o almeno non
basta) un buona cultura e una certa sensibilità,
combinate con le migliori
intenzioni e la miglior disposizione d’animo.
Aggiungerei anzi che probabilmente
è il puro caso a determinare se quel giorno, a quella certa
ora e in
quel certo posto tu vivrai un’abmozione. Questo significa che le abmozioni
non sono esperienze che “si cercano” (almeno
in situazioni ufficialmente
deputate o ritenute favorevoli) ma che invece
“si trovano”, quando meno te le
aspetti e in circostanze per nulla deputate
a produrle.
Non solo, vi
sono gradi abmozionali molto differenti,
così su cento volte che tu senti un
certo studio per pianoforte di Chopin oppure
di Debussy soltanto una certa
volta succede che tu abbia un’abmozione profonda e di grande intensità.
Oppure su mille volte che guardi il volto
di tua madre solo qualche volta tu
sia veramente pervaso dall’amore donazionale.
Ma può anche che l’esperienza
aiteriale non riguardi un “grande” della
musica ma un “minore” poco conosciuto
che ha casualmente azzeccato un accordo strano
e una fortunata risoluzione.
Allo stesso modo un ragazzino sconosciuto
incontrato per strada può darti un abmozione
che tuo figlio non ti ha mai dato. In altre
parole, le abmozioni sono
esperienze privilegiate piuttosto rare, senza
preparazione, casuali, sempre
inaspettate e con i riferimenti più imprevedibili
e impernsabili. Esse
costituiscono sempre una sorpresa che in
qualche modo “ti cambia”, sia pure per
pochi istanti o per poche ore. Accade anche
che dopo un intensa abmozione non
ci si senta più quelli di prima, proprio
perché si dischiude con essa
l’orizzonte su una realtà diversa, che contrasta con la quotidianità,
con gli interessi materiali, con le convenzioni
sociali, col modo corrente di
vivere e concepire la vita, persino col
modo naturale e spontaneo di rapportarti
a una persona cara.
Al fatto che esistano anche grandi differenze
di intensità
abmozionale occorre però aggiungere che esiste
sempre un certo grado di innata
“congenialità” nei confronti di un certo
tipo di esperienze idemali e che
ognuno di noi ha differente predisposizione
al rapporto aiteriale e che essa
può spingere la nostra sensibilità intuitiva in una direzione o in un
altra. Può accadere che un’idema sensibile all’etica non lo sia
per nulla all’estetica, e che un grande artista sia una persona
immorale, o al contrario che un grande filantropo
non colga alcuna differenza
tra un bel dipinto e una sua volgare copia.
La possibilità di avere abmozioni
intense di un certo genere può far capo ad
una certa predisposizione, ma in
ogni caso ciò non è condizione sufficiente,
poiché l’abmozione è un evento
senza preparazione e senza premesse. Ma allora
che cos’è che fa la differenza
tra cento ascolti di una brano di Beethoven
e quel centunesimo che ti dà abmozione?
Si direbbe che l’abmozione debba
far capo ad un “qualcosa” che la produce
o che almeno rende la relazione tra
un idema e una specifica entità aiteriale o tra due
o più ideme
(nel caso dell’etica e della cairéa) più stretta e più profonda.
Ma porre una super-relazione di questo tipo significa anche chiedersi
se
ciò non risulti possibile in virtù di un
superamento del rapporto “eterogeneo”
tra un elemento materiale come un’idema e uno aiteriale come un aiterio.
Ciò, ovviamente, sia dal punto di vista pratico
che da quello teorico, si
presenta per lo meno problematico, malgrado
io possa aver dato l’impressione
che non lo sia e che il rapporto dell’idema con elementi di aiteria sia
relativamente facile. Si può pensare che
affinché si verifichi una vera abmozione
ci voglia un rapporto diretto (e quindi “omogeneo”)
tra due idioaiteri
umani oppure tra un idioaiterio e un aiterio di genere
diverso? Se così fosse l’abmozione diventerebbe
un fatto trascendentale, poiché verrebbe
trascesa la materialità dell’idema,
e questo mi sembra di poterlo escludere.
Ma contro questa ipotesi vi è anche la
constatazione che l’elemento aiteriale si
offre sempre sotto le spoglie della materia
che le fa da supporto, che comunque rimane
il primo oggetto d’approccio per i
nostri occhi o per le nostre orecchie. Per
completezza di esposizione dobbiamo però
anche aggiungere che la facilità o
meno con cui un individuo entra in rapporto
profondo con gli aiteri (in simpatesi)
possa dipendere anche dalla propria sensibilità intuitiva, che si presume invece
relativamente costante per ogni persona,
e ciò potrebbe indicare che alcuni
individui siano più predisposti di altri
ad avere esperienze aiteriali in
generale o almeno in alcuni campi specifici
(il ché è del tutto plausibile).
Costatata
l’impossibilità di fornire una risposta motivata
alle domande appena poste
rimane comunque il fatto che nei nostri approcci
ad una situazione
potenzialmente aiteriale e foriera di abmozione soltanto poche volte
queste si verificano. Possiamo allora ipotizzare
che per ragioni imponderabili
o casuali tra gli attori dell’evento abmozionale debba scoccare qualcosa
come un’improvvisa scintilla che lo renda
possibile, probabilmente una
momentanea e magica “affinità” che si verifica
poche volte e in modo inatteso.
Abbiamo chiamato questa immaginaria ma plausibile
affinità tra due aiteri
con un termine desunto dalla psicologia e
dall’estetica; essa è: simpatesi.
In realtà il termine deriva sia dal
linguaggio comune e dalla filosofia (simpatia)
[140],
sia dalla psicologia (empatia)[141]
e dall’estetica (Einfühlung)[142].
Nel contesto del DAR la simpatesi assume
una denotazione particolare, poiché evidenzia
il rapporto simmetrico che si instaura
tra il dualista e le cose, le persone o gli
scenari, tutti recanti al
margine elementi di aiterialità che si offrono all’idema nei termini
già visti. La particolarità della simpatesi rispetto ai suoi analoghi
storici sta nel fatto che essa non pone tanto
l’accento sul soggetto umano che
ne fruisce (dopo tutto anche animali e piante
probabilmente hanno un’idema),
bensì la relazione che si instaura tra materia ed aiteria attraverso
una “funzione” materiale (l’idema) e una singolarità aiteriale qualitativamente
definita. Col concetto di simpatesi tuttavia non abbiamo aggiunto nulla
di particolare a quanto già detto in precedenza
sul rapporto materia/aiteria,
ma gli abbiamo dato un nome che ci aiuta
a comprenderlo. Dopo aver
sottolineato la diversità (ed in qualche
caso l’opposizione) tra i due reali
universali e rimarcato la loro estraneità
sostanziale siamo giunti ad
evidenziare il loro incontro indiretto attraverso
la simpatesi.
Passiamo ora a una precisazione relativa
al concetto di al margine (cui avevamo accennato di sfuggita nel
paragrafo 5.1) che richiede ora una delucidazione
più completa, senza la quale
rimarremmo in una certa indeterminazione.
Avevamo detto che l’aiteria è
compresente e coestesa con la materia in una sorta di immanenza “senza
contatto” e che essa è costituita presumibilmente
da elementi primi (che
abbiamo chiamato pneumi) e dai singoli aiteri, che
verosimilmente potremmo immaginarli come
“avvolgenti” le entità materiali cui
afferiscono. Ma come nascono gli aiteri e come si “attaccano” alle cose
materiali? La risposta non è facile, ma pensiamo
di poter affermare che ciò
avvenga sicuramente nella biosfera “almeno” nel corso degli eventi determinati
dall’idema dell’homo sapiens, funzione mentale che permette a
questo animale (ma forse non solo ad esso)
di rapportarsi all’altro reale
che accompagna la materia.
Tuttavia, dobbiamo ritenere molto
probabile che anche gli altri animali siano
dotati di idema e vorremmo
pertanto aggiungere che non possiamo escludere
(dal punto di vista pluralistico
da noi assunto) che le ideme (o altre funzioni a noi sconosciute) degli
altri animali (e perché no delle piante?)
possano rapportarsi ad aspetti
aiteriali diversi da quelli delle nostre
categorie analogiche ed a noi
del tutto inaccesibili. Se degli osservatori
esterni guardassero l’uomo vivere
come noi osserviamo vivere gli altri animali
o le piante siamo convinti che ci
sarebbero elementi “chiaramente” percepibili
da essi che li indurrebbero a
pensare ai nostri sentimenti e alle nostre
emozioni? Restando però nel campo
antropico (che è l’unico di cui possiamo
parlare) ripeteremo che la nostra idema
non soltanto percepisce l’aiteria ma la elabora come farebbe un
utensile. E aggiungeremo ora che nella misura
in cui ciò non può che avvenire a
partire da una materia prima elementare (i
supposti pneumi) o già
formata (preesistenti aiteri prodotti ed elaborati già da altre ideme),
la nostra idema (nell’accedere all’aiteria) la alimenta
attraverso il suo accesso e attraverso la
formazione degli idioaiteri
individuali nonché con l’elaborazione di
ogni altro aiterio. Abbiamo
così lo straordinario fenomeno per cui la
materia (sotto forma di idema)
partecipa attivamente al trasformarsi e all’arricchirsi
dell’aiteria
nella sua struttura qualitativa(almeno qui
sulla Terra) e ciò in virtù di
quello straordinario fenomeno che è la simpatesi.
Avevamo detto
che l’idema (o più probabilmente il suo idioaiterio) agisce sugli
aiteri coi quali viene in rapporto modificandone
le qualità,
anche attraverso processi di aggregazione e riconfigurazione.
Processi
di carattere esclusivamente qualitativo che
quindi escludono fenomeni di
strutturazione di tipo quantitativo come
quelli operati dalla materia,
che in questo caso sono piuttosto processi
di aumento o di riduzione della
struttura fisica interna. Abbiamo usato il
termine “arricchimento” proprio
perché ci pare che nel nostro linguaggio
corrente non corrisponda ad un
“aumento” quantitativo, che sarebbe da escludere
nel caso dell’aiteria.
Essa infatti la dobbiamo immaginare priva
di alcun carattere dimensionale;
conseguentemente dobbiamo anche escludere
qualsiasi possibilità di “riduzione”
di essa, poiché un qualità non è di per se stessa riducibile, ma non
possiamo escludere la possibilità di un “impoverimento”
per cause ancora più
difficili da immaginare di quelle dell’arricchimento.
L’analogia con le “materie prime”
dell’arte ci è di qualche aiuto, poiché (sia
che noi ci riferiamo alla musica,
come alla poesia o alla pittura) ci troviamo
sempre con dei materiali “primi”
che vengono aggregati e condotti a una certa
configurazione (o forma) compiuta,
il cui smembramento o riduzione rischia sempre
di comprometterla. È infatti
difficile immaginare la suddivisione o la
riduzione in sottoinsiemi di una
brano musicale, di un quadro o di una poesia
senza rischiare di distruggere la qualità
specifica che li concerne. Tuttavia, non
manca qui una certa analogia con
la materia, poiché a ben vedere anche un quadro può essere
tagliato formando frammenti ognuno dei quali
resta ancora portatore di qualità
relazionabili al “tutto”, così come ciò può
avvenire per il tempo di una
sonata o per la strofa di una poesia. Anzi,
possiamo addirittura dire che,
mentre il bombardamento di un atomo pesante
lo spacca e determina atomi più piccoli
che hanno perso completamente le caratteristiche
fisiche di quello di partenza,
nel caso di una aiterio complesso tale operazione potrebbe anche
essere
relativamente possibile e che un frammento
di esso possa contenere
qualitativamente tutto ciò che serve a qualificarlo
come parte di un tutto di
cui mantiene le principali caratteristiche
(un po’ come avviene del DNA in
biologia). È però altrettanto vero che
un atomo leggero possiede in sé le caratteristiche
e le “leggi” quantitative”
per dare luogo a qualsiasi atomo del sistema
periodico degli elementi e di ogni
composto semplice o complesso da essi costituito.
In altre parole, possiamo
ragionevolmente ritenere che esista una notevole
analogia tra materia ed
aiteria, purché si tenga presente che le operazioni
alle quali
possono andare soggette rispondono rigorosamente
e rispettivamente alle già
citate coppie necessità-quantità e libertà-qualità, che a suo tempo abbiamo sufficientemente
descritte.
NOTE
[134] Avanzo qui un’ipotesi, su base puramente
immaginativa e
quindi priva di alcun fondamento (ma non
del tutto priva di qualche elemento
intuitivo) secondo la quale l’aiteria ( che viene considerata al
margine della materia in ogni suo aspetto) potrebbe concernere
almeno tutte le entità percepibili
all’uomo. Quindi sia singolarità biologiche
od oggettuali sia insiemi di esse,
nonché l’ambiente che le comprende in quanto
investibili di sentimenti di tipo
estetico, affettivo o conoscitivo.
[135] Per tendenzialità della materia intendiamo
quella modalità in virtù della quale essa, in quanto essere dinamico (divenire),
tende a generare in sé qualcosa che la possa
far evolvere verso ciò che essa
non è, ciò che è appunto l’idema.
[136] La parola dhianasi deriva dalla fusione
del termine sanscrito dhyana (= meditazione) con la parola greca askesis
(= ascesi: lett.esercizio). La dhianasi del dualismo reale è la
condizione idemale raggiungibile attraverso
la meditazione sulla natura e il
conseguimento di un rapporto contemplativo-simpatetico
con essa.
[137] Concetto tipico delle antiche cosmologie
orientali
passato poi in Occidente. Presente già in
Platone (Timeo, 34b) e
associata al Demiurgo si riscontra anche
negli Stoici e in Plotino. Fu ripresa
nel Rinascimento da Giordano Bruno e tematizzata
anche da Schelling
nell’Ottocento.
[138] Il termine indica uno stato di
abbandono della consapevolezza di sé e di
ogni sensibilità fisica ed
intellettiva quale stadio ultimo di un processo
di abbandono della propria
condizione verso la comunione col divino
o comunque col trascendente. Fu ripreso
dalla teologia cristiana e teorizzato come
la forma più alta di contemplazione
di Dio da parte di Bernardo di Chiaravalle.
Nella filosofia moderna si ritrova
in Heidegger (Essere e tempo, cap.III, § 65).
[139] Parlare di “totale” aiteriale può suonare
contraddittorio col concetto base che nel
DAR si ha dell’aiteria quale “insieme”
pluralistico di singoli aiteri pur
connessi e relazionati. La contraddizione
infatti esiste e la sua causa è da
ricercarsi nel fatto che la dhianasi si presenta come uno stato “incosciente”
e quindi in parte “deviato”. In altre parole,
lo stato dhianatico,
nell’estremizzazione di uno stato contemplativo
fino all’incoscienza, non
coglie più la specificità degli aiteri e si “perde” in una
totalità fittizia che tutti li unirebbe.
[140] Il concetto filosofico di simpatia ha una lunga
storia che parte dagli Stoici e arriva ai
giorni nostri. Si può ritenere
tuttavia che nelle accezioni moderne esso
non si scosti troppo dal significato
che la parola ha assunto nel linguaggio comune,
vale a dire come la
“partecipazione” di un individuo al modo
di pensare di un altro, ai suoi
desideri e ai suoi sentimenti.
[141] L’empatia è termine comunemente utilizzato in
psicologia per indicare la capacità di un
individuo di entrare nella forma
mentis di un'altra, diventando partecipe dei suoi
pensieri e di suoi stati
d’animo.
[142] Einfühlung è parola tedesca che significa “partecipazione
emotiva”
e che viene tradotto in italiano comunemente
con empatia. Il termine fu
ripreso dal filosofo dell’arte R.Vischer
nel 1874 per indicare la proiezione
delle proprie emozioni su un oggetto di natura
contemplato con amore,
immedesimandosi con esso. Ma è con Th.Lipps
che l’Einfühlung viene
assunta a base di una vera e propria teoria
estetica secondo la quale con essa
la contemplazione estetica diventa la percezione
delle proprie forze emotive
trasferite in un oggetto. Secondo tale teoria
questo fenomeno si manifesta
specialmente nei confronti delle opere d’arte,
in quanto esse sono già
connotate per offrirsi al fruitore come oggetti
emozionali.