CAPITOLO 12

                            (Uno sguardo all’uomo e al suo contesto.)  

 

 

 

12.1) Specie homo sapiens (Una vicenda interessante, ma breve e comunque irrilevante nella storia della vita sulla Terra).  

 

    La mia cultura naturalistica è piuttosto limitata, ma penso che definire breve e irrilevante (nel contesto generale della vita sul pianeta) l’avventura della nostra specie sia difficilmente contestabile. La vita è apparsa sulla terra 3,5 miliardi di anni fa, i primi ominidi hanno fatto la loro apparizione verso i 2,5 milioni di anni fa (dopo essersi separati dagli scimpanzé), ma soltanto circa 150.000 anni fa circa è apparso il nostro nonno ancestrale, o meglio la nostra nonna [160]. Ciò significa (oltre a dover invertire la biblica nascita di Eva dalla costola di Adamo) che la nostra presenza è limitata ad una frazione minima dell’esistenza della vita sul pianeta e che, date le esigenze vitali dei mammiferi in generale, si può ragionevolmente presumere che essi prima o poi si estingueranno al mutare delle condizioni ambientali e che ciò verosimilmente accadrà assai prima di quanto si possa verificare per molti pesci ed insetti, ma soprattutto per una moltitudine di batteri. I mammiferi d’altra parte rappresentano una minima parte della cosiddetta biomassa generale e nell’intero sistema del vivente costituiscono sotto tutti i punti di vista una presenza assolutamente minima.

    Tuttavia noi restiamo convinti di essere importanti, poiché ci siamo inventati una sorta di nobiltà biologica di nascita, in funzione della quale e al cui servizio sarebbero nate tutte le altre specie che ci hanno preceduto, anche da una di queste in linea filogenetica noi deriviamo. La nostra presunzione (sulle ali della più sbrigliata fantasia) è arrivata così fino all’ipostatizzazione di una divinità super-umana, esistente in un misterioso ultra-mondo, che sarebbe poi un nostro fantastico padre ideale, creatore e padrone dell’universo, a cui noi tenderemmo irrimediabilmente quale nostra gloriosa conclusione escatologica. Nel nostro rispetto della legittimità di tutti i punti di vista non torneremo su questa opinione, anche per non rischiare di turbare coloro che si sentono bene restandoci attaccati, per cui non resta, a tal proposito, che lasciarli beatamente riposare in questa credenza, la quale, come abbiamo già visto, è psichicamente oltremodo efficace ed appagante. Per chi invece pensa che l’homo sapiens è soltanto un grosso mammifero che l’evoluzione ha dotato di straordinarie facoltà mentali, rendendolo capace di grandi imprese e persino di distruggere il pianeta su cui vive (ma tutto sommato assai “debole” e ininfluente su ciò che costituisce il grosso e “forte” del vivente, cioè i batteri) proporremo alcune riflessioni che ci permetteranno di autocollocarci in modo obbiettivamente più corretto nel sistema biologico generale di cui facciamo parte.

    Nell’affrontare questo tema emerge immediatamente un suo corollario che soltanto in questi ultimi decenni è stato tematizzato in termini obiettivi e non pregiudiziali (o ideologici), cioè quello del supposto “progresso” che si verificherebbe nella generale evoluzione biologica verso forme sempre più complesse ed efficienti; come dire, almeno fino a questo momento, verso l’uomo. È evidente che se noi continuassimo a considerare le caratteristiche e le facoltà che ci concernono “superiori” a quelle degli altri animali, ne deriverebbe che noi finiremmo per rappresentare un loro “oltre” positivo e che, in questo caso, tutti gli altri esseri viventi (che consideriamo inferiori) sarebbero stati destinati quasi “soltanto”a preparare il nostro avvento. Già, ma inferiori su quale base e rispetto a che cosa?  

    Una delle teorie più comuni è quella di considerare ciò che è biologicamente più complesso non solo più progredito ma anche “superiore” in termini assiologici. Inutile ripetere che secondo noi questo atteggiamento contiene forti elementi di arbitrarietà ed che è quindi notevolmente opinabile ed anche un poco arrogante. Si potrebbe anzi logicamente sostenere che un classe di esseri viventi (un philum) che funzioni bene da più tempo, che sia molto diversificata, che sopravviva in molti ecosistemi, che occupi in termini di biomassa una fetta importante del sistema vivente e che per di più sia “semplice” (quello dei batteri) debba essere considerato superiore ad una altra biologicamente più recente, in quanto questo non ha ancora dovuto affrontare grossi cambiamenti climatici, mentre, per contro, la sua esistenza appare piuttosto vulnerabile in termini di facile mortalità per cause traumatiche, di malattia o di degrado organico. Anche il modo estremamente complicato con cui i mammiferi (soprattutto i placentati) generano la prole può essere considerato un difetto e non un pregio in termini biologici, rispetto ai sistemi assai più semplici presentati dai pesci o dagli insetti.

    Già, ma i pesci e gli insetti non scrivono la Divina Commedia, non compongono una Nona Sinfonia non dipingono la Cappella Sistina, né costruiscono computers! Ciò è vero, ma dimentichiamo il fatto  che ad un’ape non può importare un bel nulla di essi e che le sarebbero del tutto inutili, dal momento che tali cose hanno un significato soltanto per noi e che noi li apprezziamo in quanto riguardano il limitatissimo campo delle nostre esigenze psicologiche od idemali. I poemi dell’ape, le sue sinfonie e le sue macchine sono quelle biologiche (i profumi, i colori, le forme) di cui la natura mette a disposizione sia i componenti che gli insiemi già da molto tempo e che essa ha saputo percepire e sfruttare già milioni di anni fa, evolvendosi in funzione di essi e del proprio miglior sviluppo biologico, fino a un livello così perfetto da non richiedere ulteriori evoluzioni e miglioramenti umanamente concepibili ed immaginabili. Peraltro va aggiunto che l’uomo è prontissimo ad evidenziare le proprie facoltà come ciò che nessun altro animale sa fare, salvo dimenticarsi delle innumerevoli facoltà di altri animali che egli non possiede per nulla. Basti ricordare, riferendoci in generale alla classe degli insetti, quelle per noi “visibili” (le uniche che possiamo percepire e comprendere) e tra queste almeno quella di poter far ricrescere una parte del proprio corpo che è stata traumaticamente asportata [161] o addirittura di modificare la propria struttura corporea base, in vista delle funzioni differenziate che la comunità richiede ad ogni singolo individuo [162].

    Quindi il nostro è semplicemente il punto di vista di una specie che ha deciso di ritenersi “superiore” in riferimento alla propria scala di valori, formulata sulla base di ciò che possiede ed apprezza, sulla sua capacità di controllo e dominio che le consente, senza alcuna considerazione per ciò che possiedono le altre specie, che vivono per lo più ignorandoci completamente, se non nella misura in cui rechiamo loro danno. Questa nostra presuntuosa arroganza sarebbe semplicemente ridicola se non avesse anche determinato l’autoattribuzione di un ruolo che è generatore di un complesso di superiorità, a cui è seguita l’autoelezione a “re del creato” per decreto di qualche divinità demiurgica o creatrice. Divinità che, nel caso del Cristianesimo, si sarebbe rivelata “apposta” (mandandoci un figlio con le nostre sembianze) per redimerci da un peccato ancestrale, ma anche (e forse soprattutto) per ratificare tale nostra superiorità, della quale godere e da “usare” anche a discapito degli altri viventi, in quanto “inferiori” e sussidiari.  

    Tuttavia, l’uomo potrà fin che vuole manipolare e forse distruggere l’ambiente, usare altri animali come pure “macchine da cibo”, ma prima o poi è probabile che esso scomparirà insieme ad altre specie per lasciare il posto a quelle nuove, mentre il pianeta rimarrà integro e mentre per di più molte altre specie più semplici biologicamente gli sopravviveranno, continuando eventualmente ad evolversi secondo una loro logica e niente affatto secondo la nostra. Lo faranno forse alcuni piccoli mammiferi, molti insetti, ma sicuramente lo faranno moltissimi batteri i quali, ad eccezione di quelli che ci aiutano a vivere (circa il 10% della parte solida del nostro corpo) che si estingueranno o “emigreranno”, continueranno ad insinuarsi in ogni nicchia ecologica vivibile (compresi i fondali oceanici e le viscere della terra). E questo avverrà perché la loro capacità di trarre energia vitale anche da altre fonti oltre al Sole (per esempio utilizzando il calore proveniente del centro della Terra) li rende praticamente quasi immortali. Verosimilmente infatti i batteri continueranno ad occupare gran parte della biomassa globale (forse già adesso superiore a quella delle piante) e a destare meraviglia in un immaginario osservatore per la varietà e la versatilità colla quale si adattano a qualsiasi luogo e a tutte le condizioni di esistenza (con luce o senza, con ossigeno o senza, ecc.). 

 

 

 

 

12.2) Le risorse della specie.

 

    Il discorso testé sviluppato, relativo alla sostanziale equivalenza (da un punto di vista assiologico) di ogni specie vivente, in quanto “ciascuna a suo modo” ha affrontato la vita, ne ha esplorate le possibilità e ne ha interpretato il senso, potrà venire considerato dai seguaci di una fede religiosa una colossale sciocchezza (ed è legittimo che essi pensino così). Ma anche alcuni (o molti) materialisti radicali (e naturalmente monisti) potrebbe potrebbero pensarla allo stesso modo, in quanto potrebbero considerare il nostro discorso anti-umanistico, mettendo così in discussione quella sorta di para-religione umanistica alla quale spesso i materialisti tengono molto. D’altra parte, per chi è abituato a considerare l’intelligenza umana e la sua razionalità come gli unici valori di riferimento, in quanto segno di un “primato” biologico e intellettuale raggiunto con l’evoluzione (il quale andrebbe così a sostituire il tradizionale primato spirituale di origine divina) potrà risultare inaccettabile questa posizione assunta dal DAR. Si tratta infatti di un atteggiamento che è diventato quasi uno stereotipo di certo materialismo preoccupato di negare Dio, ma con tutte le migliore intenzioni di divinizzare l’uomo. Questo atteggiamento non è nuovo; nato nell’antichità, rinvigorito con l’umanesimo rinascimentale e perfezionato nella cultura occidentale tra Sette e Ottocento (sia in ambito illuminista, che romantico, che positivista) è rimasto a grandi linee immutato sino ai nostri giorni. E anche l’antromorfizzazione della religione operata dall’acuta e meritoria interpretazione fine-ottocentesca di Feuerbach ha finito per rafforzare questo estremismo umanistico attraverso una sorta di materialistica “divinizzazione” dell’uomo.

    Ma come si spiega allora l’atteggiamento del DAR, il quale, mentre teorizza la capacità dell’uomo di accedere a una realtà extramateriale (sia pure tra tante altre), limita e abbassa la sua avventura sulla scena della vita allineandola a quella delle altre specie? Come è possibile affermare addirittura che la nostra sia una specie biologicamente debole e precaria  rispetto ad altre più elementari, dimenticando la nostra straordinaria capacità di adattamento alle situazioni e agli ambienti più disparati? E come si può nelle nostre valutazioni mettere tra parentesi la inesauribile creatività dell’homo sapiens, la sua capacità di indagare il mondo e di scoprire le leggi della natura, di inventare macchine straordinarie come opere d’arte sublimi, tutte cose che stanno lì a dimostrare una inequivocabile superiorità biologica?

    Le domande di cui sopra ci offrono l’opportunità di tornare su alcuni aspetti dell’argomentazione dualistica già largamente trattati e di rilevare che se il DAR sostenesse, relativamente all’uomo,  un suo primato biologico in senso stretto, ne risulterebbe una contraddizione interna per l’assunto pluralistico da cui esso parte. Infatti il DAR (che tematizza la nostra sostanziale ignoranza) si limita a constatare che (per quanto ci è dato intuire) esiste una seconda realtà che ci concerne, oltre a quella materiale, e che l’evoluzione biologica ha condotto la nostra specie ad accedervi.  Ma questo non ci autorizza ad escludere che altri animali possano avere accesso ad altre realtà che ci sono per contro irrimediabilmente precluse. Infatti il DAR lascia aperta la strada a tutte le ipotesi sulla possibilità che altre espressioni della biosfera accedano a campi di realtà nei quali vengono esperiti reali extramateriali o inframateriali dei quali noi non possiamo avere alcuna cognizione.

    Nella prospettiva pluralistica che il DAR pone noi prendiamo infatti coscienza (nei termini enunciati a proposito della moira) che oltre alla vulnerabilità e precarietà fisiche (nel nostro essere soggetti alla necessità) siamo anche affetti da una sostanziale ignoranza su tutto ciò che esorbita le nostre facoltà sensorie ed intellettive, che pertanto debbono andare prudentemente e razionalmente esenti da indebite sopravvalutazioni. Ribadiamo qui che quand’anche si concordi sul fatto che le facoltà umane siano probabilmente superiori rispetto ad ogni altra specie vivente sulla Terra (ma non necessariamente rispetto ad altre biosfere fuori del sistema solare) occorre rilevare che, in quanto ogni specie risponde soltanto a se stessa della propria evoluzione, noi possiamo osservare che ognuna è “a suo modo” assolutamente perfetta nell’adeguamento all’ecosistema in cui sussiste e che i loro individui posseggono conoscenze del tutto adeguate a ciò che biologicamente li riguarda. La nostra complessità organica non conduce necessariamente ad affermare la nostra superiorità biologica, che è soltanto un punto di vista conforme al fatto che l’homo sapiens si pone come soggetto e considera oggetto tutto ciò che è “altro da sé”.

    Il grosso cervello dell’uomo e le facoltà intellettive e razionali che ne conseguono sono funzionali all’uomo stesso e soltanto ad esso, quindi totalmente estranee e insignificanti per ogni altra specie e forse anche per la biosfera in generale. Questa è infatti una totalità solo virtuale, basata su una pluralità molteplice e su una diversificazione quasi infinita, che la porta ad occupare ogni spazio vivibile con modalità, espressioni e forme di vita che il caso, attraverso le mutazioni, è come se le reinventasse ogni volta. Ciò ci permette pertanto di ribadire quanto già espresso, ovvero che nessuno ci vieta di considerare l’accesso a ciò che abbiamo chiamato aiteria come un “valore”, ma ciò ha un senso esclusivamente in termini antropici (nella misura delle esperienze che produce) e non può quindi averlo in termini biologici generali. Questo fatto assume significati di carattere soltanto infraspecifico; così, per esempio, noi possiamo legittimamente ritenere che una persona che dedichi il suo tempo libero a leggere poesie di Leopardi, possa essere considerato “umanamente” più apprezzabile di un’altra che va invece a pesca di trote. Tuttavia, a parte il fatto che il pescatore può esser anche un estimatore di Leopardi, questo tipo di giudizio (opinabile e in ogni caso puramente soggettivo) è “interno” al complesso di criteri antropici precedentemente fissati. Quindi, ripetiamo, fuori dell’ambito umano in cui si esplicita e viene formulato, tale giudizio va ritenuto del tutto privo di ogni valore e significato che possano pretendere di valere in termini generali.

    In altre parole: l’uomo “si è costruito” un mondo fittizio a sua immagine e misura, al quale fa riferimento (probabilmente per una forma di “necessità” psichica geneticamente motivata) alla stessa maniera come il riccio, il passero e la formica hanno un loro “mondo”  a cui, secondo le loro logiche interne, si uniformano. In realtà, quelli dell’uomo e della formica, sono veri e propri “mondi” differenti, in cui il bene e il male sono determinati da ciò che giova o nuoce, secondo principi naturali (del tutto analoghi a quelli elaborati da noi e “per noi”) basati sulle caratteristiche biologiche di ogni singola specie in funzione di una realtà afferente la modalità di esistere che la concerne. Ora, al di là dell’ecosistema che ai sopra citati animali ci può accomunare, nulla ci è dato conoscere del loro “mondo” esperienziale, poiché il nostro punto di vista (in quanto “nostro”) è “senza porte e finestre” nei confronti di qualsiasi altra realtà che non ci concerna e che pertanto rimane inaccessibile alle nostre facoltà intuitive ed intellettive. Qualcuno di noi pensa di conoscere la realtà degli altri animali quando ne venga conosciuta la fisiologia; ma questo punto di vista è oltre che presuntuoso anche ottuso, almeno quanto quello di un virtuale osservatore extraterrestre che pensasse di sapere che cos’è un uomo avendo imparato come funziona il suo organismo e come vive, senza poter penetrare nel suo intimo per sapere “che cosa sente”.

    Per quanto detto sopra noi potremo tematizzare le nostre “risorse” e analizzarne aspetti e conseguenze sulla nostra vita, ma ciò può avvenire soltanto in termini esclusivamente autoreferenziali, cioè “per noi”, senza che sia possibile trarre alcuna conseguenza assiologica in senso generale. Tuttavia, ciò ammesso, il tipo di esperienze che l’aiteria produce (le abmozioni) da un punto di vista antropologico generale sono auspicabili o meno? E che “senso” antropologico possono avere? E inoltre, possono esse venire considerate “particolarmente” valide rispetto a quelle che la materia ci offre normalmente e continuamente, vale a dire rispetto alla vasta sfera degli accadimenti e delle emozioni che ci è dato sperimentare nel flusso del divenire? La nostra risposta è: sì e no! Intendo dire che nulla giustifica un giudizio assiologico e nulla lo vieta. Ognuno è libero e perfettamente legittimato a ritenere la pesca un attività superiore alla poesia e il piacere di un fetta di buon salame superiore a quello dell’ascolto di una sonata di Beethoven. L’unica cosa che sarebbe impropria sarebbe quella di considerare concretamente “reale” soltanto il salame e non la musica, riducendo questa ad un puro assemblaggio di suoni materiali.

    Senza avere allora la pretesa di uscire dall’ambito “rozzamente” filosofico a cui abbiamo deciso di attenerci è accaduto che, in un certo senso, abbiamo posto all’origine del DAR un criterio che potremmo dire vagamente “epistemologico” nel privilegiare sempre la pluralità e la differenza rispetto all’unità e all’omogeneità. Ma va aggiunto che al DAR appare inaccettabile la confusione che spesso viene fatta (in nome di un’unità fittizia) quando si riduce la differenza ad “aspetto” di un omogeneità originaria o causale. In particolare ciò vale quando, nel porci come oggetto di conoscenza a noi stessi,  riduciamo ad “aspetti” di uno stesso sistema elementi connessi in determinate operazioni biologiche ma con funzioni differenti; e ciò ancorché essi siano strutturalmente connessi (come è il caso delle organizzazioni e delle infrastrutture rispetto alla mente). Questo tipo di arbitrio avviene infatti perché si vuole a tutti i costi tenere insieme ciò che insieme non sta, in nome di un principio di riduzione ad “unicità e omogeneità” (ancorché poliedrica e polivalente) razionalmente forse abbastanza plausibile, ma non conforme alla realtà esperienziale, che è poi quella che conta realmente nel “mondo” di riferimenti esistenziali a cui ci atteniamo nell’esperienza e nella condotta di vita. 

    Allora, qualora siano stati ritenuti accettabili gli argomenti avanzati dal DAR, sta poi ad ognuno di noi decidere quale senso dare all’attività idemale che esso evidenzia rispetto all’esistenza che ognuno di noi esperisce nella quotidianità. Qui si sta ovviamente cercando di attirare l’attenzione nei confronti delle tesi che vengono sostenute, senza che vi sia la pretesa di additare le esperienze aiteriali e il loro sviluppo come un obbiettivo a cui tutti debbano ambire, considerandole a priori particolarmente valide ai fini del “buon vivere”. Dal punto di vista del DAR infatti l’estimatore del salame può essere una persona assai più degna e coerente di quella che ama la musica di Beethoven, poiché un giudizio valido è soltanto quello che fa riferimento al rapporto qualitativo che viene intrattenuto “umanamente” con l’oggetto di desiderio e non in base a una codifica aprioristica di classi di oggetti con validità generale. Il “salamista” può benissimo decidere che le sue papille gustative siano assai più importanti della sensibilità musicale del “beethovenista” anche quando si fosse convinto dell’esistenza della realtà aiteriale e fosse consapevole che l’accesso ad essa sia una straordinaria possibilità concessa all’homo sapiens.  Infatti, se egli non si sente portato verso tale realtà, può legittimamente considerarla poco interessante per se stesso e tanto meno importante per una buona condotta della propria esistenza. Dirò di più: noi abbiamo ipotizzato cinque caratteri dell’aiteria tra gli infiniti possibili, ma in termini possibilistici e pluralistici non possiamo neanche escludere che il gusto o l’olfatto costituiscano forme aiteriali di tipo particolare, che noi attribuiamo (sbagliando) alla materia, in quanto ci sfugge qualcosa di nascosto sull’esperienza sensoria non puramente riducibile alla fisiologia. Il DAR infatti lascia la porta totalmente aperta a qualsiasi ipotesi, infrangendo la scatola chiusa del “già dato” e del “già acquisito” (fuori dalle verifiche della scienza), le cui pareti sono state costruite per racchiudere nella forma pre-determinata dal “contenitore” stesso qualcosa di assolutamente inventato. Un qualcosa di fabbricato ad hoc, atto forse a costruire un modello antropicamente funzionale per la generalità dei soggetti, ma che chiude ogni prospettiva di apertura dell’orizzonte gnoseologico ed esperienziale che intenda guardare oltre le convenzioni del sapere tradizionale o istituzionalizzato. 

    Il DAR pertanto tematizza e indica l’aiteria come una straordinaria “risorsa” esistenziale, in parte già conosciuta e riconosciuta (sotto altra denominazione), a cui guardare con maggiore consapevolezza al fine di ridisegnare eventualmente un progetto di vita individuale più o meno interessante e consono alle nostre aspettative e ai nostri desideri, senza che ciò dia luogo necessariamente a dei “valori” di riferimento che debbano essere accettati anche da tutte le altre persone. Si tratta di un punto di vista (che si può condividere o rifiutare) che si attiene al primato (in termini di realtà) di quella specificità antropica che abbiamo chiamato individualità e della quale l’idema è nucleo fondamentale. D’altra parte, va aggiunto che una volta riconosciuta la realtà aiteriale si può benissimo decidere di infischiarsene e di preferirvi la sfera delle più concrete esperienze sensorie, limitandone od escludendone la presenza in un “modello del vivere” che considera più importante il piacere fisico o molto più semplicemente il “lasciarsi vivere”; quindi col minimo sforzo corporeo ed intellettuale, in attesa di scendere (il più tardi possibile) dal treno della vita.  

 




[160] Secondo una ricerca pubblicata qualche anno fa sulla rivista statunitense Nature Genetics sarebbe stato scoperto che il DNA mitocondriale (presente tuttora nella femmina dell’homo sapiens) ha fatto la sua comparsa sulla terra circa 143.000 anni fa, mentre il cromosoma Y del maschio (l’unico arrivato anch’esso sino a noi) è comparso soltanto 59.000 anni fa, quindi oltre 80.000 anni dopo (Articolo apparso nella rivista Quark n°1 2001, p.94 e seguenti) .  

[161] È nota la facoltà di molte specie di insetti di comandare alle cellule di riaggregarsi sulla ferita, riformando quella parte del proprio corpo che era andata perduta.

[162] Basti citare a questo proposito il caso delle termiti, il cui corpo assume caratteristiche morfologiche e funzionali completamente diverse a seconda del ruolo che deve rivestire nella comunità del termitaio.