(Corollari dualistici )
10.1)
L’autenticità dell’arcanum e la
falsità del “sacrum”.
All’inizio di
questo libretto avevo premesso che la nostra
opposizione nei confronti delle
posizioni spiritualistiche non deve essere
acritica, per non correre il rischio
di “buttare il bambino con l’acqua sporca”,
perciò nello storicizzare e nel
giudicare le religioni e le filosofie trascendentalistiche
bisogna andare
cauti. Di esse noi dobbiamo mettere in
discussione i fondamenti mistificanti e strumentalizzanti
quando ci sono, ma
nel contempo esaminarne ogni aspetto più
riposto, per coglierne eventuali
autentici significati antropologici rimasti
nascosti o ignorati. Un accumulo
millenario di esperienze e di considerazioni
non può essere buttato come
spazzatura senza un adeguato esame preliminare,
che sceveri il riso dalla pula
e renda ragione delle “intuizioni” dell “altro
dalla materia”, che in qualche modo può essere stato intuito
nel
passato dando luogo ad autentiche abmozioni. E a proposito di “intuizioni”
non si può non sottolineare come il paganesimo
greco avesse già espresso
intuitivamente col termine “anima del mondo”,
in modo molto acuto e puntuale,
ciò che noi oggi chiamiamo aiteria, sia pure come concetto unificante e non
pluralistico. In generale potremmo dire che l’intuizione
di qualcosa di
non razionalizzabile e misterioso, che potremmo
chiamare col termine latino arcanum, costituisse l’aspetto autentico del trascendentalismo
religioso-filosofico, ma che quando ciò è
stato tematizzato come “presenza
divina” ideologicamente definita (il2 sacrum”)
si è più o meno consapevolmente messo in
atto un processo di falsificazione
della realtà, rendendo quindi inaccessibile l’aiteria nella sua forma autentica.
Nel ribadire
l’indissolubilità del legame corpo/idema
tematizzando l’arcanum ci occupiamo di un tipo di esperienza
strettamente connessa alla dhianasi, ma che in un certo senso la
precede e non necessariamente ad essa conduce,
anche perché con esso entra
facilmente in gioco la psiche. La sensibilità idemale nei confronti
dell’arcanum forse è addirittura antecedente quella relativa
ai caratteri
aiteriali (corrispondenti alle categorie analogiche a suo tempo trattate), ma ciò avviene in stretto
rapporto con la psiche, sempre molto sensibile a ciò che può scatenare
emozioni di paura, di sottomissione e di adorazione: caratteristiche
sicuramente presenti nell’arcanum. In questo caso si direbbe addirittura
che l’idema faccia coppia con la psiche in una forma quasi
simbiotica per dar luogo alla sua arcaica
cugina religiosa: l “anima” [143].
A chi non è capitato di sentirsi invaso da
una strana commozione, un misto di
esaltazione e di inquietudine, davanti a
un ghiacciaio, o in fitto bosco, o al
cospetto della distesa del mare, oppure...nel
silenzio di una cattedrale, sotto
volte gotiche che si innalzano al cielo?
Solo una persona insensibile può dire
di non aver mai “provato nulla” in tali situazioni.
Ebbene, a parte questi
pochi esempi, potrei elencare una moltitudine
di situazioni nelle quali si è invasi
da una sensazione grandiosa e talvolta terrificante
della bellezza maestosa
della natura, ma anche di quella dell’opera
dell’uomo. Insomma, tutto ciò che
appare misterioso e grandioso, affascinante
e inquietante, bello e minaccioso
può ricadere nella categoria espressa col
concetto di arcanum, che risulta anche
non lontano da quello di sublime, nei termini posti dal Romanticismo [2].
10.2) Ancora sulle esperienze idemali.
Se noi attribuiamo all'idema la capacità di esperire ed
elaborare l’aiteria sorge l'esigenza di cercare di definire
se tali
esperienze siano tipologicamente omogenee
od eterogenee. Si può impostare il
problema da almeno due punti di vista, quello
della causa e quello dell'effetto.
Dal punto di vista dell'effetto le esperienze
idemali possono essere ritenute
sostanzialmente omogenee, anche se con un
gradiente abmozionale diverso. Si va
da un vago senso di inquietudine a uno stato
di eccitazione violenta e da uno
stato di soddisfazione e di pace a una sensazione
di grande piacere e pienezza
vitale. Sarebbe imprudente affermare che
tali stati d'animo siano propri dell’aiteria in sé (come dire omogenei ad essa), della
quale nulla si può
dire di sapere veramente. Molto probabilmente
essi vanno considerati stati
ancora quasi-materiali (infatti l’idema è materiale), ma che si collocano
all’estremo limite della materia, concedendo così alla nostra
sensibilità di cogliere aspetti di una realtà
ascrivibile ancora alla materia
stessa e tuttavia simili (o almeno analoghi)
a quelli dell’aiteria che è possibile
cogliere nelle forme espresse dalle categorie
analogiche. Per questa ragione spero mi verrà perdonato
se qualche volta
definirò “aiteriale” ciò che più correttamente
andrebbe definito sempre e
soltanto “idemale”. Possiamo tuttavia legittimamente
ritenere questi stati
veramente “anticipatori” dell’aiteria
stessa, nella misura in cui ce ne offrono un assaggio
reale,
anche se non assolutamente omogeneo con essa.
Perciò possiamo affermare che gli
stati idemali (per quanto, come abbiamo visto,
raramente “puri”) ci rendono
intuitivamente consapevoli di ciò che l’aiteria può realmente offrire alla nostra sensibilità intuitiva.
È indiscutibile il fatto che le esperienze
idemali siano assolutamente particolari e
molto diverse da quelli corporee e
tuttavia con esse hanno in comune il fatto
di essere assolutamente “fini a se
stesse”, nel senso che esse sono assolutamente
“prive di senso”, o potremmo
dire “senza rinvii ad altro”. Ciò è così
vero che noi durante un’escursione in
mezzo alla natura possiamo provare il piacere
di sentire il nostro corpo in
salute nonché perfettamente funzionante e
insieme percepire e assaporare la
bellezza della natura in cui siamo immersi.
Oppure, starcene comodamente seduti
in poltrona ad ascoltare della musica percependo
nello stesso tempo un
piacevole senso corporeo di relax. Al
contrario, talvolta è dato sperimentare un
tipo di sensazione e piacere resici
dalla psiche in seguito ad un esperienza nella quale (contrariamente
a ciò
che avviene di solito) la ragione non solo ha agito in accordo con la psiche, ma quasi al suo servizio, pur avendo operato
“secondo” se stessa.
Siamo qui nel campo di ciò che fa riferimento
ad una forma particolare di desiderio che è l’ambizione, nella quale le esigenze della
psiche e della ragione vengono a coincidere in una sorta di rara
convergenza. È questo il caso del conseguimento
di una meta o di un ruolo
ambiti da tempo e raggiungibili con sagacità
e perseveranza, ma talvolta anche
con la falsità e l’inganno. Da punto di vista
degli effetti a posteriori le
soddisfazioni della ragione coniugate con quelli della psiche possono renderci stati d’animo
assai piacevoli, ma nello stesso tempo rinviare
ad un correlato sociale che in
un certo senso non riguarda noi “direttamente”,
cioè la nostra individualità.
In questo caso infatti più che l’io è il
nostro “amor proprio” il protagonista
vero di queste operazioni di acquisizione
di beni, prestigio o potere, ed esso
fa riferimento al nostro stato o ruolo in
un contesto sociale dato (nel quale
ci confrontiamo con altri in una competizione
di tipo “selettivo”) e non alla
nostra individualità autentica e libera.
Ovviamente mi sono testé riferito a quelle
che spesso vengono anche chiamate “soddisfazioni
morali”, conseguenti al
raggiungimento di traguardi di possesso,
di potere o anche soltanto di
prestigio. In questo caso, trattandosi di
soddisfacimento morale e non
corporeo, appare ancora più rilevante ciò
che separa questo tipo di
soddisfazioni dal piacere idemale, che come
abbiamo visto è sempre esperito
"in se stesso", senza rinvii ad
altro. Ciò lo differenzia quindi
nettamente dal piacere morale, che per contro
è percepito sempre in vista di
qualcos'altro (che è la vera fonte di soddisfazione),
sia esso piacere atteso,
sperato e differito o strada aperta verso
ulteriori traguardi. In questo campo
va sottolineato che rientra anche il compimento
di una buona azione per
compiacere Dio e in vista di un premio nell'aldilà;
esso è ancora una volta un
atteggiamento finalistico dovuto alla ragione
calcolante, che in questo caso si appaia
a un’esigenza della psiche. Inutile aggiungere che tutto ciò
è straordinariamente “materiale”, eppure
tipico di ciò che può passare
addirittura per “spirituale” in quanto “morale”.
Si coglie qui con la massima
evidenza quanto il meccanismo che ne è alla
base di questa categoria di
operazioni psico-razionalistiche sia tipico
della materialità e per nulla di
una supposta spiritualità, e nel contempo
si coglie l’abisso che lo separa da
un’autentica etica nei termini in cui l’abbiamo posta.
Qui siamo piuttosto nel campo dell’etologia umana [145],
che viene però camuffata da morale
spiritualistica.
Dunque ciò che caratterizza effettualmente
le esperienze dell'idema le rende anche
analoghe a quelle del corpo e talvolta con
esso coniugate. Ciò non è privo di
significato: se i piaceri corporei (almeno
nella maggior parte dei casi) sono
tonificanti e forieri di buona salute, quelli
idemali “formano”
contemporaneamente l'idema, incidendo
sulla sua qualità e avvicinandola così all'oggetto della sua
funzione,
senza che da parte del soggetto volente sia
stata posta alcuna intenzione
finalistica. In un certo senso ciò che caratterizza
le esperienza idemali è una
relativa inconsapevolezza, dove il “sentire”
prevale sul “constatare”.
Ma cerchiamo di osservare da vicino
l'altro punto di vista, quello delle cause,
che sotto l'aspetto gnoseologico è
assai più interessante. Qui non siamo di
fronte a gradi differenti di
sensazioni o di emozioni ma a tipi differenti
di esperienze attribuibili a
cause anche assai diverse. Se pure esistono
territori contigui e non del tutto
caratterizzati noi non possiamo confondere
gli stati di piacere estetico con
quelli di soddisfazione etica, né gli entusiasmi
conoscitivi con l'esperienza
degli affetti. Per questa ragione, dovendo
evitare di fare delle esperienze
dell'idema un brodo di ingredienti
misteriosi abbiamo dovuto (coi limiti del
nostro intelletto) cercare di
darci un quadro di riferimento sufficientemente
definito e ciò ha comportato
qualche schematizzazione e qualche arbitrio.
Questo lo abbiamo fatto
selezionando (per quanto possibile) le cause
e stabilendo delle categorie
sotto le quali fosse possibile riconoscere
i diversi tipi di fonti esperienziali.
Ovviamente tale classificazione ha soltanto
il carattere analogico che le
abbiamo attribuito, con le modalità attraverso le quali l’aiteria si offre alla nostra idema, ma questa è l'unica strada che
noi possiamo percorrere senza umiliare il
nostro intelletto e senza
rassegnarci all'abissale ignoranza a cui siamo condannati in quanto
figli della necessità.
Il tentativo di lettura dell’universo e soprattutto
dello scenario esistenziale che il DAR delinea
(in quanto concernente il nostro essere animali
pensanti collocati in una realtà
plurale e complessa) non è quindi dettato
dalla presunzione, ma è semmai
l'omaggio che da parte di un rappresentante
della materia evoluta viene
tributato ad essa stessa, in quanto, nel
suo processo evolutivo, ha prodotto
una specie di suoi figli in grado di immaginare
la faccia nascosta
dell'universo. Ma un’operazione di tal genere
ha avuto inevitabilmente anche un
carattere semplificatorio e approssimativo;
questo è stato ammesso e va tenuto
presente seguendo la nostra esposizione.
La quale resta un tentativo opinabile
(anche quando assume un tono assertivo) di
scrutare l’ignoto, infatti esso è aperto a cento modifiche
e cento integrazioni da parte di chi ne ritenga
accettabili le premesse ma non gli sviluppi
e le integrazioni. Il DAR non pretende infatti
di essere nulla più che un mosaico filosofico
ragionevolmente fondato, ma largamente integrato
con un certo numero di tessere immaginarie
e tuttavia indispensabili per rendere leggibile
lo scenario esistenziale che esso delinea
quale superamento del materialismo monistico.
10.3) Dell’ingenuità dualistica, dell’eleuteria e del futuro.
Nel DAR il significato che viene dato al
termine ingenuità deriva più dal suo porsi rispetto ai termini
opposti del linguaggio corrente
piuttosto che dal significato del sostantivo
latino ingenuitas, da cui
esso deriva etimologicamente. Semmai ha qualche
assonanza col termine greco
eleútheros, che ha la stessa radice
indoeuropea di "liber", e che è
già stato utilizzato per definire la
libertà individuale antropicamente possibile
ed esercitatile. Gli opposti di
ingenuità sono, come ben si sa: sagacia,
spregiudicatezza, insensibilità,
scaltrezza, ecc. Tutte doti che di per se
stesse non sono necessariamente
negative, ma che risultano spesso essere
correlate strumentalmente al
conseguimento di fini di vario genere, talvolta
in spregio dei diritti civili e
morali dei propri simili o per lo meno con
scarso rispetto verso di essi, alla
cui origine sta un sostanziale disprezzo
dei propri simili in genere. Applicate
in tal senso esse guidano l'uomo verso il
successo o il dominio, il possesso o
il prestigio, vale a dire verso il “potere”
nei confronti degli altri individui
in opposizione all’ingenuo, il quale, rispettandoli
e confidando genericamente
nei suoi simili, non ritiene necessario difendersi
da essi assumendo posizioni
di poter nei loro riguardi.
Sembra evidente che i fini della persona
scaltra non debbano essere perseguiti prioritariamente
da chi viva la propria
materialità (nel presente ed in prospettiva)
astenendosi dall’atteggiamento
(spesso esclusivo e riduttivo) di chi diffidi
dei propri simili e tenda ad
assumere posizioni dominanti o vantaggiose
rispetto ad essi, ricercando ciò che
gli può arrecare in modo contingente o continuativo vantaggi apprezzabili. Sembrerebbe probabile
e coerente che il
dualista viva l’esistentività (la materialità)
con una certa familiarità nei
confronti dell’ironia (che comporta
una certa ridicolizzazione del possesso e
del potere) essendo per contro
sensibile ai segnali esistenziali provenienti
dall’aiterialità dei quali
ritiene importante tener conto nella sua
condotta di vita. Non è detto che il
dualista scelga una linea esistentiva molto
diversa da chi persegue fini
vantaggiosi per sé “a qualunque costo”, ma
qualora il suo comportamento sia
oppositivo ad essi ciò può arrivare a significare
che egli miri proprio al
conseguimento dell’opposto del potere sugli
altri. Questo atteggiamento, sia
per le sue conseguenze di pensiero e di comportamento
lo chiameremo apotere, quale antitesi del potere strumentale dettato dall’ambizione. Questo
fa di lui, appunto,
un “ingenuo” nel senso sopradetto, vale a
dire “libero” da ambizioni troppo
legate alla materialità.
Ma bisogna essere chiari, qui non si intende
affermare "evangelicamente" che
sia "più facile che un cammello..."
e che per guardare ai beni materiali si perda
qualcosa di più “alto” (la benevolenza della
divinità o la beatitudine) rispetto al perseguimento
di qualcosa che sarebbe più “basso”. Il DAR
mette semplicemente in evidenza il fatto
che quanto più ci si “lega” tanto meno ci
si “libera” e che la libertà umana (l’eleuteria) è forse il bene più prezioso che ci concerna
in quanti
esseri viventi sottoposti alla necessità. Quindi ogni attività o comportamento
dettati dal desiderio di acquisire qualche
tipo di “potere” (di beni o di
prestigio) all’interno del consorzio umano
in qualche modo allontana dal
perseguimento della libertà “possibile” dai
vincoli della necessità. Ovviamente è una questione di
misura, la libertà del dualista non è quella
di dormire sotto i ponti e
fatalisticamente sperare nella provvidenza
o nella generosità del prossimo,
anzi, è anche quella "libertà dal bisogno"
di marxiana memoria senza
la quale è difficile sentirsi liberi. Quindi
i beni materiali e i ruoli sociali
gratificanti vanno perseguiti nella misura
in cui ciò migliora la nostra condizione e la nostra situazione, senza però che si finisca
per diventare “dipendenti” della loro ricerca
o ad essi legati più del
necessario per il loro adeguatamente e ragionevole
mantenimento. Non c'è nulla
di male ad essere ambiziosi, cercare di arricchire
e guadagnarsi un ruolo di
prestigio, così come qualsiasi altro sforzo
di autopromozione sociale per sé e
per i propri congiunti è da ritenersi legittimo
e persino auspicabile.
Soprattutto chi è nato povero avverte questo
naturale e legittimo impulso a
migliorare la propria condizione. Bisogna
soltanto vedere quale sia il prezzo da pagare in termini esistenziali
e se questo prezzo non intacchi in qualche
misura la possibilità di continuare
ad essere autonomamente se stessi (realizzando
al meglio la propria individualità)
e quindi “liberi” dalle cose e dagli altri.
Al contrario di molte ideologie e religioni
che predicano la mortificazione della propria
individualità per il raggiungimento della “retta via”
il DAR suggerisce per molti versi l'opposto.
Soltanto con l'affermazione della propria
individualità si va
virtualmente nel senso della qualità
e non della quantità, e tuttavia si
sa che qualcuno può ritenere che la propria
individualità vada
realizzata col possesso e il potere (come
abbiamo visto in Stirner) e per
questa ragione occorre essere chiari su questo
argomento. Si tratta infatti di
un procedere “tendenziale” del dualista,
il quale vive il presente e la
materialità nella loro interezza, spostando
tuttavia i propri parametri di
riferimento verso quella libertà extrafisica dove tutto è qualità.
Più in generale possiamo affermare che il
DAR è lontanissimo da un’etica del sacrificio,
anzi, vi si oppone decisamente. Il dualista
non chiede a sé stesso di rinunciare proprio
a niente, non mortifica affatto il proprio
desiderio, si impone soltanto di dubitare
sempre della validità dei fini verso i quali
si indirizzano le etiche correnti
e dominanti. Così come dovrebbe sempre dubitare
delle aspirazioni della
maggioranza dei suoi simili quando rispondono
a modelli mediatici tributari
della mitizzazione del successo e della visibilità
sociale. Ciò significa avere
maggiori possibilità di realizzarsi nell’eleuteria, la quale si concilia molto bene con l’ingenuità, in quanto questa è anche una forma di
libertà dalle tentazioni di quell’ambizione
sfrenata che può inclinare a una
furbizia senza scrupoli.
Ma abbiamo anche il dovere di ripetere qui
quanto già espresso nel paragrafo 6.4 (L’eleuteria), vale a dire che cercare la comunione, l'assenso
e il successo
presso i nostri simili con qualche scaltrezza
non significa necessariamente
agire contro l’eleuteria e che per
contro non vanno trascurati i rischi che
si corrono con eccessi di ingenuità che talvolta possono procurarci anche un'irrisione
o una
sottovalutazione del tutto inopportuni e
ingiustificati. Peraltro, si tenga
anche che se, come si suol dire, “il mondo
appartiene ai furbi”, ai mezzi-furbi
(e spesso mezzi-fessi) non par vero di poter
ridere di un ingenuo. E d'altra
parte, dobbiamo pure ammetterlo, in un’ideale
scala di valori “correnti” un
ingenuo è talvolta posto appena un gradino
più su di uno sciocco, ma di questo
un dualista non si dovrebbe preoccupare.
Sembrerebbe infatti che ad essere ingenui
ci sia veramente soltanto da perdere. Questa
però è una visione dell’avventura
umana un po’ rozza e riduttiva, in primo
luogo perché, anche da un punto di
vista generale, la ricchezza e il potere
sono ben lontani dall’assicurare
qualcosa di simile all’agognata felicità,
e in secondo luogo perché il dualista
ha una concezione del mondo di
tipo prospettico, che gli consente di considerare
la realtà al di là
dell’orizzonte materiale in cui è limitato
dal suo esistere nella necessità. Infatti, come è già stato
detto, forse, l’idioaiterio che la
nostra idema forma e continuamente
riforma potrebbe persino avere un futuro,
e quindi la morte non essere quell’accadimento
che pone fine, inesorabilmente,
alla nostra avventura di animali con un’idema
dalle caratteristiche evidenziate. Il fatto
importante è infatti che il nostro
orizzonte esistenziale, pluralisticamente
aperto sulla realtà globale,
implica l’ipotesi che l'avventura possa in
qualche modo addirittura continuare
in una dimensione diversa. È allora in tale
prospettiva che l'ingenuità può riservare qualche
contropartita interessante rispetto alle
sue connotazioni esistentive poco o
nulla favorevoli sul piano della materialità.
Rimane pertanto da stabilire che senso
possa avere un nostro eventuale sforzo nel
perseguire, secondo quanto
ipotizzato, anticipazioni analogiche dell’aiteria
che potrebbero contrastare con gli interessi
esistentivi immediati, dal momento
che, in quanto materia, ne restiamo
comunque esclusi nella sostanza. E che se
l’aiteria
risultasse in qualche senso accessibile dopo
la morte (attraverso l’idioaiterio) ad essa accederemo comunque
tutti nella stessa maniera e che ogni previsione
su essa, ottenibile coi nostri
limitati mezzi di intuizione ed intellezione,
rimane una pura operazione
immaginativa priva di alcuna garanzia. Un’eventuale
e post-vitale avventura
aiteriale di un nostro “derivato” (l’idioaiterio)
se ci fosse sarebbe una fatto naturale, generale
e riguardante ognuno di noi, e
non potrebbe in ogni caso essere né punitivo
né premiale, dal momento che
pensare a premi o castighi per l'ambito dell’aiteria sarebbe una pura assurdità. Tuttavia, coerentemente
con ciò
che abbiamo ipotizzato, dobbiamo ritenere
che tale eventuale futuro nell’ambito della qualità non potrebbe essere uguale per
tutti gli idioaiteri, poiché, ancora una volta, questo futuro sarebbe “qualitativamente”
determinato.
Se l’aiteria
si pone, in quanto qualità pura, all'opposto della materia,
nella quale tutto si riduce a quantità,
bisogna chiedersi allora se non valga la
pena spostare il nostro asse di
interesse verso quella parte di noi che ci
consente di intuire meglio
l'irriducibile alla materia e andare
così verso una definizione antropologica
diversa e soprattutto un poco più
svincolata dalla necessità. Questo potrebbe essere infatti non soltanto
uno sterile esercizio esistenziale verso
qualcosa di improbabile o almeno
ignoto (a cui dovremmo predisporci cercando
di diventarne più consoni), ma
potrebbe diventare un esercizio persino un
po’ folle. Tuttavia, va ripetuto che
la nostra idema, in quanto materia
(che abbiamo visto possedere una sua tendenzialità),
è un'autentica struttura dinamica, che si
trasforma e si forma (insieme con l’idioaiterio
che produce) grazie anche agli impulsi che
noi le diamo con le nostre volizioni. Allora si può anche pensare
che noi, per mezzo dell'idema, possiamo diventare in qualche
maniera artefici (o quanto meno collaboratori)
della creazione di un entità che
si aggregherebbe alla realtà
aiteriale essendo “soggettivamente” un po’
nostra, a differenza del corpo, che
tornerà alla materia proprio perché “oggettivamente” ad essa
appartenente. Potremmo allora
arrivare ad affermare che ciò che noi saremo
(come idioaiteri) è un po’ ciò che saremo diventati (come
ideme) nell'avventura dell'esistenza
nella quale il caso ci ha “gettati” [146].
Se ne evince allora che non è poi così sciocco
coltivare un po' di più le
esigenze dell'idema rispetto a quelle
che il contesto materiale ci indica come
obiettivi primari, ma che in quanto
perituri sono destinati a rimanere in ogni
caso obiettivi “a termine”.
Se, dal punto di vista escatologico, noi
dovessimo allora
diventare qualcosa di conseguente a ciò che
saremo stati come ideme e se la formazione
della nostra idema è in relazione
alle sue esperienze dell’aiteria (sia come percettrice sia in quanto
elaboratrice), ne segue che per favorire
queste esperienze occorra liberarsi,
almeno in parte, di ciò che le è estraneo
e la può limitare. Emerge allora il
senso del nostro elogio dell'ingenuità,
la quale, in quanto ci tiene lontani dall’acquisizione
e dall'esercizio del
potere a puri fini materiali, riduce i nostri
vincoli nei confronti degli
istintuali meccanismi competitivi volti a
prevalere sugli altri e ciò ci aiuta
ad aprire ancora un poco di più il nostro
orizzonte verso il futuro .
10.4) L’eireneusi (la sospensione della tensione
esistentiva).
Come corollario dei temi etologici trattati
nel Capitolo 6
(specialmente l’ironia) e di quanto appena enunciato sull’ingenuità accenniamo
qui ad una condizione che vorrebbe essere
tipicamente dualistica (almeno
concettualmente) che è l’eireneusi [147],
la quale riprende l’antico concetto di atarassia (vedi nota 103) ma
che da essa si differenzia in quanto mette
in evidenza ciò che con essa viene
conseguito (una produttiva pace interiore)
piuttosto che ciò da cui ci si
libera (il turbamento). L’eireneusi rappresenta il conseguimento della
tranquillità non tanto per goderla come tale,
ma perché soltanto su di essa si
può fondare una vera dinamicità esistenziale.
Infatti, solo un individuo
riposato e lontano dallo stress può avventurarsi
in esperienze nuove e promettenti
delle quali l’eireneusi ne è in qualche modo una pre-condizione. Ma essa risulta difficilmente conseguibile
isolatamente, essendo il risultato finale
di un complesso di atteggiamenti e
comportamenti di cui abbiamo trattato fin’ora
e di essi quindi una sorta di
coronamento ultimo.
Tuttavia, sotto un certo punto di vista (quello
che ritiene la
filosofia capace di indurre pace interiore
e padronanza di sé) l’eireneusi,
in quanto forma di “relax attivo”, potrebbe
anche passare per una pre-condizione del
vivere e pensare dualistico, eppure proprio
io che ne parlo devo ammettere di di averla
sperimentata e di sperimentarla tuttora come
qualche cosa di abbastanza saltuario e legato
a situazioni esistentive (sanitarie, lavorative,
famigliari, ecc.) sempre abbastanza fortunate
e fortunose. È piuttosto facile filosofare
e vivere “filosoficamente” nella solitudine
e soprattutto senza preoccupazioni esistentive,
lo è un po’ meno col tuo capo che ti mette
in croce, con tua moglie che si lamenta che
guadagni troppo poco e con tuo figlio che
va male a scuola. La situazione tipica e
privilegiata del filosofo, lontano da ogni
impegno e libero di riflettere in santa pace,
non è evidentemente molto pertinente al dualista
tipico, l’uomo della strada, inchiodato alle
incombenze lavorative e famigliari (ma senza
le une o le altre può essere anche peggio!),
al quale si rivolge il DAR come soggetto
privilegiato e per il quale è stato formulato.
Quindi occorre dire chiaramente che l’eireneusi,
in quanto pace interiore che stimola una
concezione dinamica della vita e un
pensiero proiettato verso nuovi orizzonti,
può essere considerato più un
obiettivo ottimistico che uno stato mentale
continuo realisticamente
raggiungibile come “costante”. Tuttavia,
pur nella sua discontinuità, l’eireneusi
può essere realmente sperimentata relativamente
spesso quando, essendo
stata interiorizzata la concezione del mondo del DAR, se ne traggano le conseguenze in termini
esistenziali e si cominci ad alzare leggermente
il nostro punto di vista sulla realtà
corrente della quotidianità e dei problemi
esistentivi che inevitabilmente ci
assillano.
L’importanza dell’eireneusi è però in primo luogo
concettuale, in quanto evidenzia il fatto
che solamente in una situazione
mentale di rappacificazione con se stessi,
ovvero di una convergenza tra weltanschauung
(concezione del mondo) e vita vissuta, è possibile raggiungere
quella condizione mentale operosa, per mezzo
della quale l’individualità
progetta ed esperisce la propria esistenza
“formando” il suo nucleo (l’idema)
in un rapporto con l’aiteria, proiettandosi così anche un po’
“oltre” l’esistenza stessa. L’eireneusi diventa allora anche una sorta
di sensore dello stato mentale che abbiamo
auspicato, quello del relax-attivo,
il quale presuppone la pace con se stessi,
un progetto di vita relativamente
dinamico e un’atteggiamento relativamente
distaccato dalle inquietudini e dallo
stress psico-fisico indotto da un mondo non
privo di elementi di nevrosi.
10.5) Il pensiero e la
realtà (Unicità
e differenza).
Nel paragrafo 1.5 era stata messa in evidenza
l’irresistibile
tendenza del pensare umano (a causa delle
esigenze omeostatiche della psiche) ad unificare il molteplice e ad
omogeneizzare l’eterogeneo, nella spasmodica
ricerca di un’artificiosa unità
globale, forse appagante e tranquillizzante,
ma quasi sempre contrastante con
la realtà oggettiva (ed in
termini generali decisamente falsa). Riprendiamo
ora questo argomento, che
punteggia qua e là tutta la nostra esposizione,
e anche a rischio di qualche
ripetizione vediamone qualche sviluppo. Questa
tendenza a unificare la
pluralità (con le radici in un passato filogenetico
in cui la psiche probabilmente dominava il nostro
pensiero più di quanto non faccia adesso)
si manifesta per lo più
nell’elaborazione di ipostasi religiose o
filosofiche basate sull’unità di
tutta la realtà. Abbiamo però visto che tale tendenza è
presente anche
in molte teorizzazioni scientifiche, le quali,
talvolta pervicacemente, cercano
di unificare ciò che con buona evidenza è
realistico tenere distinto. La realtà è un coacervo infinito di unità discrete,
che si offrono a
un’unificazione in base a elementi o caratteri
comuni soltanto a fini
tassonomici e di studio, ma questi raggruppamenti
(simili agli universali della filosofia medievale)
sono per lo più privi di alcuna realtà e
in ogni caso andrebbero relegati nel
puro campo delle ipotesi di ricerca.
Questa sorta di “divina malattia” monistica
del pensare umano
continua a pervadere l’esercizio del pensiero
in generale e particolarmente in
alcuni contesti (come quello delle filosofie
orientali od orientaleggianti)
molto ancorati alla tradizione, nei quali
da sempre la “totalità unificante”
viene considerata la realtà limite alla quale
tutto tende e al cui concetto il
pensiero umano si “deve” uniformare per trovare
quella “verità” che sta oltre e
al di sopra delle contingenze. Contingenze
(transitorie e instabili) che per
uno strano meccanismo del pensiero irrazionale
unificante (press’a poco come dalle
nostre parti tre secoli fa con Berkeley)
[148]
vengono assimilate all’apparenza e contrapposte
a una immaginifica realtà
originaria e unificata, a cui tutto “dovrebbe”
tornare.
Questo procedimento unificante e omogeneizzante
tuttavia compie
spesso non tanto delle unificazioni ma piuttosto
delle sovrapposizioni, nelle
quali ciò che è differente viene messo insieme
come “aspetto” diverso della
stessa cosa, offrendosi così a quella ermeneutica
infinita che caratterizza
molta storia del pensiero. Né mancano in
questo panorama processi
interpretativi che intervengono pesantemente
sulla realtà oggettiva in nome di
una realtà sovraoggettiva e sovraindividuale
che sarebbe preclusa alla ragione analitica. Ragione che tutto tenderebbe a disgiungere, privando
la realtà ultima e vera (l’insiemistico “tutto”)
della sua parte più preziosa,
che è irrazionalizzabile e sfugge ad ogni
definizione oggettivante (che sarebbe
in quanto tale anche snaturante o pervertitrice).
Risulta evidente come questo modo di procedere
abbia molto in comune con alcune fondamentali
premesse del DAR e presenti delle caratteristiche
analoghe ad esso nel ricercare delle realtà
non oggettivabili nella conoscenza; ciò fa
sì che per il punto di partenza e per una
parte del percorso teorico (la scoperta della
realtà nascosta) l’irrazionalismo corra parallelo
all’elaborazione dualistica. Ma qui dobbiamo
precisare: parallelo sì, ma in direzione
opposta! Infatti, mentre il DAR mette in
evidenza e tematizza la differenza, questi procedimenti
unificanti cercano il superamento delle differenze
(considerate apparenti o
inessenziali) verso una realtà ulteriore
e unificata, in quanto origine e causa
della differenziazione che si manifesta nel
particolare, che sarebbe
inessenziale, fugace e sviante, rispetto
all’essenza vera che sarebbe unica ed unitaria.
Questa tendenza (che va distinta dall’olismo) conduce sempre alla ricerca della sintesi
(laddove la ragione opera l’analisi) presentando
inoltre una direzione fissa, la quale procede
sempre verso quel “limite
trascendentale” che mette fuori gioco la
ragione stessa, ovvero che va sempre “oltre”
il verificabile (che si offre in termini
di differenze confrontabili) e dove si perdono i contorni
ipostatizzando un arcano e insondabile “profondo”
originario, aristocraticamente
sfuggente. Abolite così le differenze, considerate
apparenti, tutta la realtà viene fatta confluire (e
perciò confinata) in un immaginario e sublime
contenitore globale, dove viene
custodita la vera “verità”. La quale verità
sta sempre “fuori” del
“percepibile” e trova la sua propria natura
soltanto nel “pensabile”. Questo
significa che per una teoria unificante-totalizzante
è il pensiero ad essere
reale e non le cose e i fatti dell’esperienza
ratificati dall’intelletto e
dalla ragione. Questa posizione estremistica e idealistica
è in aperto contrasto col tipo di riflessione
e indagine che persegue il DAR, il quale
“usa” il pensiero (in quanto “mezzo”) per
leggere la realtà, ma si guarda bene dal farne un “fine”.
Per evitare equivoci ribadiamo ancora che
ciò che abbiamo
definito pensiero “unificante-totalizzante”
non va confuso con l’olismo (vedi nota 4 del Capitolo 1), il quale è invece il criterio epistemologico
e interpretativo secondo il quale i sistemi
complessi presentano caratteristiche che
non sono riconducibili a quelle dei singoli
elementi che li costituiscono; in altre parole:
il “tutto” di un sistema complesso presenta
caratteristiche assenti nelle parti. Ora,
il DAR non soltanto accetta questo principio,
ma lo ritiene anche applicabile a molte esperienze
complesse che la realtà ci offre, relativamente sia alla materialità
all’aiterialità.
Lo stesso procedimento partitivo non
mette affatto in mora il principio olistico,
in quanto postula che il
funzionamento globale della mente non sia
la pura somma del diverso grado di
attività delle organizzazioni
nel momento considerato e che ogni stato
mentale sia sempre frutto di concadenza e che vada considerato
appunto uno stato di carattere olistico.
Ma proprio il fatto che noi ci riferiamo
ad “unità” funzionali della realtà nota e riconosciuta sta a significare
che né esse né i loro costituenti possono
venire riduttivamente considerate
come elementi effimeri di un “oltre” più
stabile, ma colte nella singolarità
che le caratterizza nel loro “differire”
l’una dall’altra, dove il differire è
il peculiare modo d’essere della pluralità.
Pensare e vivere la differenza significa perciò anche concepire l’esistenza
come una
serie infinita di momenti, ognuno dei quali
gode di una sua specificità
all’interno di una “vita”, la quale solo
a posteriori assume un carattere
unitario (sia per chi ne è protagonista sia
per chi l’osserva o ne è giudice).
Ma tale carattere unitario o riassuntivo
è soltanto una sintesi operata dalla psiche
e dalle infrastrutture mentali (coscienza e memoria)
oppure un’interpretazione propria o di altri
“a cose fatte”. In realtà, la
sintesi storica di una vita non è mai il
“vissuto” reale, se non in quanto
produce altro “vissuto” attraverso operazioni
di reminiscenza, la quale
determina sicuramente emozioni ed
anche abmozioni, ma fuori del flusso
esistenziale “ormai” storico considerato.
D’altra parte, non avrebbe senso
ritenere che sia possibile vivere una vita
nel suo insieme, poiché essa rimane
sempre e soltanto una pluralità di momenti
esperienziali più o meno connessi,
ognuno dei quali “è” in se stesso, senza
alcun rimando ad un’essenza che li
comprenda e meno che mai li unifichi. Questa
unificazione può avvenire
solamente da punti di vista storici o letterari
esterni e quindi reali per se
stessi ma non per ciò che narrano o interpretano.
[143] Ricordiamo (vedi nota 46 nel paragrafo 2.1)
che l
“anima” come viene intesa dalla religione
cristiana (sulle orme dualistiche
dell’orfismo, del pitagorismo e del platonismo) viene
considerata ospite di un “corpo” che in qualche
modo le impedirebbe di
innalzarsi verso la divinità
[144] La storia del concetto di sublime
è piuttosto interessante e soprattutto la
sua tematizzazione romantica quale
vera e propria categoria estetica a sé stante
e per di più contrapposta al bello.
Secondo Kant il sublime può essere “matematico” relativamente
all’estensione (l’oceano, il cielo, ecc.)
oppure “dinamico” relativamente al
turbamento che produce (un eruzione vulcanica,
un uragano, ecc.).
[145] L’etologia umana è una scienza impostata da
Konrad Lorenz e sviluppata dal suo allievo
e collaboratore I.Eibl-Eibensfeldt
il quale, attraverso lunghi soggiorni in
contesti etnologici, ha documentato
molto bene alcune modalità “fisse“ di comportamento
dell’homo sapiens,
anche in contesti molto lontani tra loro
e risultanti del tutto analoghe a
quelle degli altri animali.
[146] Utilizziamo qui un verbo tipicamente heideggeriano,
ma
con significato molto diverso. Per Heidegger
l’esserci (l’individuo) è
da sempre gettato nel mondo della quotidianità
(inautentico) in una condizione
di reciproca appartenenza. Per noi
l’individuo è “gettato” dal caso nell’esistenza, senza alcuna
preparazione o progetto. Con questo aggettivo
intendiamo mettere in evidenza la
causalità, la precarietà (e quindi il fatale
ritorno alla materia da cui
è scaturita) di ogni individualità animale venuta ad esistere.
[147] Il termine deriva dalla parola greca eireneusis,
che significa “pacificazione” (che
noi intendiamo “con se stesso e col mondo”).
[148] George Berkeley
(1685-1753) teologo e filosofo irlandese
è stato un enunciatore del primato
dello spirito sulla materia. Su tale base egli dichiarava che le
cosiddette “idee astratte” in realtà non
sono tali , ma, al contrario, sono
rappresentazioni concrete di una realtà particolare.
Non è l’esperienza a
rendere la realtà, in quanto il mondo materiale
che essa concerne è fittizio,
dal momento che tutte le qualità che esso
presenta e offre sono secondarie e
non fondamentali. Le sensazioni che la materia
ci dà sono pertanto sempre
ingannevoli, avendo realtà solo nel momento
in cui esse hanno luogo. Le idee,
al contrario, riposano nello spirito (Dio)
e quindi sono assolutamente
reali.